Robert Draper, National Geographic 30/1/2013, 30 gennaio 2013
RITORNO AL FUTURO LIBIA
L’effigie in bronzo della nemesi di Muammar Gheddafi è distesa sulla schiena dentro una cassa di legno, avvolta nell’oscurità del deposito di un museo. Si chiamava Settimio Severo. Come Gheddafi era originario dell’attuale Libia e per 18 anni, a cavallo tra il II e il III secolo, aveva governato l’Impero Romano. La città in cui era nato, Leptis Magna (un importante centro mercantile che sorgeva 130 chilometri a est di quella che i Fenici chiamavano Oea, l’odierna Tripoli) divenne per molti aspetti una seconda Roma. Oltre 1.700 anni dopo la sua morte, i colonizzatori italiani vollero onorare l’imperatore con una statua imponente che lo raffigurava con la barba e una torcia nella mano destra. Il monumento fu installato nel 1933 nella piazza principale di Tripoli (oggi piazza dei Martiri) e lì rimase per circa mezzo secolo, fino a quando un altro leader libico non cominciò a detestarlo.
«La statua divenne il simbolo dell’opposizione perché era l’unica cosa che Gheddafi non poteva punire», racconta Hafed Walda, nato in Libia e docente di archeologia al King’s College di Londra. «Ogni giorno la gente si chiedeva: "Che avrà detto oggi Settimio Severo?", quindi la statua divenne fonte di irritazione per il regime. Alla fine Gheddafi decise di gettarla tra i rifiuti. Gli abitanti di Leptis Magna la recuperarono e la portarono a casa». Ed è lì che l’ho trovata, conservata in una cassa di legno fra attrezzi da giardinaggio e vecchi telai di finestre, in attesa della destinazione che la nuova Libia deciderà di assegnarle.
Gheddafi aveva ottimi motivi per sentirsi minacciato da quella statua. Settimio Severo, infatti, era un fastidioso memento di ciò che la Libia era stata in passato: una regione del Mediterraneo con immense risorse economiche e culturali, tutt’altro che isolata dal mondo che stava al di là del mare. La Libia, i cui 1.800 chilometri di costa sono delimitati su entrambi i lati da altopiani che gradualmente lasciano il posto a uadi semidesertici e infine al vuoto color rame del deserto, era stata a lungo un corridoio di scambi, arte e irrefrenabili ambizioni sociali. La Tripolitania, ovvero la regione delle tre città (Leptis Magna, Sabrata e Oea), forniva grano e olive all’Impero Romano.
Eppure Gheddafi fece un pessimo uso dei punti di forza del paese: la collocazione geografica, proprio a sud dell’Italia e della Grecia, che ne fa una delle porte d’accesso all’Europa per il continente africano; una popolazione governabile (meno di sette milioni di abitanti su un territorio sei volte più vasto dell’Italia); e le ingenti riserve di petrolio. Represse l’innovazione e la libertà d’espressione. Per i bambini che andavano a scuola e imparavano a memoria la complicata filosofia del leader riassunta nel suo Libro verde la storia del paese si riduceva in due capitoli: i tempi bui dell’oppressione imperialista dell’Occidente e i giorni gloriosi del Fratello Leader.
Oggi il dittatore e la sua visione distorta della Libia sono morti, e la nazione sta vivendo un travagliato processo di rinascita. «Il viaggio della scoperta è appena cominciato. Per molti aspetti questa fase è più pericolosa della guerra», dice Walda. Le prigioni temporanee sono stracolme di lealisti di Gheddafi in attesa di conoscere quale sarà la loro sorte dopo le riforme legislative e giudiziarie. Le milizie controllano intere aree del paese. Le armi sono meno visibili di quanto non fossero durante la guerra ma questo significa solo che le centinaia di migliaia di persone che le possiedono hanno imparato a tenerle nascoste. Le grandi strade che attraversano le aree rurali sono completamente prive di controlli (fatta eccezione per i checkpoint gestiti dagli ex ribelli o thuwwar). Folle di immigrati si riversano nel paese dal confine occidentale e da quello meridionale. I più importanti uomini di Gheddafi, così come sua moglie e alcuni dei suoi figli, sono riusciti a fuggire. Alcuni dei nuovi ministri sono già stati corrotti.
L’attacco terroristico al consolato statunitense di Bengasi dello scorso settembre ha lasciato l’impressione di un paese ancora sul filo del rasoio. Ma nonostante le difficoltà la Libia non è sull’orlo dell’anarchia. Il Congresso Nazionale Generale eletto democraticamente sta nominando la commissione che redigerà la nuova costituzione. In gran parte di Tripoli regna la calma. Nella nevralgica Piazza dei Martiri, che durante la rivoluzione è stata teatro di duri scontri a fuoco, un paio di motociclette gira zigzagando rumorosamente intorno alle giostre appena installate. Nel centro della città fervono le attività. Sul lato sud della piazza si vendono le nuove pubblicazioni nate dall’inizio della protesta. A est, decine di persone affollano il cortile di un bar sotto una torre dell’orologio di epoca ottomana, chiacchierando davanti a caffellatte e cornetto. Striscioni e graffiti raffiguranti la bandiera rossa, nera e verde, proibita da Gheddafi per 42 anni perché associata al deposto re Idris, adesso decorano tutti gli edifici. Cartelloni e manifesti recano le immagini dei tanti ribelli caduti accompagnate da frasi come: "Siamo morti per la Libia libera, fate in modo che rimanga così!", o: "Consegnate tutte le armi!". Per strada i passanti esclamano in inglese: «Benvenuti nella nuova Libia».
Dietro le incertezze e la confusione c’è una nazione animata da un’impazienza quasi adolescenziale di riprendere i contatti con il mondo libero. Salaheddin Sury, un anziano docente, racconta: «Quando nel 1951 ottenemmo l’indipendenza non soffrimmo molto. Stavolta i giovani hanno pagato con il loro sangue. E se allora non mi importava dell’inno nazionale, adesso l’ho imparato a memoria», aggiunge con un sorriso orgoglioso.
Ma nel faticoso cammino verso la rinascita il patriottismo offre solo il miraggio di una via breve e lineare. Come ammette Sury, la ricostruzione della Libia «deve ripartire da zero». L’attacco terroristico del settembre scorso getta un’ombra sui tentativi di rafforzare la stabilità e formare un nuovo governo. Per quanto i 30 mila libici che dieci giorni più tardi hanno protestato contro i miliziani rappresentino un buon segnale per il futuro del paese, è ancora presto per stare tranquilli. Per ragioni tanto evidenti quanto insidiose la Libia è ancora parzialmente accecata dalla mano pesante del suo ex dittatore. E, come la statua nella cassa di legno, aspetta il suo futuro sotto una luce implacabile.
Nel Febbraio 2011, quando la rivoluzione raggiunse il polo commerciale di Misurata, Ornar Albera andò dalla sua famiglia e dichiarò: «Mi toglierò l’uniforme e combatterò contro Gheddafi». «Ma sei un poliziotto», esclamò la moglie, «gli altri ti guarderanno con sospetto. E se la rivoluzione fallisse? Che faremmo allora?».
Anche il figlio più giovane espresse i suoi timori. Solo il figlio maggiore dell’ufficiale di polizia appoggiò la sua decisione; in seguito scelse di combattere al fianco del padre e morì in battaglia a 23 anni. I giovani ribelli che il colonnello aiutò a organizzarsi non avevano esperienza della guerra e poiché all’inizio non avevano armi a disposizione si limitavano a lanciare pietre e bombe molotov. Quando cominciarono a impadronirsi delle armi dei soldati morti, il poliziotto insegnò loro a sparare. Tra quei giovani vi erano anche criminali che in passato aveva arrestato: erano più duri degli altri e fu contento di averli in squadra; essi, a loro volta, finirono col considerarlo un ribelle come loro.
Dopo che Misurata respinse un feroce assedio di tre mesi da parte delle truppe di Gheddafì (una battaglia di Leningrado in piccolo, che ebbe un ruolo decisivo nella rivoluzione ma fece pagare un costo altissimo alla terza città della Libia), Albera rimise l’uniforme che aveva indossato nei 34 anni di regime. Oggi è il capo della polizia di Misurata. Il suo obiettivo è trasmettere agli abitanti della sua città una nuova idea di poliziotto: l’uomo che indossa l’uniforme non è un ladro ne un violento, bensì un protettore dei cittadini, e i ragazzi dovrebbero aspirare a emularlo, considerando l’uniforme un simbolo di dignità, non di criminalità. Il nuovo capo non è un superficiale idealista. Ha 58 anni, ma dimostra l’equilibrio e la saggezza di un uomo molto più anziano. Non è un illuso e sa che la fiducia non si conquista dall’oggi al domani, visto che per molto tempo almeno tre quarti dei poliziotti libici si sono macchiati di corruzione.
A complicare il lavoro del capo c’è anche il fatto che, in ultima analisi, non è lui la massima autorità di Misurata in materia di applicazione della legge. «Il potere, in realtà, è in mano ai thuwwar», dice. Gli equipaggiamenti della polizia sono andati distrutti durante la guerra; ora le armi sono nelle mani di giovani che lui stesso ha aiutato per combattere la rivoluzione. «Erano coraggiosi, ma non erano stati addestrati per comandare», spiega. «Molti sono onesti, alcuni sono influenzabili; insomma, la situazione è molto delicata».
Una situazione delicata che ha vaste implicazioni. I David che hanno sconfitto Golia con le fionde adesso governano, e non hanno intenzione di cedere il potere a un nuovo gigante, ne di restituirgli le armi. Tantomeno sembrano disposti a perdonare e dimenticare. Inoltre, nel paese ci sono ancora sostenitori di Gheddafì. Alcuni sono vicini di casa. Nel caso di Misurata il vicino è Tawergha, la città operaia a 40 chilometri di distanza da cui partì l’assalto delle forze governative.
Uno degli elementi chiave della politica di Gheddafi era un bellicoso populismo mirato a indebolire i centri urbani che minacciavano la base del suo potere. Verso la fine del suo regime il leader libico cercò di ingraziarsi gli abitanti di Tawergha (prevalentemente africani di pelle nera di origine subsahariana) concedendo case e lavoro in cambio della fedeltà assoluta. Questa strategia del divide et impera mise città e gruppi etnici e tribali della Libia gli uni contro gli altri. La rivoluzione trasformò quelle divisioni in fronti di battaglia. In poco tempo città come Riqdalin e Al Jumayl diventarono le basi degli attacchi lealisti contro la più grande Zuara. Az Zintan fu assediata dalla vicina Al Awaniya, abitata dalla tribù dei Mashashiya. Una milizia tuareg spalleggiata da Gheddafi uccise un ribelle che protestava a Gadames. Volontari di Tawergha si unirono ai soldati del leader e marciarono su Misurata, uccisero i loro vicini e stuprarono le loro donne.
I resoconti delle violenze sulle donne hanno fatto impazzire di rabbia gli abitanti di Misurata. Le cifre esagerate (gli stupri furono 50,400,1.080? O addirittura 8.600?) vengono smentite dai simpatizzanti di Tawergha (non ci fu alcuna violenza, l’ostilità nei confronti dei cittadini di Tawergha ha ragioni razziali). Una cosa è certa: Tawergha oggi è una città fantasma. Gli abitanti di Misurata la evacuarono con la forza e distrassero la maggior parte dei suoi edifici. Quasi 30 mila nativi di Tawergha oggi vivono nei campi prorughi, soprattutto a Bengasi e a Tripoli. Quando ho visitato i resti crivellati di colpi di quella che un tempo era Tawergha le strade erano vuote, fatta eccezione per qualche proiettile d’artiglieria, qualche abito stracciato e un gatto affamato. Le strade che conducevano alla città erano sorvegliate dalle milizie di Misurata. Nessuno può tornare a Tawergha.
Gli abitanti di Misurata non vogliono neppure sentir parlare di rappacificazione. «È inaccettabile che chi ha violentato e ucciso le nostre sorelle viva di nuovo in mezzo a noi!», dice con voce stentorea e tremante Mabrouk Misurati, un grosso commerciante locale. «Non è facile. Prima di arrivare alla riconciliazione il nuovo governo dovrà assicurare alla giustizia i responsabili di quei crimini. Poi potremo iniziare a parlare di un loro ritorno».
Questo desiderio di vendetta preoccupa il nuovo capo della polizia di Misurata. «Non possiamo giudicare tutti gli abitanti di Tawergha con 10 stesso metro», dice Albera. «Non possiamo ricorrere alle punizioni di massa come faceva Gheddafi. Dobbiamo agire secondo la legge. È questo l’obiettivo della nuova Libia».
I risultati arrivano per gradi. Albera è riuscito a formare un consiglio di sicurezza composto dai membri della milizia più equilibrati e a convincerli a inventariare le loro armi. «Dobbiamo riprendere 11 controllo della situazione», sostiene. Qui si spara troppo, a volte si muore per caso, come i due uomini a cavallo uccisi dai colpi esplosi durante i festeggiamenti di un matrimonio, in altri casi si tratta di falde cruente. Troppe auto circolano senza targhe, troppi criminali liberati nel caos della rivoluzione girano ancora indisturbati per strada. E d’altra parte in quei giorni alcuni hanno combattuto coraggiosamente al suo fianco. Come dovrebbe comportarsi con loro?
Troppi giovani, inoltre, assumono droghe. Questo però per Albera è comprensibile. «Considerato quello che hanno passato di recente, molti avrebbero bisogno di un trattamento psicologico», dice. «Anzi, forse ne avremmo bisogno tutti. Mio figlio ha 17 anni e ha visto morire il fratello».
Ma come fa una nazione a ripulire la propria anima? I bambini di Misurata che prima recitavano il Libro verde a memoria oggi devono dimenticarne Fautore, l’uomo che ha ucciso i loro padri e le loro sorelle. «Gli anni di Gheddafi sono stati cancellati dai testi scolastici», racconta un insegnante. «Non pronunciamo più neppure il suo nome. È stato sepolto per sempre».
I fantasmi della passata grandezza della Libia sono ancora ben visibili grazie al clima asciutto, alla scarsa urbanizzazione, alle credenze tribali che impongono il rispetto dei resti dei defunti e all’abbondanza di sabbia, un ottimo conservante. Sulla costa occidentale si trova Leptis Magna, uno dei siti archeologici più spettacolari al mondo. L’arco trionfale, l’ampio foro e le strade delimitate da colonne evocano una città molto dinamica, il cui splendore era ancora più evidente prima che i francesi la spogliassero del marmo per utilizzarlo nella costruzione di Versailles e le monumentali statue degli imperatori romani (Claudio, Germanico, Adriano, Marco Aurelio) venissero trasferite al museo di Tripoli.
Più a ovest, lungo la costa, sorge l’ex centro mercantile di Sabrata, dominato dal maestoso teatro romano in arenaria del II secolo. Dietro le colonne corinzie che fanno da sfondo al palcoscenico luccica l’azzurra distesa del mare. Mussolini che vedeva nella città un simbolo della potenza di Roma ordinò il restauro del teatro, distrutto nel terremoto del 365 d.C, e presenziò all’inaugurazione nel 1937, in occasione della quale fu messo in scena Edipo re; si dice che i soldati italiani ordinarono alla gente di applaudire fino a spellarsi le mani.
A est invece si trova il più duraturo rivale archeologico dei siti romani: la roccaforte greca di Cirene, cruciale centro agricolo i cui resti di un anfiteatro e di un tempio di Zeus eretto 2.500 anni fa testimoniano un passato di prosperità. Dopo secoli di dominio straniero, nel VII secolo le tribù beduine invasero la Libia. Con loro arrivò l’Islam, una cultura spirituale che resistette a tutte le forze esterne arrivate in seguito: gli ottomani, gli occupanti italiani, le forze militari inglesi e americane, le compagnie petrolifere straniere e una monarchia sostenuta dai paesi occidentali. Subito dopo il golpe militare che destituì Idris I nel 1969, Muammar Gheddafi iniziò a riscrivere la storia della Libia, sostenendo che i veri libici erano gli arabi e non i berberi, o Amazigh, popolo indigeno dell’Africa del Nord. Così facendo mise se stesso, figlio di un beduino arabo, al centro dell’identità libica.
I siti greci e romani non avevano nessun valore ai suoi occhi. Considerava le antiche rovine alla stessa stregua dell’occupazione italiana. E mentre i resti archeologici di Leptis Magna, Sabrata e Cirene non godettero più di nessuna attenzione, il museo di Tripoli allestì intere mostre dedicate al Fratello Leader, esponendo persino la sua jeep e il suo maggiolino Volkswagen. Celebre la sua abitudine di dormire in una tenda anche quando era in visita di Stato a Parigi o a Roma: Gheddafi aveva abbracciato una versione antiquata dell’etica beduina, dice Mohammed Jerary, direttore degli archivi nazionali libici. «Era un beduino, e come tale voleva imporre i valori della sua etnia su quelli già consolidati; la tenda sconfiggeva il palazzo. Voleva che noi libici dimenticassimo le città e gli aspetti più sofisticati della civiltà, incluse la cultura e l’economia. Ma neppure i beduini erano più quelli del passato. Avevano imparato che non era giusto invadere un luogo tutte le volte che i loro cammelli non avevano più da mangiare. Avevano imparato a credere nei sistemi e nel governo. Gheddafì adottava solo gli aspetti più deteriori dello stile di vita beduino».
Il suo regime fu un caos orchestrato ad arte. «Non esistevano procedure stabilite o consuetudini, le cose potevano cambiare da un momento all’altro, destabilizzando chiunque», racconta Walda. «E così, all’improwiso, magari capitava che non si potesse più possedere una seconda casa, andare all’estero, praticare sport di squadra o studiare una lingua straniera». Molti tra i più importanti intellettuali del paese furono rinchiusi nel temuto carcere di Abu Salim, dove nel 1996 gli agenti di guardia massacrarono circa 1.200 detenuti. I religiosi musulmani si ritrovarono in prigione con l’accusa di essere più fedeli all’Islam che non al loro leader. I lealisti dei comitati rivoluzionari di Gheddafi sorvegliavano le aule scolastiche e i luoghi di lavoro. Il libro paga del governo si riempì di centinaia di migliaia di nomi di persone a cui venivano pagati salari di sussistenza per non fare niente. I leccapiedi vivevano nel lusso, mentre anche i più bonari critici del regime venivano, per dirla con un eufemismo usato da alcuni libici, "portati dietro il sole".
Gheddafi non risparmiò neppure la geografia della Libia. «Ampliò il litorale di Tripoli riempiendo il fondo marino di sabbia per piantarci delle palme: voleva dimostrare che la Libia non guardava più al Mediterraneo», racconta Mustafa Turjman, archeologo del Dipartimento delle Antichità dal 1979. «Era il dio dell’orrido». Nel 2004, nell’unico gesto concreto rivolto al mondo esterno, Gheddafi completò una nuova via di comunicazione: un gasdotto sottomarino per trasportare gas naturale in Sicilia. Quanto agli altri legami con il mondo, il dio dell’orrido li recise tutti.
Poco dopo l’arrivo dei primi feriti da arma da fuoco al pronto soccorso dell’ospedale di Al Jala, a Bengasi, nel pomeriggio del 17 febbraio 2011, il chirurgo cominciò a urlare ordini a tutti. Poi si zittì. Il suo ex marito le diceva sempre: «Maryam, non sta alla donna prendere le decisioni. Prima deve ascoltare l’opinione dell’uomo». Aveva ragione lui?
Ma nelle strade di Bengasi i militari sparavano ai civili. Gli uomini di Gheddafi avevano ordinato al direttore dell’ospedale di non curare i ribelli. Quando questi ignorò l’editto, gli scagnozzi del regime invasero l’ospedale prendendo i nomi dei medici che continuavano a lavorare. La trentunenne Maryam Eshtiwy non si tolse il camice ne tornò a casa, se non il terzo giorno e solo per allattare la bimba di sei mesi che aveva lasciato dai nonni. Dopodiché, tornò dalle centinaia di giovani feriti che occupavano ogni spazio dell’ospedale.
In un solo giorno, la convenzione sociale che imponeva alle donne libiche di rimettersi alle decisioni degli uomini sembrava crollare come per effetto di una scossa di terremoto. Possibile? La Libia è stata per molto tempo una nazione islamica moderata. Gheddafi aveva incoraggiato la partecipazione delle donne all’istruzione e al lavoro. Ciò che ora resta da vedere, però, è se un paese che cerca di ristabilire un collegamento con i vicini europei darà ancora più spazio ai diritti delle donne oppure preferirà rinunciare al talento di metà della sua popolazione.
È probabile che anni di lotte alle tradizioni arabe più radicate abbiano aiutato una donna determinata come Eshtiwy nei primi violenti giorni della rivoluzione libica. «Diciamola tutta, dopotutto faccio un lavoro da uomo», ricorda. I suoi genitori avrebbero preferito per lei una carriera più tranquilla da farmacista o da oftalmologa. Il primario di chirurgia (un uomo, ovviamente) non le ha reso la vita facile. Era impossibile non notare che durante il giro di visite gli uomini non venivano mai criticati mentre tutte le volte che lei presentava un caso lui aveva da ridire su ogni punto, quasi volesse spingerla ad abbandonare il lavoro. Eshtiwy gli fece capire che non aveva nessuna intenzione di farlo.
E fu altrettanto chiara con l’ex marito, un chimico, prima di sposarlo: «Sono un chirurgo, lavorerò in ospedale e continuerò a guidare la mia auto». All’epoca l’uomo si era detto d’accordo. Il loro era una matrimonio in parte combinato: si erano conosciuti tramite la sorella di lui, poi c’erano stati due mesi di corteggiamento, il fidanzamento e quindi la tradizionale cerimonia di nozze di tre giorni con 700 invitati, culminata con i voti pronunciati davanti a un pubblico di sole donne mentre tutti gli altri uomini, eccetto lo sposo, ingannavano il tempo fuori dalla sala.
Da un giorno all’altro l’atteggiamento del marito nei confronti del lavoro cambiò. «Scusatemi se dico una cosa del genere, ma agli uomini non piace che le mogli siano migliori di loro», dice Eshtiwy. Una mattina, lui le telefonò per comunicarle che aveva deciso di divorziare. Secondo la legge islamica vigente in Libia la donna non può opporsi, neppure se è incinta di tre mesi com’era lei in quel momento. Quando un anno dopo scoppiò la guerra, la famiglia e gli amici cominciarono a farle pressioni: «Torna da lui, forse ha imparato la lezione. Se dovessero ucciderti in ospedale, tua figlia resterà senza madre».
I ribelli feriti, comunque, non si adombravano alla vista di un chirurgo femmina. Anzi, alcuni preferivano il suo modo di trattare i pazienti, la sua empatia. E oggi all’ospedale di Al Jala molti mariti sono sollevati all’idea che sia lei e non un uomo a visitare le loro mogli. Eshtiwy si sente relativamente sicura sul luogo di lavoro. Pensa anche ad altre donne di Bengasi insegnanti, avvocatesse, giudici, ingegneri, politiche quando dice: «Le donne libiche sono forti e intelligenti. Sanno cavarsela da sole e senza aiuto».
Magari si potesse dire lo stesso della Libia. «Sono molto preoccupata», confessa Eshtiwy: preferirebbe una nazione unificata, ma altri suoi concittadini, memori della scarsissima influenza politica delle regioni orientali durante il regime di Gheddafi malgrado da lì provenisse la maggior parte dei profitti del petrolio chiedono che la nuova Libia conceda molta più autonomia alle regioni a sud e a est di Tripoli. Le radio e le strade risuonano di discorsi retorici e carichi di tensione. «Ora è in atto una guerra di parole», dice Eshtiwy, che non sa più a chi o a che cosa credere. Il suo sconforto per la morte dell’ambasciatore statunitense Christopher Stevens nella sua città è stato pari soltanto allo sdegno per le accuse secondo cui l’assassinio è stato opera della brigata Ansar al-Sharia che sorveglia il suo ospedale. «È tutta gente pacifica e rispettosa», assicura. «Sono solo maldicenze di chi vuole distruggere il rapporto appena ristabilito con gli USA».
Eshtiwy rimane una devota musulmana che appoggia i matrimoni combinati e non ha mai viaggiato in vita sua. Tuttavia il suo mondo limitato ma stabile è stato sconvolto. «Ora non so più quale sia la realtà», dice.
È convinta che ci sia spazio per la speranza. L’esperienza in ospedale durante la rivoluzione il lavoro di squadra, i turni estenuanti, l’aver prestato cure a ribelli e lealisti senza discriminazioni, l’aiuto degli altri cittadini che portavano al personale medico cibo e lenzuola le ha rivelato qualcosa a proposito dei libici. «Durante il regime di Gheddafi pensavamo di essere cattivi, di non meritare l’amore degli altri», dice. «Adesso riconosciamo la bellezza del nostro paese».
Eppure Eshtiwy percepisce con chiarezza i sintomi dello stress post-traumatico che pervade la città. Lei stessa ne è vittima. Ci sono video che testimoniano il suo eroismo in ospedale, ma lei non riesce a guardarli. Non sopporta neppure i telegiornali. «Le notizie sono deprimenti», dice. «A volte mi chiedo perché siano morte tutte queste persone. Il loro sangue prezioso è il tributo da pagare per avere in cambio questo caos?». Purtroppo lo spargimento di sangue non è ancora finito. Prima della rivoluzione all’ospedale di Al Jala arrivavano tre o quattro casi di ferite da arma da fuoco all’anno. Adesso che in tutta la nuova Libia abbondano le armi, Eshtiwy deve curare tre o quattro casi al giorno. «Siamo diventati esperti in questo genere di ferite», sospira il chirurgo.
Se penso al futuro della Libia, una nazione immatura e inquieta, mi viene in mente un uomo di 61 anni che ho incontrato nel vecchio suk di Bengasi. Si chiama Mustafa Gargoum e si guadagna da vivere vendendo fotografie antiche della città. Dal 1996 occupa l’angolo di una strada a poche centinaia di metri dal lungomare dove da bambino andava a pescare. Quella sua esposizione artigianale di fotografie era stata la prima nel suo genere a Bengasi e forse in tutta la Libia. Piccole folle si radunavano a meditare sulle immagini di un passato messo al bando: muli che procedevano lungo vicoli pietrosi carichi di brocche d’olio d’oliva; la luminosa piazza Hadada di epoca ottomana, oggi invasa dai venditori di gioielli; l’edificio del Parlamento in stile italianeggiante distrutto su ordine di Gheddafi e sostituito da un parcheggio.
Gli anziani stavano chini a lungo davanti alle foto di Gargoum. I loro occhi esprimevano quello che le loro bocche non potevano dire.
Alcune immagini riguardavano oggetti proibiti, come la vecchia bandiera nazionale che oggi è l’emblema della nuova Libia. Quella galleria fotografica da strada comprendeva anche manifesti su cui l’ambulante scriveva deliberatamente frasi provocatorie, come ad esempio: "Chi sacrifica la libertà per la sicurezza è indegno di entrambe"; "Menti libere d’America e d’Europa ci avete sempre deluso"; "II popolo libico è più importante".
Ovviamente queste espressioni di dissenso procurarono a Gargoum continue vessazioni. Tutti gli anni a settembre, in occasione dell’anniversario dell’ascesa al potere di Gheddafi, gli agenti del Ministero degli Interni lo scortavano fino alla stazione di polizia e lo trattenevano per tutta la notte. «Sappiamo che cosa stai tentando di fare», gli dicevano, anche se poi lo lasciavano andare. L’uomo continuava a esporre le sue immagini e i suoi messaggi. Ma le fotografie dei nemici giurati di Gheddafi le teneva nascoste a casa sua, sulle cui pareti scriveva i pensieri che non osava manifestare per le strade di Bengasi, riflessioni amare come: "II tetto del regime è troppo basso per rimanere in piedi!".
Quando a metà febbraio del 2011 cominciarono le prime proteste pacifiche, Gargoum chiuse la galleria e si unì ai manifestanti; ma presto si rifugiò a casa sua. Otto mesi dopo, il giorno in cui Gheddafi fu ucciso, tornò al suk con la sua collezione di fotografie, a cui si erano aggiunte le immagini di artisti, intellettuali e soldati che si erano opposti al dittatore ed erano stati uccisi per questo. Questa nuova e più ampia esposizione comprendeva un quadro che Gargoum aveva dipinto nel 1996, l’anno in cui per la prima volta aveva offerto le sue fotografie e i suoi slogan ai cittadini irrequieti di Bengasi. Il dipinto rappresentava un’unica, monumentale figura avvolta nell’oscurità, ritratta di spalle con in mano una torcia. Benché l’autore lo considerasse un autoritratto, aveva inconsciamente riprodotto la statua esiliata di Settimio Severo.
Il giorno della riconquistata libertà, Gargoum sistemò il quadro sul cavalletto e prese un pennello. Con gesti attenti aggiunse allo sfondo una folla di esili figure. Poi annuì, soddisfatto del risultato: un ritratto di una nazione incompleta, con il popolo unito la sera dopo la rivoluzione, momentaneamente accecato dalla torcia, in attesa che una nuova luce squarci l’oscurità.