Filippo Facci, Libero 6/2/2013, 6 febbraio 2013
A GRILLO RIAPPARE IL FANTASMA DEL SUO PASSATO
Molti già la conoscono questa storia: è stata ri-raccontata più volte, e tra i primi a ritirarla fuori - sul Giornale del 24 aprile 2008 - ci fu oltretutto lo scrivente. Mi sembrava giusto, perché non se la ricordava nessuno: Beppe Grillo, 32 anni fa, si rese protagonista di un omicidio colposo per via di un incidente stradale in cui morirono in tre, compreso un bambino.
Si salvò lui, che si gettò dall’abitacolo, e rimase orfana un’altra bambina che non aveva voluto salire in macchina. Questa bambina adesso ha 39anni ed è rispuntata fuori in un’intervista a Vanity Fair, a un pugno di giorni dalle elezioni: un’uscita che può lasciare perplessi anche i più fieri oppositori di Grillo, sinceramente. Perché? Perché esiste ancora un diritto all’oblio, a questo mondo; in genere non riguarda i personaggi famosi, e peraltro l’eternità di internet tende a vanificare ogni rimozione: però esiste lo stesso, ma non è tanto il diritto all’oblio codificato dalla giurisprudenza (il diritto, cioè, a «non restare indeterminatamente esposti ai danni ulteriori che la reiterata pubblicazione di una notizia può arrecare») ma è un diritto morale che ciascuno ha diritto di gestirsi una volta pagato il conto con la giustizia. Persino se si chiama Beppe Grillo, persino se passa la vita a giudicare la coscienza altrui.
Prima, però, dobbiamo compiere l’operazione orrendamente ipocrita di raccontare tutta la storia da capo, non omettendo qualche dettaglio di norma taciuto. È necessario. Il 7 dicembre 1981 - e non 1980, come erroneamente fu riferito sul blog di Grillo - il comico allora 33enne era a Limone Piemonte ospite di amici, i Giberti. C’era il 45enne Renzo, vecchio sodale, sua moglie Rossana Guastapelle, 33enne, e i figli Francesco di 9 e Cristina di 7. Dopo pranzo decisero di andare a godersi qualche ora di sole a Col di Tenda, a quota duemila, dove c’era una baita raggiungibile da una strada stretta e non asfaltata. Col di Tenda era un’antica via romana, tra la Francia e la Costa ligure, che per secoli era stata attraversata da eserciti e mercanti: in pratica una sterrata militare che porta ad antiche fortificazioni belliche. L’idea fu di Grillo, e pazienza se la strada era rigorosamente chiusa al traffico perché pericolosa. In auto salì anche un altro amico, Alberto Mambretti, mentre la piccola Cristina preferì rimanere al caldo e vedersi un cartone animato. In breve: quel viaggio, d’inverno, fu una follia. Era una strada d’alta quota non asfaltata, e non per caso altri amici - e un’opportuna segnaletica - l’avevano vivamente sconsigliato. È tutto agli atti. Grillo aveva uno Chevrolet Blazer scuro, un enorme fuoristrada rivestito esternamente di legno, e pensava di potercela fare. Mambretti, avvedutosi del pericolo, a un certo punto decise di scendere. Finì malissimo: l’auto sbandò su un ruscelletto ghiacciato e scivolò verso una scarpata; Grillo riuscì a scaraventarsi fuori dall’abitacolo, ma gli altri no: i due coniugi col figlio piccolo morirono. Sconvolto, Grillo si rifugiò nella casa di Savignone che divideva col fratello.
Il processo di primo grado fu nel 1984. Emblematico l’interrogatorio in aula: «Quando si è accorto di essere finito su un lastrone di ghiaccio con la macchina?»; «Ho avuto la sensazione di esserci finito sopra prima ancora di vederlo»; «Allora non guardava la strada». Il 21 marzo, dopo una lunga camera di consiglio, Grillo venne assolto dal tribunale di Cuneo con formula dubitativa, la vecchia insufficienza di prove: questo dopo aver pagato 600 milioni alla piccola Cristina di 9 anni, unica superstite della famiglia Giberti. La metà dei soldi - una cifra enorme, per l’epoca - furono pagati dall’assicurazione: «La stampa locale, favorevolissima al comico, gestì con particolare attenzione la fase del risarcimento» ha raccontato un collega genovese. Il Secolo XIX, quotidiano locale, s’infiammò con un lungo editoriale a favore dei giudici e dell’avvocato Pasquale Tonolo, ma l’entusiasmo fu di breve durata: l’accusa propose Appello e venne fuori la verità, ossia le prove: il pericolo era stato prospettato anche da una segnaletica che nessun giornalista frattanto era andato a verificare. La strada in effetti era chiusa al traffico.
La Corte d’Appello di Torino, il 13 marzo 1985, lo condannò a un anno e quattro mesi col beneficio della condizionale, ma col ritiro della patente: «Si può dire dimostrato, al di là di ogni possibile dubbio, che l’imputato risalendo la strada da valle, poteva percepire tempestivamente la presenza del manto di ghiaccio (...). L’esistenza del pericolo era evidente e percepibile da parecchi metri, almeno quattro o cinque, e così non è sostenibile che l’imputato non potesse evitare di finirci sopra », sicché l’imputato «disponeva di tutto lo spazio necessario per arrestarsi senza difficoltà» ma non lo fece, anzi decise «consapevolmente di affrontare il pericolo e di compiere il tentativo di superare il manto ghiacciato. Farlo con quel veicolo costituisce una macroscopica imprudenza che non costituisce oggetto di discussione ».
Non andrà meglio in Cassazione, l’8 aprile 1988: pena confermata nonostante gli sforzi dell’avvocato Alfredo Biondi, improvvidamente inserito da Grillo nella lista dei parlamentari condannati e dunque da epurare: il reato fiscale di Biondi in realtà è stato depenalizzato e sostituito da un’ammenda, tanto che non figura nemmeno del casellario giudiziario, diversamente dal reato di Grillo che perciò, secondo la sua proposta di non candidatura dei condannati, non può candidare se medesimo.
Ora: la storia è nota, come detto. Non è che Grillo la nasconde: si limita a non parlarne. Una sua sciocchezza ha cancellato una famiglia, ed erano suoi amici, coi loro bambini che aveva visto crescere. Si è fatto tre processi in tre gradi di giudizio, ha sborsato 600 milioni all’orfana superstite - cifra ragguardevole, per l’epoca - e questo prima della sentenza di primo grado. Certo, lui è un personaggio notissimo che peraltro si è scaraventato nell’agone politico, dunque è normale che gli si ricordi questa storia fino alla nausea e che tipicamente possa risaltar fuori sotto elezioni: ma deve risponderne alla propria coscienza, non a Vanity Fair. E tantomenoa noi, o ai nemici politici. Esiste ancora una dimensione personale che separa il privato dal pubblico: ormai è una linea sottilissima, ma c’è ancora. Teniamocela stretta. È tutto quello che vorremmo dire.
Trentadue anni dopo quel fattaccio ricompare Cristina, l’orfana: su un giornale. Dice «non cerco nulla, se non la verità», anche se è stata sviscerata in tutti i modi. Dice «mi rifiuto di essere strumentalizzata dalla politica», ma sembra lì apposta. Dice che vuole incontrare Grillo, che lo fa anche a nome della sua famiglia morta. Dice «non amo parlare di me». Dice che ha parlato con un nipote di Grillo: «Mi ha spiegato che tutta la famiglia aveva sofferto per l’incidente, che non era il momento di ritornare sull’argomento». Ma lei vuole tornarci ora, sull’argomento. Dice che Grillo non le ha mai chiesto scusa. Il resto dell’intervista è su Vanity Fair pubblicato oggi: accorrete numerosi alle edicole. Che mestiere schifoso.