David Brown, Rolling Stone 30/1/2013, 30 gennaio 2013
WHITNEY HOUSTON THE DARK SIDE OF W
WHITNEY HOUSTON THE DARK SIDE OF W –
La sera del 7 febbraio 2012, quattro giorni prima della sua morte, Whitney Houston era pronta per rivendicare il proprio posto nel mondo della musica. Pantaloni neri e maglione in tinta, entrò, con la cognata e manager Patriota Houston, nello studio del produttore Harvey Mason Jr., a North Hollywood. Aveva appena finito di girare le sue scene in Sparkle, e quella sera avrebbe registrato le proprie parti vocali per un brano della colonna sonora, Celebrate, un duetto con il coprotagonista Jordin Sparks scritto da R. Kelly. Riscaldò la voce, che non era più quello strumento imponente che si estendeva tra le ottave nei suoi dischi di platino degli anni ’80 e ’90. Ci lavorava da un po’, e ancora non era finita. «Whitney aveva giorni in cui la voce era formidabile, altri in cui era discreta, altri in cui proprio non andava», ricorda Mason. «Ma lavorava sodo per migliorarsi». Quella session era stata una delle migliori. Finito di incidere, lei gli chiese di ascoltare il pezzo, e così fecero, ballando davanti alle casse. Per un istante, i problemi che da oltre io anni la assillavano si dissolsero. Nei giorni successivi, però, tutti i suoi demoni tornarono a farle visita. Venne vista in locali notturni di Hollywood in stato confusionale, forse ubriaca. Fece un apparizione a sorpresa alla conferenza stampa del suo mentore Clive Davis, puzzando di sigarette e alcol. Sabato n febbraio avrebbe dovuto partecipare alla tradizionale festa che precede Rassegnazione dei Grammy, al Beverly Hilton, dove alloggiava. Quel pomeriggio, insospettiti dal suo silenzio prolungato, alcuni mèmbri dello staff entrarono di forza nella sua camera al quarto piano e la trovarono immersa nella vasca da bagno. Era morta. Per l’autopsia, la cantante 48enne era affogata in seguito a un attacco cardiaco provocato dall’uso di cocaina. La polizia di Beverly Hills trovò nella sua stanza vari farmaci, tra cui lo Xanax.
Professionista diligente un momento, quello dopo ragazzina ribelle: erano questi gli estremi tra cui oscillava la Houston, negli ultimi giorni di vita ma anche, com’è emerso, in tutta la sua carriera. Una voce naturalmente potente, una bellezza da sfilata e un immagine allo stesso tempo calda e regale, Whitney era una perla rara del pop: una vera star poliedrica, tra musica e cinema, pubblico maturo e giovane, nero e bianco. «Grazie a Dionne Warwick, sua cugina, aveva fatto sue tutte le stupende melodie di Burt Bacharach», spiega Narada Michael Walden, uno dei suoi tanti produttori. «Ma dato che era giovane e apparteneva alla stessa era di Michael Jackson, Prince e Madonna, aveva dentro di sé anche ritmi soul. In più, era così bella che non potevi dirle di no». Ma dopo i vertici raggiunti con la sua versione dell’inno nazionale americano The Star Spangled Banner (nel ’91) e il film Guardia del corpo (’92), i demoni di Whitney si rivelarono al mondo intero. La voce era diventata più roca, l’immagine si era indurita, il fisico affaticato, in parte anche a causa degli anni di party selvaggi con il marito Bobby Brown. Inoltre, i suoi dischi non vendevano più come un tempo.
Fin dall’inizio, Whitney è stata figlia sia della chiesa che delle classifiche. La madre, Cissy, era una soprano straordinaria: nata a Newark, in New Jersey, aveva fatto la corista in classici di Aretha Franklin (Ain’t No Way, Chain of Fools) e Van Morrison (Brown Eyed Girl). Come membro delle Sweet Inspirations era andata in tour con Elvis Presley. La cugina Dionne aveva fatto il salto verso il pop nei ’60 e ’70 con hit come Walk On By e Do You Know the Way to San Jose? Whitney, nata nel ’63, aveva ereditato la voce dalla madre e i modi eleganti e la forza di volontà dal padre John, che, prima di diventare suo manager, aveva lavorato sia come camionista che per il municipio di Newark.
A 4 anni, Whitney si era trasferita con i genitori e i due fratelli a East Grange, nei sobborghi, dove molte famiglie nere si erano installate dopo i disordini di Newark. Era una bambina timida. La preside delle scuole elementari la ricorda camminare in fila indiana, la mano stretta ai compagni di classe, la testa bassa. Alle superiori Whitney si fece notare: era sbocciata una ragazza stupenda, slanciata, con un sorriso enorme. Ma ad attirare l’attenzione di tutti era la sua voce. La madre Gissy dirigeva il coro della chiesa battista New Hope di Newark, una delle chiese nere più antiche di tutto il Paese. Whitney entrò nel coro già a n anni. «Quando guardavo mia madre cantare in chiesa, quella sensazione, quell’anima, così intensa... era come se una scossa elettrica mi attraversasse», dichiarò la Houston a Rolling Storie nel ’93. «Se sei mai entrato in una chiesa battista, quando lo Spirito Santo inizia a farsi sentire e la gente inizia a percepire cosa sta facendo, sai che è qualcosa di incredibile. Io cercavo quella cosa». Ma la Houston non familiarizzò solo con il gospel. «Cissy la portò in studio mentre registravo», ricorda Aretha Franklin parlando del loro primo incontro. «Aveva 9 o 10 anni. Credo che Cissy l’avesse istruita molto bene, perché era tranquilla e silenziosa». A fine anni ’70, la carriera solista di Cissy non era granché, quindi tentò la via della disco. In una session con il produttore dance Michael Zager, una corista si ammalò. Quando Cissy suggerì come sostituta la figlia 14enne, Zager pensò a uno scherzo. Ma Whitney si presentò in studio, in divisa scolastica, cantando alla perfezione tutte le parti che aveva nel frattempo imparato. «Sono quasi caduto dalla sedia», ricorda il produttore. «Era come ascoltare un’adulta esperta». Fu talmente impressionante, che Zager le affidò una parte importante nella sua prima registrazione da professionista, la hit disco Life’s A Party.
Gli unici accenni di ribellione di Whitney, allora, consistevano nell’indossare a scuola calzini di colori diversi. Cissy le ricordava di continuo l’etica del lavoro in studio, ma lei e il marito la proteggevano, e non le fecero firmare contratti discografici prima che finisse le scuole superiori. Eppure, Whitney iniziò la carriera da consta già in album come Knaughty di Chaka Khan, mentre tra i discografici si diffondeva la voce del suo talento. Inoltre, di lì a poco cominciò anche a posare per servizi di moda per teenager. Nei suoi concerti, Cissy concedeva spesso uno spazio alla figlia, che allora esibiva una capigliatura afro corta e, molto rispettosa del ruolo materno, si limitava a cantare cover di successi pop come Home di Stephanie Mills. Gerry Griffith, direttore artistico della Arista, sentì parlare della giovane Houston e andò a sentirla negli show della madre. «Avevo lavorato con Aretha Franklin, Minnie Riperton e Phoebe Snow, e il fatto di sentirle tutte e tre riunite in una sola voce mi mandò fuori di testa. Era un talento naturale, spontaneo». Griffith convinse il suo capo Clive Davis ad andare a sentirla. «Rimasi sconvolto quando la sentii cantare The Greatest Love of All», ricorda Davis. «Metterla sotto contratto fu una cosa da ragazzi». Ne fu così colpito da strapparla a un’altra etichetta interessata, la Elektra. Il giorno della firma del contratto con la Arista, nel 1983, Whitney, in jeans e felpa, era una ragazza come tante. Le aspettative su di lei, per quanto si sapeva che avesse una voce promettente, erano basse.
Whitney aveva già un padre, ma trovò in Davis un’altra figura paterna, eccessivamente protettiva. Partito come avvocato alla Columbia Records, diventò capo della stessa etichetta nel ’67, e mise sotto contratto Santana, Janis Joplin e molti altri. Dopo essere stato cacciato nel ’73, lanciò la propria casa discografica, la Arista, nel ’75’. A 50 anni, più vecchio di Whitney di 30, la trattava come una regina. Per il suo esordio, Davis si prese tutto il tempo necessario. Per oltre due anni, lui e lo staff setacciarono tutto il materiale disponibile, cercando gli autori più adatti a lei e arrivando a spendere una cifra enorme come 400 mila dollari. Whitney sembrava felice di lasciare tutto nelle mani di Davis, perché sognava anche lei il crossover musicale. «Cercava continuamente di coinvolgere il pubblico più ampio possibile», ricorda Ray Loft, uno dei vice presidenti di Davis. «Voleva essere una delle grandi». E iniziò a indossare parrucche sul palco e per andare in video. L’album d’esordio, Whitney Houston, uscì a marzo del 1985 e divenne un modello trionfale di fusione di stili musicali. La Arista passò alle radio R&B You Give Good Love e, quando il singolo dilagò, ne arrivarono altri tre: Saving All My Love For You, How Wll I Know e The Greatest Love of All. Tutti finiti al numero uno delle classifiche pop. «Il gospel era la base del suo dono», aggiunge Griffith. «Bastava aggiungere il pop, e il successo era assicurato».
Durante la lavorazione del secondo album, la pressione aumentò. Whitney stava mostrando segni della decisione che sarebbe emersa più avanti. «Era diventata più autoritaria», ricorda il tastierista Preston Glass. «Lavorando al primo album, era molto dolce e si confrontava con noi. Sul secondo, arrivava a registrare le voci dicendo: "Non voglio nessuno intorno. Solo il produttore e il fonico"». Whitney, uscito nell’87, replicò la formula vincente del disco precedente: un insieme di esuberante pop R&B (So Emotional, I Wanna Dance with Somebody) e ballate di presa facile Didn’t ’We Almost Have It All, Where Do Broken Hearts Go: tutti e quattro arrivarono al primo posto in classifica. Gli uomini la trovavano attraente, mentre una nuova generazione di giovani donne si rispecchiava in quel mix di sofferenza d’amore ed emancipazione. «La vidi per la prima volta nel video di I Wanna Dance with Somebody», racconta Christina Aguilera, «e rimasi immediatamente rapita. Rappresentava una donna forte, con una voce altrettanto forte. Su una ragazzina come me aveva un effetto incredibile». Alcune pressioni legate all’essere la nuova reginetta del pop si fecero sentire. Giù dal palco, Whitney scappava a fumare qualche sigaretta di nascosto. Ed espresse il desiderio di espandersi ad altri generi, diversificarsi. Una svolta cruciale arrivò nel 1989, quando ricevette una nomination ai Soul Train Awards per il miglior singolo R&B cantato da una donna. All’annuncio del suo nome, partirono svariati fischi. Lei e Davis si guardarono sconcertati. Il successo su larga scala, infatti, aveva un prezzo: per i critici della comunità afroamericana, Whitney – o, come qualcuno l’avrebbe chiamata in seguito, Whitey ("bianca") – non era abbastanza nera. Queste obiezioni possono sembrare insensate, oggi, ma allora fecero effetto. «Cosa vuoi dire che non sono abbastanza nera? Sono andata in chiesa tutta la mia vita», fu la reazione della Houston, e Don Ienner, general manager della Arista, aggiunge: «Era un’affermazione orribile e immeritata, che potrebbe averla perseguitata per il resto dei suoi giorni».
Nel terzo album, I’m Your Baby Tonight, la Houston e Davis spinsero immagine e sound in una direzione più soul, producendolo con L.A. Reid e Babyface. «Scattammo la cover del disco sotto il ponte di Brooklyn, con lei seduta su una moto», ricorda Ken Levy, ex creativo della Arista «Sorprese tutti, guidandola anche sul set. Non sopportava che si dicesse che cantava come una bianca. E cominciò a parlare come si fa sulla strada». Un lato che si accentuò con l’arrivo di un nuovo uomo nella sua vita.
Ai Soul Train Awards dell’89, infatti, Whitney incontrò Bobby Brown. Oltre ai successi coi New Edition, il suo disco solista multi-milionario dell’88, Don’t Be Cruci, lo aveva incoronato Re del new jack swing. Alla fine, nonostante i modi bruschi dei primi approcci con lei, fa proprio Bobby Brown già padre di tre bambini avuti da due donne diverse—a chiederle di uscire. E fecero coppia quasi all’istante. Lei rifiutò la sua prima proposta di matrimonio, ma poi disse di essersi innamorata e nel ’92 si sposarono. Per molti erano una strana coppia, ma avevano cose in comune, come avere dei genitori dalla forte personalità, e il venire entrambi dai projects. In seguito, Brown ha detto che quel matrimonio «era segnato fin dal primo giorno. Ci siamo sposati per tutte le ragioni più sbagliate. Ora capisco che l’obiettivo di Whitney era ripulire la propria immagine, mentre il mio era essere amato e avere dei figli. Ai tempi, i media accusavano Whitney di essere bisessuale e di avere una relazione con la sua assistente, Robyn Crawford. L’unica soluzione era sposarsi e avere dei figli. Una mossa che avrebbe eliminato qualsiasi speculazione, fondata o no». La Houston difese ferocemente il matrimonio di fronte alla stampa. E a Rolling Stone dichiarò «Vedi qualcuno, ti fai un’idea della sua immagine, ma è solo un aspetto. Non porto sempre abiti da sera di paillettes. Non sono l’angioletto di nessuno. Posso essere cattiva, perversa, volgare». E a Oprah Winfrey disse che Brown le aveva permesso di essere se stessa.
Qualche mese dopo il matrimonio con Brown, Whitney debuttò nel cinema con Guardia del corpo. Il suo ruolo non era proprio strabiliante, e le aspettative per il film erano modeste. All’ultimo momento, il coprotagonista Kevin Costner propose di sostituire una canzone prevista per la colonna sonora con I Will AIways Love You di Dolly Parton. Nessuno poteva immaginare il successo che avrebbe avuto il pezzo. I responsabili della promozione della Arista temevano che le radio non avrebbero passato un brano con 45 secondi di intro a cappella, ma I Will AIways Love You diventò una mega-hit e spinse le vendite della colonna sonora fino a un milione di copie a settimana. Secondo Lott, a fine anni ’90, gli utili annuali della Arista passarono da 35 milioni di quando la Houston fu messa sotto contratto, a 400 milioni, balzo a cui le vendite dei suoi dischi contribuirono decisamente. Dopo aver recitato anche in Donne di Forest Whitaker (’95) e nella commedia Uno sguardo dal cielo di Penny Marshall (’96), la Houston tornò alla musica a tempo pieno con l’album del ’98, My Love Is Your Love. A questo punto, però, le voci sulla sua tumultuosa relazione con Brown erano sulla bocca di tutti. Mentre lavorava al disco con lei, Wycleaf Jean percepì la sua crescente disillusione rispetto alle attese in lei riposte. «Parlammo della chiesa, perché è da lì che tutto era partito. Quando ti fai sentire e scuoti la congregazione, tutto il resto è facile. Ma se sei una persona di chiesa, gli altri si aspettano che tu ti comporti in un certo modo».
Quando uscì My Love Is Your Love le cose presero una brutta piega. In tour per promuovere il disco, nel ’99, la Houston cancellò cinque concerti, compreso uno nella sua città natale, Newark, 15 minuti prima di salire sul palco. La ragazzina che un tempo si presentava scattante ai servizi di moda, ora arrivava agli shooting con 6 ore di ritardo. Nel 2000 fa licenziata da una partecipazione prevista agli Oscar perché in prova barcollava cantando The Way We Were mentre l’orchestra suonava Over the Rainbow. L’anno dopo, al mega concerto newyorkese di Michael Jackson, era paurosamente magra. «Correggevamo la marijuana con il crack», disse la Houston a Oprah Winfrey, parlando di sé e Brown. Non le importava più niente di cantare. Quando cercava di farlo, le usciva una voce più roca, incapace di raggiungere quelle note altissime, che un tempo le venivano facili. Just Whitney, del 2001, segnò la decadenza, e fa surclassato da giovani artisti R&B come Alicia Keys e le Destiny’s Child. In più, nel 2000 Davis fa estromesso dall’Arista, mentre nel 2003 il padre di Whitney morì. E Panno dopo, per la prima volta, lei entrò in rehab. Molti, fan e amici, furono sconcertati dalle sue apparizioni selvagge e scarmigliate al reality show Being Bobby Brown, il suo punto più basso. Nel 2007, dopo anni di tormenti, lei e Brown divorziarono ufficialmente. Lo stesso anno, però, Davis era di nuovo supervisore alla RCA, che inglobava l’Arista, e iniziò a pianificare il suo rientro sulle scene. I Look at You, del 2009, che sarebbe stato il suo ultimo disco, non fu il trionfo sperato. Vendette 300 mila copie nella prima settimana, grazie alla lealtà dei fan, ma non generò successi in classifica, piazzandosi molto dietro Lady Gagà e persino Miley Cyrus. Nel 2010 partì il tour del ritorno in Australia, Asia ed Europa, il primo dal 99. Ma in diverse date lei sembrò senza fiato, tossiva, non ricordava i nomi dei musicisti. Il culmine fa quando, per bere, fece una pausa sulla nota culminante di I Will AIways Love You, e poi scese dal palco disgustata. Le tv ripresero il momento, le critiche furono brutali. Fu un errore cercare di farla ballare sul palco, perché non ce la faceva. Il promoter australiano sostiene che, a parte un po’ di champagne, non beveva ne si faceva di nulla, durante il tour. E, nelle ultime tappe, la Houston si rivelò ali altezza della sfida. «Aveva perso l’estensione più alta della sua voce e il pubblico non fa sempre gentile con lei», ha commentato Aretha Franklin, «ma sera dopo sera si impose di fare il proprio dovere e diede il meglio». Si parlò anche di un possibile tour americano, ma a primavera del 2011 finì di nuovo in rehab per alcol e droga.
Sul set di Sparge, a novembre 2011, a Detroit, la Houston sembrava sorprendentemente radiante, tutta vestita di bianco. E pareva ottimista rispetto al film e al suo futuro. «Non lo vedo come un ritorno alle scene. L’intrattenimento è nel mio Dna, è un dato naturale, istintivo». L’amica produttrice Debra Martin Chase dice di averla vista contenta di lavorare e collaborativa sul set. Durante le riprese, la Houston incise anche un pezzo in studio con il produttore Harvey Mason, lo stesso che aveva cantato la prima volta nella sua chiesa di Newark. Sarebbe stata l’ultima cantata da sola. Stando alle testimonianze, Whitney ricadde nella dipendenza in maniera pesante nei due mesi successivi, toccando il fondo in due burrascose settimane a Los Angeles. Giovedì 2 febbraio 2012, si aggirava ubriaca e sola dentro il Playhouse, night club di Hollywood. Pochi giorni dopo incontrò Davis per fargli ascoltare, felice, le registrazioni di Sparkle, e poco dopo si presentò, non invitata e malconcia, alla sua conferenza stampa. La stessa sera, col suo entourage andò al Tru Hollywood per supportare Kelly Price, che si esibiva lì. Si unì a lei per accennare un verso dell’inno Jesus Loves Me. Nel video di quella sera, la voce di Whitney suona ruvida, aspra. Nel backstage, poi, litigò con Stacy Francis, concorrente di X Factor, e forse a quella lite si devono le gocce di sangue che si videro colare dalla sua gamba, mentre usciva.
La sera della sua morte, la festa annuale di Davis si tenne lo stesso. Il clima oscillava tra lo sconforto e 1 euforia. C’era Pitbull che ci dava dentro con la sua Give Me Everything e un minuto dopo Davis che chiedeva un minuto di silenzio in onore di Whitney. «Cazzo, è stato assurdo», racconta un ospite. «Era surreale. Sembrava di stare in uno squallido film. La gente parlava e si comportava come se nulla fosse. Ma non c’era niente di normale, perché quattro piani sopra e era il corpo di Whitney Houston, non ancora freddo. E noi eravamo lì seduti a chiedere: "Posso avere dell’altro vino, per favore?"». Il 18 febbraio 2012, al suo funerale, i due lati contrastanti del mondo di Whitney si ritrovarono nuovamente insieme: mèmbri della famiglia e dirigenti delle case discografiche, Bobby Brown e i compagni di scuola e della parrocchia. L’immagine di R. Kelly che canta il gospel I Look at You e le esibizioni di amici di vecchia data come BeBe e CeCe Winans stridevano con lo sguardo infuriato di Brown all’inizio della cerimonia, perché lui e la sua cricca erano stati fatti sedere in posti diversi della chiesa. Il produttore Walden ricorda che le ultime volte che la vide, Whitney gli disse che voleva lavorare ancora con lui. In particolare, a un oscuro successo dance del ’77, Lovin’ Is Really My Game. Walden iniziò a lavorarci e aspettò che lei si liberasse dagli impegni del film per poterla finire. «Whitney era una minaccia. Proprio come Aretha e anche come Michael Jackson». Ma Whitney non riuscì mai a metter piede nello studio di Walden, nella Bay Area. E nemmeno a cantare uno dei passaggi più rivelatori di quel pezzo: "Perché non darmi una possibilità / Giuro che posso farcela".