Malcom Pagani, il Fatto Quotidiano 6/2/2013, 6 febbraio 2013
VINCENZONI: WILDER RIDEVA SOLO CON ME
Con il Marsala razionato, i fogli scritti a macchina e la realtà in lotta col paradosso: “Ho un brutto male, è per questo che fumo” Luciano Vincenzoni vorrebbe essere altrove. In America, dove registi e produttori l’avrebbero tenuto per sempre: “Non rimasi, la più grande sciocchezza dei miei 87 anni” o nel Neorealismo parigino in cui Pietro Germi dimenticava la fame: “Firmammo un contratto con la United Artists di Ilya Lo-per, lui tornò in camera, telefonò alla moglie: ‘Marianna, siamo ricchi’ e iniziò a piangere”. In una delle sue visioni remunerate: “Non ha idea di quanto pagassero” e premiate ovunque. Sessanta film. Oscar, palme, leoni. Commedie, drammi, esperimenti. La grande guerra e Giù la testa, Signore e signori, Per qualche dollaro in più, Il buono, il brutto, il cattivo. Lo sceneggiatore Vincenzoni vive ancora di passioni. Alza la voce, si incazza, ride, batte i pugni sul tavolo. Per il set non scrive più e sui suoi eredi, non promette testamenti: Non mi chiama più nessuno, ma me ne frego. L’amarezza è un’altra.
Quale?
Veder morire il cinema che avevamo amato. Quel che c’è adesso fa solo pena. Billy Wilder aveva capito tutto. Andai a trovarlo in ospedale quando stava per andarsene. Aveva scritto un soggetto. Me lo regalò: “Tienilo tu, a me non fanno più scattare neanche una Polaroid”.
Che storia era?
C’è un regista vecchio che nessuno fa più lavorare e investe tutto quel che possiede nel suo ultimo film. Affitta un ufficio alla Paramount e scopre che l’adiacente cimitero è in espansione e si annetterà la parte degli studios in cui lavora. La metafora della sua vita e di un’arte spazzata via da computer e tv.
Lo conosceva bene Wilder?
Ero l’unico che lo facesse ridere. Mi chiamava ‘l’italiano pazzo’. La prima volta che ci parlai lo mandai a fare in culo.
Perché?
Chiamarono dall’America in piena notte. Una signorina troppo calma assicura che il signor Wilder desidera parlarmi. Penso: “Sono Age e Scarpelli”. Lavoravamo insieme fin dai tempi della Grande Guerra e sugli scherzi non avevano rivali. Così sto al gioco e quando arriva la voce maschile, libero il vaffanculo e attacco.
E Wilder?
Non se la prese e richiamò. Dopo aver scritto Cosa è successo tra tuo padre e mia madre diventammo amici fraterni. La sera io e Audrey, la moglie di Wilder, sfamavamo la truppa con polenta e carbonara. Gregory Peck, Jack Lemmon, Candice Bergen con cui parlavo di Celìne. Bei tempi.
Celìne le piaceva?
Il più grande di tutti. Un genio. Che sia finito povero e reietto è una vergogna. In Viaggio al termine della notte c’è una risposta a ogni perché e a Parigi, nel ’68, era la Bibbia dei manifestanti. La vittoria fuori tempo massimo del signor Destouches. Quando anni dopo incontrai Kerouac, fu chiaro: “Mai letto nessun altro libro europeo. Oltre non era possibile andare”.
Gli inizi?
Facendo da mediatore su una partita di vestiti militari nella Treviso del dopoguerra. Li aveva acquistati Tony Roma, ex tenente di Marina a cui anni prima avevo offerto un costoso cognac pur avendo le tasche quasi vuote. Se ne ricordò a liberazione avvenuta e dalla povertà più nera trovai i soldi per scendere a Roma e realizzare il sogno. Amavo il cinema, il padrone della sala locale mi faceva entrare sempre gratis.
Roma?
Avevo incontrato Aldo Fabrizi e scritto Hanno rubato un tram, ma per il Popolo del Bar Rosati era come se non esistessi. Salutavo, mi sbracciavo, mi ignoravano. Per chi veniva dalla provincia e non faceva parte della cricca era più dura. Capitava a me come a Ferreri e Fellini. Poi c’era il partito. Il cinema venne assaltato dai comunisti, i cinematografari furbi si travestirono iscrivendosi al partito. In molti. Anzi quasi tutti. Io No. E neanche Germi.
Con Germi i rapporti erano ondivaghi.
Ci volevamo bene, ma litigammo per uno di quegli equivoci terribili che animano l’esistenza. Facemmo pace. Mi venne a trovare offrendomi di scrivere Amici miei e mi lasciò una foto, guardi.
C’è una dedica: “Come è triste essere soli”.
Stava già male Pietro, uno che ha vinto l’Oscar ma non nominano mai perché non faceva parte della congrega. Carattere duro, serio, grande regista.
Conobbe anche Petri e Leone.
Bravissimo nel mestiere Elio, con un tremendo carattere. A Mosca, durante una cena discutemmo. C’erano gli affreschi, le bandiere e le donne sul trattore. L’epica della patria e la tavola vuota. Mi spazientii. Chiamai un cameriere, gli diedi 10 dollari e gli dissi: “Acqua e pane”. Arrivò di corsa. Mi girai verso Elio e provocai: “Il capitalismo vince sempre”. Con Sergio il rapporto era di lunga data. Gli americani mi avevano dato il compito di ridurre a due ore la versione americana dei suoi film. Per lui tagliare il suo lavoro equivaleva a tagliarsi le palle. Discutevamo. Con affetto.
Dino De Laurentiis?
Abbiamo lavorato insieme per un tempo che oggi mi sembra infinito. Ci conoscemmo nel ’55. Decisi che dovevo arrivare di fronte a Dino. Gli telefonavo da mesi, regolarmente respinto. Presi un taxi, bluffai: “mi aspetti, torno tra poco” e mi presentai. Per superare il check point della severissima segretaria servì la forza della disperazione: “Non ce l’ho con lei, ma non vorrei fosse la prima a prendersi un calcio in culo dal sottoscritto. Non è mai accaduto”.
Si scostò?
Con orrore permettendo a “La différence entre la gloire et la merde” di emergere nel suo splendore. L’ufficio era enorme. Di-no troneggiava dall’alto di una sedia altissima. Chiesi pochi minuti. Raccontai sette film. Esausto mi fermò: “La prego, sta parlando da due ore. Compro tutto”. Poi per le spese, mi diede due milioni. Le banconote erano grandi come lenzuola. Uscii e al tassista che mi aveva portato fin lì, dubbioso sul mio ritorno, chiesi solo dove avrebbe preferito mangiare. Andammo nel miglior ristorante della città.
Ha guadagnato molto?
Mi sono divertito, ho lottato, scialacquato patrimoni e amato molto senza alcun rimpianto.
Wilder la chiamava Casanova.
Mi prendeva in giro. Stavo con un’attrice che mi riempiva di corna e mi confidavo con lui. Gli scrivevo.
Grafomane nato.
Se hai una buona idea, bastano 15 giorni per darle forma. Altrimenti l’idea non esiste. Gillo Pontecorvo che con il povero Solinas impiegava non meno di tre anni per scrivere un copione, si stupì. Mi avevano chiesto aiuto dalla produzione: “Non finiremo mai a questi ritmi”. Risolsi la pratica in 13 giorni, Gillo, mente acuta e cacadubbi a prescindere era sconvolto.
La grande guerra: un trionfo.
Feci un furto che non confessai né a Monicelli né a Furio, né ad Age. Avevo letto un bellissimo libro di Roland Dorgelés, Le croci di legno e copiai di sana pianta la scena del ritorno dei soldati che si vede nel film. A Venezia il presidente della giuria Marcel Carnè a fine proiezione inizia ad applaudire. È il segno che il Leone è di Mario. Alla festa, Carnè mi avvicina: “Bella quella iperbole, l’ha scritta lei?”.
E lei?
“L’ha scritta Dargelès, maestro”. “Bravo ragazzo, sei una persona per bene”.