Jessica Winter, Vanity Fair 30/1/2013, 30 gennaio 2013
DANIEL DAY-LEWIS PREFERIVO FARE COMODINI (E SCARPE)
Nell’estate del 2011, Sally Field iniziò a ricevere sms da Abraham Lincoln. «Sentivo l’allarme di ricevimento messaggio, e vedevo che mi aveva mandato un poemetto umoristico in rima», ricorda Fattrice, che in Lincoln interpreta Mary Todd, la moglie del 16° presidente americano. «Li firmava "Tuo, A.". E io, firmando Mary, gli rispondevo e gli davo del perditempo».
Un paio di mesi prima, a maggio, Steven Spielberg, regista del film, trovò nella cassetta della posta un registratore audio. «Lo accendo, e sento il testo del discorso inaugurale del secondo mandato di Lincoln, letto da questa incredibile voce». La voce di Lincoln: non il tono stentoreo che ti immagini dagli austeri ritratti ufficiali, ma quello di cui parlavano i suoi contemporanei un tenore gradevole, sottile, leggermente incrinato, con l’accento del K-entucky. «Una voce splendida, di quelle che vorresti ti leggessero un libro. Con il registratore c’era una lettera: "Mi chiami, dopo aver ascoltato?". Ho composto il numero e ho chiesto: "Chi sei?"».
All’altro capo c’era Daniel Day-Lewis, il divo alle prese in Lincoln con la sfida paradossale di dover interpretare un uomo conosciuto da tutti e, al tempo stesso, da nessuno. Il primo presidente americano ampiamente fotografato, congelato nel marmo e nel granito, spiaccicato di profilo sulle monetine, ma non vicino abbastanza da poter immaginare la sua voce o la sua camminata a piedi piatti. «Cerchi di farlo muovere, o parlare», dice Spielberg, «e subito corri il rischio di creare un personaggio animatronico: esattamente quello che non volevamo».
«Non credevo fosse davvero possibile far rivivere Abraham Lincoln», mi dice DayLewis quando lo incontro al Ritz-Carlton di New York, «la semplice idea mi intimidiva». Timido appare anche di persona, e caldo, affabile, estremamente cortese. Rasata via la barba presidenziale, i capelli argento a spazzola, snello in trench e khaki, dimostra dieci anni di meno dei suoi 55: quello che gli è restato, del Lincoln cinematografico, è il carisma.
Mi spiega che le sue riserve iniziali sulla parte sono cadute appena si è messo a studiare il personaggio. «Basta cominciare a leggere le biografie, i manoscritti, per sentirlo immediatamente, sorprendentemente accessibile. Vicino». Ancora più vicino, ora, grazie alla capacità dell’attore di scomparire – come sempre fa – e di far vivere la dolcezza paterna di Lincoln, il suo humour secco, la sua volontà incrollabile, la sua voce, appunto. Così diversa da quella del vero Day-Lewis, una melodia britannica nel tono, irlandese nel ritmo, robusta. Molti attori sono capaci di cambiare accento, portamento o giro vita per entrare nella parte, solo lui sembra in grado di rimodellare le corde vocali.
Il look c’era già, dice lo sceneggiatore Tony Kushner, e ricorda un suo viaggio in compagnia di Spielberg in Irlanda dove l’attore vive con la famiglia ai piedi dei Monti Wckiow, fuori Dublino per convincerlo ad accettare la parte. «Il primo giorno siamo andati in un pub», ricorda, «e mentre Daniel e io parlavamo davanti a una finestra, Steven ci ha fotografato con l’iPhone. 11 suo primo ricordo di Lincoln, mi ha spiegato, è un profilo di cartone che ritagliò a scuola. E il profilo di Daniel, nel controluce della finestra, era un perfetto giovane Abraham Lincoln».
MI IMBOCCATE, PLEASE?
Parliamo di un presidente leggendario, ma anche di un attore leggendario, su cui si è costruita tutta una mitologia. Uno dei primi e più noti aneddoti riguarda Il mio piede sinistro ( 1989) la storia vera di Christy Brown, artista e scrittore irlandese, gravemente disabile sul cui set Daniel restò nei panni del personaggio al punto da farsi imboccare e trasportare a spalla nelle pause tra un ciak e l’altro. Per prepararsi a interpretare il guerriero Occhio di falco nell’ Ultimo dei Mohicani (1992) passò molti giorni nelle foreste dell’Alabama, cibandosi solo di ciò che cacciava. Rimase tre notti senza dormire prima di girare (Nel nome del padre, 1993) l’interrogatorio da incubo di un uomo ingiustamente accusato di un attentato dell’IRA. E tra una scena e l’altra di Gangs Of New York (2002) affilava coltelli con lo sguardo truce di Bill «il macellaio» Cutting.
Un approccio alla recitazione, il suo, che può risultare inquietante per i colleghi. Non in questo caso, assicura Spielberg. «Non è che ci mettessimo a parlare dell’errore dell’arbitro nella partita di football», dice Jared Harris, che in Lincoln è il generale (e futuro presidente) Ulysses Grant, «ma neanche della battaglia di Vicksburg. Si parlava di cose personali. Del ricordo dei nostri padri, per esempio (Daniel è figlio del defunto poeta Cecil Day-Lewis, Jared dell’attore Richard Harris, ndr). Continuava a parlare con la voce e l’accento di Lincoln, questo sì».
UN DEBUTTO TUTTO GAY
Daniel Michael Blake Day-Lewis nasce a Greenwich, nel 1957, da una famiglia dell’aristocrazia culturale britannica. La madre è Fattrice Jill Balcon, figlia di Sir Michael Balcon, capo degli Ealing Studios e produttore di Hitchcock. Il padre Cecil ha visto le sue prime raccolte di poesie pubblicate dalla Hogarth Press di Leonard e Virginia Woolf e, nel tempo libero che gli lascia il suo ruolo di direttore editoriale della gloriosa Chatto & Wndus, scrive a casa. «Il suo studio era offlimits», ricorda Daniel, «e passandoci davanti io e Tamasin (la sorella maggiore, autrice di libri di cucina, ndr) camminavamo in punta di piedi. Là dentro si scriveva. La nostra era una casa letteraria, una casa di libri».
Ogni estate il padre, che era di origini irlandesi, portava la famiglia in Connemara, nell’Ovest dell’Irlanda. «Una terra poetica e selvaggia, quasi senza alberi, un mare di montagne e colline. Per noi bambini, un giardino segreto in cui tutto era possibile, fuori dal tempo. Un’illusione, splendida però».
Daniel aveva solo 15 anni quando Cecil Day-Lewis morì sessantottenne di cancro al pancreas. A Bedales, il collegio in cui studiava, si innamorò contemporaneamente del teatro e della falegnameria. «Fu, in generale, un periodo conflittuale: non sapevo che cosa fare della mia vita. Mi immaginavo un futuro da artigiano mobiliere, lavoravo come manovale nelle imprese di costruzione, nei cantieri navali. Quando decisi di concentrarmi sulla recitazione, mia madre sarà stata sollevata, immagino. Dico immagino perché le preoccupazioni che aveva non me le ha mai mostrate. Da lei, qualsiasi cosa facessi, mi arrivavano solo incoraggiamenti. Forse è per questo che sono diventato un giudice di me stesso così severo: per ripristinare l’equilibrio».
Il debutto teatrale fu nel 1982, a 25 anni, in Another Country, nella parte dello studente omosessuale che Rupert Everett avrebbe portato al cinema. Ma furono due personaggi diametralmente opposti il punk, gay anche lui, di My Beautiful Laundrette e il pedantesco marito di Camera con vista a trasformare Daniel-DayLewis-giovane-attore-in-ascesa,nell’arco di pochi mesi a cavallo tra 1985 e 1986, in Daniel-Day-Lewis-leggenda-nascente. La prima parte da eroe romantico, nell’adattamento dell’’Insostenibile leggerezza dell’essere di Milan Kundera, e il primo Oscar, per Il mio piede sinistro, arrivarono a seguire.
Film, quest’ultimo, per il quale Daniel si presentò alle prove per lo sconcerto del resto del cast già calato nella parte di Christy Brown, su una sedia a rotelle spinta dal regista Jim Sheridan. Che ricorda «il panico dei produttori, perché non capivano una parola di quello che diceva, e ripetevano: "Non possiamo farlo un po’ più comprensibile?"». La risposta, ovviamente, era no.
«Tanti la prendono come un vezzo presuntuoso, questa sua idea di restare nel personaggio per tutte le riprese», dice Sheridan, «ma la verità è che, per prepararsi a quella parte, Daniel passò intere settimane con ragazzini davvero malati di paralisi cerebrale. Quanto sarebbe stato difficile, per lui, trasformarsi in uno di loro davanti alla cinepresa, e poi smettere durante la pausa, e poi di nuovo, come accendere un interruttore? Quella storia, a essere sinceri, aiutò il film stuzzicando l’attenzione del pubblico».
LE LACRIME SUL PALCO
Attenzione stuzzicata, in quel 1989, anche dalla crisi di pianto che lo colpì nel bei mezzo di una rappresentazione di Amleto, al National Theatre di Londra. Un aneddoto che a sorpresa, perché so che normalmente non gli piace parlarne, tira fuori lui spontaneamente durante l’intervista, ridendo. «Ho avuto un problema con Amleto, l’ultima volta che sono salito sul palco. Me ne sono andato a metà rappresentazione, e quella cosa ha fatto parlare per un pezzo». Anche perché, gli ricordo, leggenda vuole che la fuga sia stata provocata dalla visione del padre defunto, un inquietante parallelo con la storia del principe Amleto che vede lo spettro del vecchio re. «Posso avere detto tante cose, sul momento, e in un certo senso è probabile che io abbia visto il fantasma di mio padre ogni sera, perché quando interpreti una parte come quella è normale viverla attraverso la tua esperienza. Pensi di fare un lungo viaggio per esplorare un’altra vita, ma forse quello che fai in realtà è avvicinare quella vita alla tua, perché ciò che funziona è l’esperienza comune, il legame fra il personaggio e te. È delirante pensare di diventare quell’altra persona, ma è vero che impari a guardarti attraverso i suoi occhi. Il rapporto tra il figlio e il padre che non c’è più era centrale in quell’esperienza. Detto questo, non ricordo di avere davvero visto lo spettro di mio padre materializzarsi sul palco, quella sera terrificante».
Fatto sta che, da allora, non è più tornato a fare Amleto, ne teatro tout court. Normale che i giornali britannici ci si siano tuffati, «lo lavoro in un certo modo che non ho mai sentito il bisogno di spiegare o giustificare, ma in Inghilterra hanno deciso che ero uno squinternato. E da quelle parti, se la stampa decide di starti addosso, non ti molla». Fu proprio il desiderio di privacy che lo spinse a traslocare in Irlanda a metà anni Novanta, poco prima di sposare Rebecca Miller, sceneggiatrice e regista che nel 2005 lo ha diretto nella Storia di Jack & Rose. (Con lei, figlia del defunto drammaturgo Arthur Miller, Daniel ha due figli, di 14 e 10 anni; ne ha anche uno di 17 dal legame con l’attrice francese Isabelle Adjani).
Non spiega ai colleghi di set il suo modo di lavorare. Lo sa bene Emily Watson, scelta da Jim Sheridan per interpretare in The Boxer la donna che si è rifatta una vita nei 14 anni di carcere del fidanzato membro dell’IRA, e che fatica a ricucire i rapporti con lui. «Tra i due personaggi c’era molta tensione», ricorda, «quindi Daniel e io decidemmo di non parlarci, neanche nelle pause. Mi sentivo sola, isolata, spaventata. Lui ha come una forza elettrica, qualcosa che ti intimidisce, ma che è anche straordinario da guardare. Era come vivere davvero la storia, trovarsi in quel mondo brutale dove le persone non comunicano. Negli anni, ho capito quanto ero stata fortunata a lavorare con l’uomo più onesto della nostra professione. Ricordo di avergli chiesto, alla fine: "Perché lavori così’?". E lui, dolcissimo: "Perché non sono abbastanza bravo da riuscirci in un altro modo"».
UNA FAMIGLIA SOLIDA
Se l’Inghilterra è la sua culla e l’Irlanda la casa adottiva è l’America la vera patria di una carriera costellata di coloni e padri fondatori. «Sono affascinato dalla storia americana. Tutto iniziò quando Michael Mann mi propose L’ultimo dei Mohicani. Ci riflettei: "Perché diavolo vuole proprio me?". Ma alla fine mi dissi: "Se lui è disposto a scommettere su di me, chi sono io per dirgli no?"». In realtà, mi dice Mann, «Occhio di falco è molto vicino, come persona, a lui. Daniel è un uomo romantico, all’antica, che vede la bellezza dei valori semplici, uno che con Rebecca ha messo su una famiglia molto solida. Uno che rifugge la fama».
Rifugge anche la bulimia professionale di tanti colleghi: ha girato solo 6 film negli ultimi 15 anni, a causa della lunga pausa che si è preso tra The Boxer e Gangs Of New York, cinque anni passati a Firenze a fare, tra le altre cose, il garzone di bottega. «Penso che a consentirmi di fare il mio lavoro sia proprio il tempo passato a fare altro. Se salti da un set all’altro, non so quali risorse ti possano restare, come essere umano».
Il suo modo di lavorare, gli faccio notare, lo condanna alla solitudine. «Mi sono sentito tremendamente solo durante quest’ultima esperienza», dice a proposito di Lincoln. «Ma era una solitudine di cui avevo bisogno, e che mi ha aiutato. Penso molto a quello che deve passare per la testa di Obama in questi giorni. Guardo quanto è invecchiato in quattro anni, penso a quanto mi sono sentito invecchiato io solo fingendo di essere presidente, e mi dico che esserlo davvero deve sottoporti a un carico inimmaginabile. Chi ha quella carica deve sentirsi solo, molto solo. Certo, non intendo paragonare il suo lavoro al mio».
Eppure: «Oh, mio Dio!», esclama quando gli mostro la riedizione della biografia di Lincoln Team Of Rivals, sulla cui copertina approfittando dell’uscita del film l’incisione d’epoca è stata sostituita con la foto di Day-Lewis in una scena. «Non l’avevo visto. Fa strano vedermi sulla copertina di un libro come questo, quasi si pretendesse di riscrivere la storia». Ma Daniel Day-Lewis, in un certo senso, la storia l’ha scritta. E ce l’ha letta. E ce l’ha mandata via sms.