Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2013  gennaio 30 Mercoledì calendario

VISIONI SENZA FILTRI

Bar fuori dal cinema Massimo, multisala ai piedi della Mole e quartier generale del Torino Film Festival. Nonostante il freddo di fine novembre, mi siedo all’aperto per l’intervista a Gipi, che qui presenta in concorso Smettere di fumare fumando, a poco più di un anno dal suo debutto al cinema con L’ultimo terrestre. Un film che speriamo circoli, ma che al momento è probabile resti un oggetto underground. Racconta della sua disintossicazione in io giorni, da 40 a zero sigarette. Come tutte le opere molto autobiografiche, potrebbe sembrare narcisista. Ma ridurre Gipi a un megalomane sarebbe sbagliato e ingeneroso. Perché lui è violentemente autocritico (come in una delle storie disegnate in Verticali, quella in cui la coscienza gli mandava degli sms punitivi) e conscio del rischio dell’esposizione. E che lui non ce la fa, a non esporsi. Perciò, più per paura di farsi male, che per falsa modestia, cerca di stare coi piedi per terra. Parla come un fiume in piena, non cerca metafore a effetto, ma il contatto con la realtà fisica, come quando disegna. E spiritato e terragno insieme, in quanto iper-recettivo, ma pragmaticamente pisano. Non sta fermo un secondo con le mani, eppure non comunica ansia. Grazie all’inesistente pudore e alla continua autoanalisi, sa cogliere le storture del reale, le ribalta come un bambino che gioca a smascherare. Si da sempre del perdente, del meschino. L’intimità col tragico non è un mistero, per chi conosce le sue storie a fumetti.
Smettere di fumare fumando è un diario, un imprevisto creativo a scopo (auto)terapeutico. L’esperimento estremo di chi crede di aver perso il tocco («Devo raccontare tutto quello che mi succede, e avevo la sensazione di aver perso il talento. E come fai, a raccontarlo? E come un muto che decide di cantare il proprio mutismo»). Uno sberleffo alla critica, dalla fattura volutamente d.i.y., che di certo irriterà i puristi del cavalletto. Con un suono che a tratti lacera le orecchie, eredità del Gipi punk. Lo sguardo è spietato. Ha cercato la libertà dal ritegno che a volte, dice, riesce a raggiungere nei fumetti. E l’assenza di nicotina gli ha sbloccato i freni autoinibitori «non ho programmato niente, volevo perdere il controllo e volevo non fumare. E ahimè, m’è riuscito». Sclerando. Infatti ce ne per tutti. Gipi, il film, non lo voleva neanche mandare a Torino. Lo ha visto, e lo ha incoraggiato, Nanni Moretti. Lo ha inviato a sua insaputa il suo produttore, Domenico Procacci. Ma a convincerlo è stata la sorella: «Mi fa da coscienza. Dove io non arrivo, cioè ovunque, arriva lei. Gliel’ho fatto vedere, quand’era già finito, per farla ridere, e mi ha detto che ci aveva visto qualcosa di più». La sorella si chiama Annalisa, appare rapidamente nel film (come anche la madre e la fidanzata). Fuori campo, è protagonista della rievocazione del trauma originario dell’opera di Gipi, ossia la tentata violenza su di lei, di cui l’autore fu testimone da bambino e che ha messo su carta in Via degli Oleandri. Giusto per dare l’idea delle ragioni intime del film.
La rapidità di esecuzione, così importante nel lavoro di fumettista, è stato "il" metodo. «Una sera mi sono detto: "Devo smettere di fumare, faccio schifo". Fumare 40 sigarette al giorno nel mio stato di salute era un suicidio. Ho una ragazza che mi vuole bene e alla quale voglio bene anch’io. La mattina in cui ho deciso di non fumare, ho iniziato subito a filmarmi. La sera ho visto quello che avevo girato, l’ho scaricato sul computer, ho fatto una voce narrante, ho suonato una musica, ho montato. E ho chiuso tutto quello che avevo fatto quel giorno. Così, per io giorni, tutto nell’ordine in cui lo vedi. Mi sono dato questa regola monastica, stupida, di non modificare niente, perché credo molto nell’immediatezza di queste pratiche.
La voce con cui si apre il film a me fa schifo, perché è drammatica. Però quel giorno ero così; se l’avessi rifatta dopo, cioè quando la lucidità era tornata abbastanza da saperla giudicare, sarebbe diventata un’altra cosa, avrebbe perso quel briciolo di verità che per me c’è». La voce che apre il film ripete ossessivamente: «Non devo pensare al cinema, non devo pensare ai critici...» (proprio come LMVDM La Mia Vita Disegnata Male iniziava con: «Voglio solo fumare»...). E c’è pure un critico che straparla al telefono di citazioni lynchiane, sputtanate da Gipi con controriferimenti a Bud Spencer. Segue scena di sodomizzazione del critico stesso. «Eh, lo so, quella è pesa...». A Gipi piace parlare di cose tecniche, come il duplicatore bifocale, come se i critici sapessero di cosa si tratta. Lo sanno? Risposta furbetta: «Io non so cosa sono i critici, quindi siamo pari». Gli piacciono le macchine, nel film si intravede una strumentazione musicale, nel suo studio. Estrae dalla tasca la microcamera GoPro. «Ha un grandangolare forte, a 170° d’apertura (lui dice "censettanta", alla pisana, ndr), non ha nemmeno il mirino, non vedi cosa inquadri». Il microfono deve averlo aggiunto lui, dopo. «Sì, a metà film, e infatti si sente». Si sente, eccome. «Tecnicamente è una tragedia, lo so, non si capisce un cazzo. Ma il suono è una bestiaccia. E che io veramente quelle cose le stavo girando per me». Ha montato con Premiere, fatto gli effetti con After Effects (tra cui un pannello elettronico stradale sul quale, sempre a causa dell’astinenza da nicotina, si legge: "Hai il pene sottile"). «Deh, son robe che uso da tanti anni, in parte sono un nerd. Oggi anche il più scemo li può fare». Nel film si intravede anche lo studio pieno di strumenti. «Suono da sempre un po’ di tastiere e basso, in casa ho un paio di synth e di batterie elettroniche. Per gli amici che mi vengono a trovare. Fare i singoli suoni per il film è stata una cosa un po’ feticista, da matto, che però mi faceva star bene, mi divertiva». A parte il pezzo finale. «Che è dei grandissimi Minutemen, gruppo degli anni ’80 che ho scoperto quando ero un punkone. Purtroppo finiti male, perché il cantante e chitarrista D. Boon è morto in un incidente stradale». Una storia di amicizia che rieccheggia quella di Darby Crash e dei Germs raccontata in LMVDM. «I Minutemen erano roba pazzesca, per quegli anni. Un grido di libertà ed economia. Suonavano con nulla; il chitarrista non usava manco la pedaliera. Registravano tutto alla prima, tutto in diretta, senza sovrincisioni. Sentivo vicina quest’idea di libertà».

Ogni riferimento alla scoperta del cinema "vero", industriale, con L’ultimo terrestre – accolto molto bene a Venezia, ma poi di fatto ignorato nelle sale è – voluto. «Voglio molto bene a quel film, ho imparato un sacco di cose girandolo, mi sono fatto tanti amici, è andata tutta straliscia, ero fiero di essere arrivato in fondo. Ma ;1 risultato, dopo gli applausi a Venezia, mi ha portato a bloccarmi. M’ha fatto male. I festival ti stimolano alla vanità, che per me è il nemico numero uno della creatività. E però, chi resiste a sentirsi dire: "Bravo!"? Io non ce la faccio». Per superare la sensazione di avere le gambe segate, Gipi è scappato nella provincia di Pisa, coi suoi amici e nella casa che si vede in Smettere. «Fermo, zitto e buono, in attesa che il Dio dell’Arte mi tornasse vicino e mi dicesse: “Vabbè, sei stato uno stronzo per un po’, ma ti perdono. Mi rimetto sulla tua spalla e riavrai qualche idea sincera"». Con Federico e Michele, suoi complici nel film, amici da anni. «Sono impermeabili, fatti di una materia che non c’attacca, quella roba lì. Non leggono nulla di quello che faccio di fumetti, non gliene frega un cazzo, e io li amo per questo». Federico è il suo pusher di bizzarrie internettiane. «Mi ha fatto da consulente per l’utimo terrestre, per tutta la parte sui "contattisti". Lo chiamiamo "orridonauta", perché cerca i video su YouTube e ce li gira». Nel film, Gipi va fuori di testa nel constatare il successo in Rete di una certa WòlvesSyster, che parla di "confederazione galattica di luce" e "razza iargana". Creando un cortocircuito sugli effetti dei social network sulla salute mentale. E sulla privacy: nei titoli di coda, dichiara di non aver chiesto liberatorie per usare quei materiali. «Ho provato a scrivere a WolvesSyster, ma non mi ha risposto. Ho dei problemi con la privacy. Sento una necessità fortissima di rappresentare la realtà intorno a me, ma mi è prescritto. Non posso cioè filmare in una metro, ne i marchi delle cose, le pubblicità. Ma le pubblicità mi si infilano negli occhi e nelle orecchie da quando sono al mondo. E un combattimento impari. Sicché, mi sono appropriato di video altrui, giustificandomi, però, perché erano già stati pubblicati». Questione che pertiene a un’altra dipendenza, quella della condivisione di immagini. «E poi è anche un problema artistico. Pensa se gli impressionisti avessero dovuto farsi lasciare la liberatoria dalle persone che ritraevano nei bar, tipo La bevitrice d’assenzio. Io sono uno che di mestiere si guarda attorno e racconta. Col fumetto l’ho sempre fatto; col cinema sembra impossibile. Chiaro che il cinema "normale" è così: il set, le comparse... ma io cercavo una scintilla di vita differente, perché la scorgo solo nella realtà non rappresentata, ma in quella che fluisce. E vorrei essere lì, con gli occhi, a vedere le cose e riportarle. Però è vietato. E un dilemma. E Punico modo che ho trovato è stato: "Sbattitene il cazzo, deh". Che dovevo fare?». Per noi ha fatto bene. E lui, intanto, ha già pronto un nuovo film, dal titolo Wow. «Un film vero, un’ora e mezza girata con una troupe piccola, una Canon C300 e parti con la GoPro, ma dichiarate. Apre con me, fighetto, sbarbato, che ho fatto un film a Venezia. Il dottore mi convoca, sono arrivati i miei esami, mi dice che non posso avere figli. E parte una riflessione su: "La natura mi odia o no?"». Evitiamo il finale serio, però. Gli ricordo che nel film dice di aver smesso di fumare per un problema erettile. «Beh, non proprio. In realtà ho l’epatite cronica... Certo, a quasi 50 anni non è che aiuti». Messaggi da dare ai fumatori? «No. Però, a chi ce la fa, di volersi bene, almeno un po’. Io ho grosse difficoltà a farlo. A 16 anni ero tossicomane, le ho fatte tutte per levarmi dal mondo, ma non c’è verso. Si vede che non mi ci vogliono, nell’aldilà. Mi vogliono qua, a rompere il cazzo». Epilogo prenatalizio: al telefono lo ringrazio per l’autoritratto che ha disegnato per noi, gli dico di non dar retta ai critici, ai blogger e ai minuti di applausi ai festival. «Già, 1 unico giudizio valido è quello del pubblico pagante. Dammi 5 euro del biglietto, e son contento».