David Fricke, RollingStone 30/1/2013, 30 gennaio 2013
JIMMY PAGE - LA CURA DEL MITO
Jimmi Page, 68 anni passeggia calmo e sorridente sul marciapiede davanti al suo ufficio di Londra. Si sta prendendo un attimo di pausa dalla più lunga e approfondita intervista mai rilasciata a Rolling Stone: oltre otto ore nell’arco di due giorni. Celebration Day, il film e l’album, raccontano la reunion dei Led Zeppelin alla O2 Arena di Londra nel 2007, il primo concerto dal 1980, anno in cui la band si è sciolta dopo la morte del suo batterista, John Bonham. Alla O2 Arena, seduto alla batteria dietro a Jimmy Page, Robert Plant e John Paul Jones, c’era il figlio di Bonham, Jason. Per Jimmy Page, la storia dei Led Zeppelin non è mai finita. È stato lui a fondare la band nell’estate del 1968, animato da una straordinaria visione: un nuovo tipo di hard rock basato sulle radici degli anni ’50, il folk e la psichedelia e incendiato con riff di chitarra ipnotici e potenti. Sempre lui ha prodotto gli otto album della band, che sono diventati altrettanti classici. Anche dopo la loro fine, i Led Zeppelin sono rimasti una delle band più grandi del mondo, e si calcola che abbiano venduto circa 300 milioni di dischi.
Jimmy Page è ancora l’amministratore unico della musica dei Led Zeppelin, cura le ristampe del catalogo e le nuove uscite, come il doppio dvd Led Zeppelin del 2003, e sta preparando le edizioni deluxe di ogni album, che inizieranno a uscire nel 2013 e saranno piene di «brividi sonori e visivi». Robert Plant e John Paul Jones hanno avuto una lunga e produttiva carriera solista, Jimmy Page invece ha fatto musica a singhiozzo a partire dal 1980: una colonna sonora nel 1982 (Death Wish II), un album solista nel 1988 (Outrider), qualche collaborazione con Robert Plant, Paul Rodgers, David Coverdale e i Black Crowes. Gli chiedo se sente la mancanza di quella esplosione di creatività che ha avuto con i Led Zeppelin negli anni ’70, e lui risponde: «Non così tanto come la gente pensa». Il suo lavoro, oggi, è quello di custode dell’eredità dei Led Zeppelin: «È una cosa importante, e sono certo di aver preso la giusta decisione».
James Patrick Page è nato il 9 gennaio del 1944 a Epsom, una cittadina a sudovest di Londra, ed è da subito un fenomeno della chitarra. A soli 15 anni è già in tour con una band importante, Neil Christian and the Crusaders, e poi si fa conoscere a Londra come uno dei migliori giovani musicisti in circolazione, suonando nei dischi di gente come The Who, Kinks, Them e Donovan. Nel 1966 molla il lavoro di musicista di studio ed entra a far parte degli Yardbirds al posto del suo amico Jeff Beck. Solo due anni dopo, il 26 dicembre del 1968, i Led Zeppelin fanno il loro primo concerto in America, a Denver.
Vestito in sfumature di grigio e nero, con i capelli grigi raccolti in una coda, Jimmy Page oggi è di buon umore. Parla con entusiasmo dei suoi esordi, degli Yardbirds e del successo improvviso dei Led Zeppelin, racconta tutto del suo ultimo libro, il volume fotografico Jimmy Page by Jimmy Page, e del suo nuovo sito, in cui ha pubblicato registrazioni audio e video finora inedite e sul quale si può acquistare un’edizione in vinile, mai pubblicata prima, della leggendaria colonna sonora realizzata (e non utilizzata) per Lucifer Rising, il corto firmato dal regista Kenneth Anger. È molto preso dalla musica del momento, è rimasto colpito dai Muse che ha visto dal vivo a Londra e da una giovane blues band americana, i Rival Sons. Suona ancora, dice, e ha diversi progetti in mente, anche se non si sbilancia sulla possibilità di uscire con un album solista: «Suono la chitarra, solo che nessuno mi vede. Tutto qui». Ha tre figli dalla seconda moglie Jimena e altri due avuti da relazioni precedenti, non si rifiuta di rispondere alle domande personali e non fugge nemmeno davanti a quelle più scomode, come sull’abuso di droghe o la strana passione per l’occultista Aleister Crowley. La sua risposta in questi casi è semplice e decisa: «Non te lo dico». Più spesso affronta la domanda, puntando il dito contro i pettegolezzi e le biografie non autorizzate dei Led Zeppelin. Poi fa una lunga pausa, come se stesse decidendo esattamente cosa e quanto vuole far sapere della storia della sua band.
Dopo il concerto alla O2 Arena, i fan aspettavano un tour che non è mai arrivato. Cosa è successo?
Alcuni di noi pensavano che ci sarebbe stato un seguito, magari qualche concerto in un futuro non troppo distante. Ci siamo impegnati molto per quella unica data. Jason, per esempio, aveva lasciato la band in cui suonava, i Foreigner. Ma Robert Plant era preso dal suo disco con Alison Krauss. Non sapevo che sarebbe uscito nello stesso periodo. Cosa fai in una situazione simile? Ho lavorato molto con gli altri due durante le prove del concerto alla O2, c’era una bella intesa. Il problema è che nessuno di noi cantava. Ci siamo concentrati su quello che sappiamo fare, e alla fine è venuto fuori un bel po’ di materiale molto buono. Stavamo andando forte, forse avremmo dovuto portare subito quel materiale in studio e registrarlo.
Per quanto tempo avete provato tu, John Paul Jones e Jason Bonham?
Direi alcune settimane, non consecutive. Non abbiamo fatto registrazioni professionali, avevamo solo un piccolo registratore digitale. Pensavo fosse roba buona, non volevo lasciarla da parte. Ma il problema è tornato fuori: ci serve un cantante. In realtà nessuno di noi lo ha detto esplicitamente, era solo un suggerimento che girava. Sì, ci serviva un cantante, ma non per forza in quel momento. La cosa più importante è avere del materiale valido. Se tutto va bene e c’è la giusta intesa, perché incasinarsi in una trattativa con un cantante?... Non ti dirò chi si è presentato.
Il nome che girava era quello di Myles Kennedy degli Alter Bridge. Funzionava?
Era prematuro. Sapevo cosa sarebbe successo: tutti pensavano che avremmo dovuto fare un tour, io invece pensavo che sarebbe stato meglio avere un album credibile, valido, non qualcosa che avrebbe dato l’impressione di voler sfruttare l’onda di entusiasmo creata dal concerto alla O2.
Steven Tyler ci ha detto di essere passato di lì...
Ha detto anche che ha cantato? Ok, lo ha fatto. Ma non era il momento giusto. Noi tre stavamo tirando fuori delle cose buone, davvero promettenti. Ma c’era sempre il solito problema... Tutto qui.
Ci sei già passato un’altra volta, quando i Led Zeppelin si sono sciolti dopo la morte di Bonham nel 1980. Stavi per formare una band con due membri degli Yes.
Diciamo che c’è stato un approccio da parte di un mediatore e che ho suonato con il batterista Alan White e il bassista Chris Squire. Ho grande rispetto per la musica degli Yes, per la loro precisione. Ci siamo incontrati, loro avevano del materiale interessante. Era una sfida per me, e ci sono andato volentieri portando anche io un po’ di musica. C’era un ottimo sincronismo. Chris aveva anche pensato a un nome davvero bello: XYZ perché eravamo ex Yes ed ex Led Zeppelin. A quel punto il nostro mediatore è andato da Robert a chiedere se voleva ascoltare qualcosa. Ovviamente, lui non era interessato. Chris e Alan dovevano partire in tour con gli Yes, ed è finita lì. Ma ti dico, il materiale era buono. Ho ancora le registrazioni, spero un giorno di poterle pubblicare.
Sei frustrato dai continui rifiuti di Robert di fare concerti? Dal vivo canta i pezzi dei Led Zeppelin, ma è come se volesse dire a tutti che non ha intenzione di rimanere identificato per tutta la vita con la band. Invece a te questo non interessa.
Io non faccio finta che non sia successo. Non sto dicendo che lui sta prendendo spunto dai Led Zeppelin, ma è ovvio che il suono acustico di Led Zeppelin III (il terzo album, del 1970, ndr), continua a piacergli, molto di più degli elementi più hardcore dei Led Zeppelin. Io, invece, mi ci butterei dentro saltando da un tetto, nudo. È stato interessante lavorare ancora con lui nel 1994 per lo show di Mtv Unledded. Io, al tempo, suonavo con David Coverdale, avevamo appena pubblicato Coverdale-Page (album del 1993, ndr) e stavamo provando la scaletta di un tour in Giappone. Robert mi ha chiamato. Aveva questi loop musicali e si e chiesto: “Vediamo se Jimmy riesce a tirarci fuori qualcosa. Oppure vuole solo andare in giro in limousine con David Coverdale?”. E invece no, mi piacciono le sfide. Il primo giorno siamo riusciti a realizzare un paio di cose nuove. Qualcuno poteva rimanerci male (John Paul Jones non era stato chiamato né per lo show Unledded né per il tour successivo, ndr), ma lo abbiamo fatto. Ci siamo ritrovati.
Cosa ti piace ancora di Robert?
Cosa piace a lui di me? Forse niente, infatti non lavoriamo insieme. Avevamo una grande empatia. Prendi Babe I’m Gonna Leave You (da Led Zeppelin del 1969, ndr): sapevo esattamente come far prendere vita alla canzone. Ho creato un’atmosfera con la chitarra acustica, e la sezione in stile flamenco. Ma Robert l’ha fatta sua e l’ha trasformata portando un’incredibile e malinconica linea vocale.
I Led Zeppelin si sono sciolti nel 1980, essenzialmente a causa di John Bonham e dei suoi problemi con l’alcol (il batterista è morto per soffocamento da vomito a causa della grande quantità di vodka ingerita, ndr). Come ti sei sentito quando la band che avevi fondato ti è stata portata via?
Non si può descrivere quello che ho passato. John è morto a casa mia, per l’amor di Dio. Come si fa a superare una cosa del genere? So che è stato un inferno, per tutti. Per la famiglia, per gli amici. È stata dura.
Per tre mesi non avete annunciato lo scioglimento della band. Avevate preso in considerazione l’idea di sostituirlo?
Non puoi capire la quantità di suggerimenti e proposte che abbiamo ricevuto, non dal nostro entourage o dal nostro manager (Peter Grant, ndr), ma da tutta una serie di personaggi che ci dicevano: "Questo e quello andrebbero benissimo". Fai un respiro profondo e pensi: "Anche se dovessimo suonare con qualcun altro, da dove cominciamo?". Eravamo una metamorfosi continua: "Questa è la traccia dell’album. Nel 1975, come puoi sentire da questo bootleg, la suonavamo così. Nel ’77 invece la facevamo così. Sei capace?". Credo che se fosse successo a qualcun altro di noi, io, Robert o John, la decisione sarebbe stata la stessa.
L’alcol ha mai impedito a Bonham di suonare?
No. Aveva una dedizione straordinaria alla band. Sapevo che beveva troppo. Ma facevamo tour lunghissimi, con molti concerti a settimana, e tutti duravano almeno tre ore. Lui gestiva la situazione alla grande. Chiunque si berrebbe un drink dopo tre ore di concerto, tutti noi lo facevamo.
Bonham si è guadagnato i suoi soprannomi. Bonzo o La Bestia a causa dei suoi eccessi in tour. C’era anche un altro lato della sua personalità, più privato?
Quando l’ho conosciuto era già un padre di famiglia. Era sposato con Pat, e Jason era già nato. Era molto consapevole delle sue responsabilità. Nessuno lo sapeva, era una questione privata. Affari di famiglia. Quello che alla gente dovrebbe importare è quanto era grande come batterista, quanto si è impegnato per tirare fuori la rullata di Good Times Bad Times (sull’album Led Zeppelin, ndr). Non ho mai visto nessuno suonare in quel modo, con quel ritmo e quell’approccio. Questo la gente dovrebbe tenere presente: quanto ha ispirato gli altri batteristi, quanto ha determinato il corso della musica rock, non il fatto che beveva troppo.
Ma quanto era grave per te il problema dell’alcol? Ci sono foto leggendarie dei tour dei Led Zeppelin in cui hai sempre una bottiglia di Jack Daniel’s in mano.
Diciamo che per gli standard di adesso bevevo troppo, anche perché ora non si beve praticamente niente. Ma al tempo era così. Mi stavo divertendo, ero determinato a vivere una vita diversa e non miserabile. Volevo prendere tutto di quello stile di vita, compreso l’eccesso.
Hai sperimentato con l’LSD nel tuo periodo psichedelico con gli Yardbirds?
Molto poco. Avevo già sentito storie terrificanti, avevo visto gente andare fuori di testa ed è stato sufficiente per farmi tornare indietro. Non c’era modo di vedere se alla fine di tutti quegli esperimenti saresti stato ancora in grado di fare musica. C’erano altre cose interessanti che volevo provare, per esempio la mescalina.
Come definiresti il tuo rapporto con le droghe durante e dopo i Led Zeppelin?
Non c’è mai stato un periodo in cui ho pensato che stavo esagerando. Pensandoci adesso... Potrei dire di sì. Ma sono ancora qui. Non voglio sembrare troppo disinvolto su questo argomento, perché per colpa delle droghe abbiamo perso molte persone meravigliose. Ma se mi chiedi se sono andato oltre il limite ti rispondo di no, non l’ho fatto. Non voglio aggiungere altro.
Sei migliorato come chitarrista, dopo aver smesso?
Non lo so, è come se ci fosse un’altra persona che prende il tuo posto.
Che tipo di persona?
Sobria. Sobria, ma non del tutto lucida, perché la sua mente è ancora piena di pensieri splendidi e folli.
Quali sono i tuoi primi ricordi rock&roll? L’Inghilterra era appena uscita dalla guerra, quando il rock è sbarcato qui negli anni ’50.
Non ho letto il libro di Keith Richards, ma la mia esperienza è la stessa di molti altri: ascoltare quei dischi, imparare da quei dischi. Siamo stati la prima generazione che non ha dovuto andare in guerra. Una generazione che voleva cambiare il mondo usando quella libertà.
Avevate la libertà, ma non la prosperità.
Non ce n’era bisogno, a parte il fatto che dovevi risparmiare per poterti comprare una chitarra. La chitarra era un sogno, come una Cadillac, la vedevi sulla copertina dei dischi di Gene Vincent, dei Blue Caps e di Buddy Holly. Buddy è venuto a suonare in Inghilterra (nel 1958, ndr), ma io non avevo i soldi per andare a vederlo. Però ho visto Jerry Lee Lewis, lui era tribale. Suonava il piano e non la chitarra, ma l’importante era quello che rappresentava.
La cosa affascinante è che voi tre grandi eroi della chitarra inglese – tu, Eric Clapton e Jeff Beck – siete cresciuti nello stesso periodo nella stessa zona di Londra, il Surrey, e avete suonato in momenti diversi nella stessa band, gli Yardbirds.
Ho conosciuto Eric più tardi, quando lavoravo come musicista di studio. È stata la sorella di Jeff Beck, che frequentava la scuola d’arte, a parlargli di questo tipo strano che suonava la chitarra. Anche lui era un tipo strano, che suonava la chitarra. Aveva ragione: Jeff si è presentato con una chitarra fatta in casa e ci siamo messi a discutere dell’assolo di My Babe (un singolo di Dale Hawkins del 1958, il chitarrista che esegue l’assolo è Dale Buchanan, ndr).
Nel 1967 hai partecipato a un oscuro progetto solista di Brian Jones, la colonna sonora del film A Degree of Murder. Conoscevi gli Stones?
Ho incontrato Mick e Keith in furgone, durante un viaggio verso un festival blues a Birmingham. Ero lì, perché volevo vedere John Lee Hooker. Siamo finiti a casa di un tipo che collezionava dischi blues, aveva anche quello omonimo di Howlin’ Wolf con la sedia a dondolo in copertina (del 1962, ndr). Era appena arrivato. Ero più amico di Jeff che di Keith e Mick. Brian invece l’ho visto all’Ealing Jazz Club, suonava la chitarra slide. Io ero nel mio periodo Elmore James, cercavo disperatamente di suonare come lui. Improvvisamente ho capito che il segreto stava nell’accordatura. Brian ce la faceva.
In che condizioni era Brian? Deve essere stato circa due anni prima della sua morte.
Credo sia stato Stu (Ian Stewart, pianista e roadie degli Stones, ndr) a chiamarmi. Brian sapeva quello che faceva. Suonava bene. Lavoravamo su alcune cose già definite e su altre da mettere a fuoco. Io suonavo la chitarra con l’archetto, lui usava questo pedale per il volume con cui tirava delle vere cannonate. Aveva il Mellotron. Era pieno di idee, guardava sempre avanti.
Sono rimasto sorpreso quando hai detto di non aver mai incontrato Jimi Hendrix e di non averlo mai visto suonare. Forse sei l’unico chitarrista inglese che non è rimasto sconvolto da lui, quando è arrivato a Londra nel 1966.
Avrei voluto vederlo, ma ero sempre in studio o in tour con gli Yardbirds. Un giorno Jeff mi ha raccontato di questo tizio che era salito sul palco del London Polytechnic, si era messo ad improvvisare e aveva lasciato tutti a bocca aperta. Mi ricordo una sera, ero tornato a Londra dopo un tour con i Led Zeppelin, e lui suonava il giorno dopo alla Royal Albert Hall. Mi sono detto: «Vado a vederlo», poi ho pensato ai racconti incredibili sui suoi concerti nei club e ho deciso di aspettare quando sarebbe tornato in un locale piccolo. Non c’è stata una prossima volta. L’ho incrociato una sola volta, al Club Salvation di New York. Era seduto con alcuni amici. Stavo per andare a dirgli: "Mi spiace di essermi perso il concerto di Londra", ma lui se ne era andato. Ho pensato: ci sarà un’altra occasione. Non c’è stata.
Uno dei tuoi dischi più rari è Live Yardbirds! del 1971, la registrazione di un concerto degli Yardbirds del 1968. Hai costretto l’etichetta a ritirarlo. Lo ripubblicherai?
Negli ultimi anni ho messo a posto i miei archivi personali e ho ritrovato i nastri. Al tempo non vedevo l’ora di entrare in studio per fare un disco con gli Yardbirds. Stavamo andando nella giusta direzione, eravamo vicini al punto di fare in studio quello che facevamo dal vivo. L’etichetta ha registrato questo concerto e lo ha riempito di sovraincisioni e di voci. Sembrava di stare in un bar o allo stadio quando la tua squadra segna un punto. Quando i Led Zeppelin sono diventati famosi, lo ha fatto uscire. Sarebbe bello ripubblicarlo, ma andrebbe remixato almeno per togliere il rumore di sottofondo e le voci da bar. Non era reale. Nemmeno durante i concerti dei Led Zeppelin il pubblico gridava in quel modo. Penso, per esempio, all’esibizione alla televisione danese. Si sentono applausi educati, rispettosi. Era quella la vera reazione del pubblico.
Quanto di quello che hai fatto con gli Yardbirds, prima con Jeff Beck e poi senza di lui, era una preparazione ai Led Zeppelin? C’è una B side del 1968 degli Yardbirds, Think About It, che sembra proprio un inedito dal primo album degli Zeppelin.
L’assolo è identico a quelli di Dazed and Confused e Communication Breakdown. Era il nostro modo di suonare, feroce e molto veloce. Con gli Yardbirds provavo idee e atmosfere che non avevo potuto sperimentare nei miei anni come musicista di studio. Qualcosa funzionava, qualcos’altro no. Mi viene in mente un pezzo, Drinking Muddy Water (da Little Games del 1967). Ho chiamato Stu per suonare il piano. Abbiamo preparato l’arrangiamento, registrato un take e il nostro produttore Mickie Most ha detto: "Ok, prossimo pezzo". Stu era scioccato, gli Stones ci mettevano molto più tempo. Ho imparato tanto da quel periodo su come affrontare una registrazione. Il punto non era risparmiare tempo, ma impiegarlo al meglio. E una cosa che si sente bene nel primo disco dei Led Zeppelin, anche perché lì c’erano i musicisti giusti.
Keith Moon degli Who ha inventato il nome Led Zeppelin durante le registrazioni di Beck’s Bolero di Jeff Beck nel 1966. Ma doveva essere il nome di una band molto diversa.
Composta da John Paul Jones al basso, Keith Moon alla batteria, Nicky Hopkins al piano, io e Jeff alle chitarre. Quella session è stata magnifica, una forza della natura. Keith aveva dei problemi con gli Who e ha detto: «Dobbiamo formare una band». Abbiamo pensato a un cantante, Steve Winwood era uno della lista. Keith ha anche chiamato Steve Marriott degli Small Faces, ma la voce è arrivata a Don Arden (il terribile manager degli Small Faces, ndr), che ha chiamato Keith e gli ha chiesto: "Ti piacerebbe suonare con le dita spezzate?". L’entusiasmo è svanito subito. Ma sì, è stato Keith a inventare il nome: "Dobbiamo chiamarla Led Zeppelin, perché è una band che non piacerà a nessuno". Era un gran nome e non me lo sono dimenticato. Ma poteva usarlo anche Jeff per la sua band, e noi potevamo chiamarci Carrots. Non avrebbe fatto nessuna differenza, avremmo fatto lo stesso quello che abbiamo fatto.
Parliamo dei riff di chitarra.
Mi piace parlarne.
Uno dei miei preferiti è quello di Black Dog (sul quarto album dei Led Zeppelin), perché è totalmente irregolare. Ha un modo strano di insinuarsi nelle ritmica della batteria. In teoria non dovrebbe funzionare, invece è perfetto.
Non l’ho scritto io, è di John Paul Jones. Era difficile da suonare, con la batteria in 4/4 sotto. Ma Black Dog è molto di più di quel riff: c’è il botta e risposta tra chitarra e voce, il passaggio prima del ritornello, le altre parti che portano avanti la canzone.
Le canzoni dei Led Zeppelin sono dominate dalla chitarra, ma in Celebration Day si sente il basso che fa la contromelodia della chitarra. Sono tutte canzoni piene di azione, su più livelli.
Funziona così: hai tra le mani un riff, e ti chiedi: "Cosa posso fare?". E così che cominci a modellare le canzoni. Prendi l’apertura di No Quarter (da Houses of the Holy del 1973, ndr): è suonata con la tastiera, ma è stata scritta con la chitarra. Heartbreaker è un altro pezzo a cui John ha contribuito parecchio: parte con la chitarra, ma poi è il basso che dà corpo alla strofa.
Cosa rende grande un riff dei Led Zeppelin?
Deve essere ipnotico, perché va ripetuto mille volte.
Lo suoni mille volte di seguito per capire se funziona?
No, è una questione di istinto. Non deve essere per forza un riff di chitarra a far funzionare una canzone. Non tutte le canzoni dei Led Zeppelin sono così. C’è anche un altro elemento, più acustico. Ten Years Gone (sul doppio album Physical Graffiti del 1975, ndr) è un pezzo completamente diverso, con una chitarra molto orchestrata. Questa è la cosa bella di suonare in una band longeva, che va avanti tour dopo tour, album dopo album. Sentivamo che non c’era niente al di fuori della nostra portata. Potevamo fare qualsiasi cosa. Se era credibile, funzionava.
L’intro arpeggiato di Stairway to Heaven allora è un riff, perché è ipnotico e ripetitivo. Ma in realtà è molto di più, è pieno di melodia, di parti sovrapposte.
Quello è stato scritto con la chitarra acustica. Stavo facendo pratica a casa, provavo a mettere insieme pezzi diversi. Mi sono venute in mente le strofe centrali, il collegamento con l’assolo e poi la parte finale. L’idea era di una canzone che si costruiva da sola, passo dopo passo. Non avevo nemmeno una parola scritta da Robert, solo una melodia che stava bene con la chitarra.
La cosa incredibile è che questa costruzione di suoni finisce con la voce di Plant da sola. La band se ne è andata, l’ultima parola è sua.
No, in origine c’era un’altra parte di chitarra che avevo scritto per il finale, simile all’intro, ma un po’ diversa. Ma non ho insistito per inserirla. Avevamo già detto tutto quello che dovevamo dire in quella canzone. Ho pensato: "Lasciamo il finale a Robert".
I Led Zeppelin hanno esordito alla massima velocità. Il primo disco è stato fatto in 36 ore, Led Zeppelin II è stato registrato in giro per il mondo mentre eravate in tour. Come produttore e leader della band come facevi a tenere alto il ritmo?
Il primo album è stato un lavoro metodico ed efficiente. Per il secondo volevamo catturare l’energia che la band sprigionava dal vivo. Niente incertezze, niente scherzi: sapevo istintivamente quale era la nostra musica. Volevo muovermi in tutte le direzioni: delicati arpeggi acustici, poi blues e rock, soprattutto i riff che avevo imparato dai bluesman di Chicago. John Paul Jones ha creato il riff di Good Times Bad Times, io ho scritto il ritornello, John Bonham ci ha messo la base di batteria e basso. È stato quel pezzo a definire il nostro modo di comporre: esplodevamo tutti nello stesso momento.
Tu hai formato il gruppo e scelto i suoi membri. Si può dire che i Led Zeppelin sono la tua band?
Senza ombra di dubbio. Al tempo del primo disco era chiarissimo: io portavo il materiale, fornivo le idee e dicevo come andavano fatte le cose. Ma l’elemento in più era l’energia, la professionalità della band. Tutti hanno portato qualcosa all’album. Sapevamo di essere grandi, e la nostra regola ferrea era di eliminare subito tutto ciò che fosse anche lontanamente simile a qualcosa che avevamo già fatto. Tranne Tea for One, che ricorda Since I’ve Been Loving You (su Led Zeppelin III, ndr). Ma lo abbiamo fatto apposta, volevamo dare un’atmosfera diversa a quel blues.
Ti hanno ferito le prime critiche negative?
Non vedevo l’ora di farmi fare questa domanda da uno che scrive per Rolling Stone... Hanno sparso molto veleno su di noi, c’era una certa cattiveria al tempo. Come la vedo ora? I critici hanno esagerato, ma voglio riconoscergli il beneficio del dubbio. Gli album erano molto diversi l’uno dall’altro. Dopo Led Zeppelin e Led Zeppelin II, ecco Led Zeppelin III: "Cosa? Chitarre acustiche? Vogliono fare Crosby, Stills e Nash". Il motivo è che non avevano tenuto le orecchie bene aperte con il primo album: c’era la chitarra acustica anche lì.
Ti hanno fatto arrabbiare?
Mi hanno reso più determinato. Sapevo quello che potevamo dare. Abbiamo lasciato il segno a San Francisco durante il primo tour (i Led Zeppelin hanno aperto per Country Joe and the Fish al Fillmore West per tre serate consecutive nel gennaio 1969, ndr) e, quando abbiamo cominciato a evolverci, tutti volevano vedere cosa sarebbe nato dalle ceneri degli Yardbirds.
La tua ambizione era far diventare i Led Zeppelin la più grande band del mondo?
Volevo che fosse una band in grado di ispirare. I più grandi? Quella è una questione di affari, è una visione commerciale. Per quanto riguarda il pubblico, abbiamo sempre fatto sold out. Abbiamo suonato davanti a più di 55mila persone a Tampa, in Florida, nel 1973 e, durante lo stesso tour, ad Atlanta ne sono venute altre 50mila. Sì, da questo punto di vista abbiamo avuto molto successo.
I vostri rivali in termini di dischi e biglietti venduti negli anni ’70 sono stati i Rolling Stones?
Non mi interessano i dati di vendita. Quando un disco è uscito è uscito, tutto qui. Per quanto riguarda i tour, anche gli Stones riempivano gli stadi. Mi piacciono i Rolling Stones. Charlie Watts e Bill Wyman sono una sezione ritmica incredibile. Sono l’altra metà del cielo rispetto a John Bonham e John Paul Jones. Nel 1976 durante le registrazioni di Presence, a Monaco, ho rubato due giorni di studio ai Rolling Stones. Avevamo lavorato per tre settimane, gli altri se ne erano già andati e io ero rimasto a fare mix e sovraincisioni. Gli Stones dovevano entrare in studio per registrare Black and Blue. Ho chiamato Mick e gli ho chiesto: "Mi dai due giorni per finire il lavoro?" e lui mi ha detto: “Va bene". Eravamo nello stesso albergo, lui mi ha chiesto come stava andando e io: "Mi piace, suona bene". Avevo una copia delle registrazioni con me, sono andato in camera sua e gliele ho fatto ascoltare. "Avete fatto questo in tre settimane?", mi ha chiesto. "No, abbiamo registrato un album intero". “Vuoi dire le tracce base?", e io: "No, abbiamo finito. Grazie per i due giorni". L’idea, l’obiettivo. Era già tutto qui (si tocca la testa, ndr). Non voglio farmi i complimenti da solo, ma questo è un fatto.
Hai finalmente pubblicato la colonna sonora che hai scritto per Lucifer Rising di Kenneth Anger, che lui ha poi eliminato dal film. Cosa è successo?
Kenneth è venuto a casa mia a Plumpton. Avevo uno studio, in cui lavoravo parecchio da solo. Avevo visto il suo film, Scorpio Rising, in una galleria d’arte. Mi ha detto che stava lavorando a una nuova pellicola, aveva già girato i primi 30 minuti e io gli ho proposto una delle mie composizioni sperimentali, tutta strumentale. La chitarra non c’era. Lui ha steso la musica sopra le immagini, e alcune parti ci stavano benissimo. C’è una scena in cui Marianne Faithfull inciampa mentre cerca di salire una scala, e proprio in quel momento entra una tabla, come se arrivasse la divina provvidenza.
Interessante, considerando l’argomento del film.
Assolutamente, Anger era veramente esaltato.
E poi non lo è stato più.
Avevo una sala di montaggio video nel sotterraneo della mia casa di Londra, e gli ho proposto di usarla. Qualche giorno dopo, la mia domestica lo ha trovato con un gruppo di amici che girava per casa mia e gli ha detto: "Per favore, se ne vada". È nata una discussione. Io non c’ero, ma lui ha superato il limite e ha approfittato della mia ospitalità. Se ne è andato, e la musica di Jimmy Page è sparita dal film. Io ero in tour con i Led Zeppelin, a New York, quando il casino non era ancora scoppiato. Avevo una copia della prima parte del film e l’ho fatta vedere agli altri: "Date un’occhiata, ascoltate questa roba". Si sono lamentati fino a cinque piani sotto per il volume. In quel caso ho avuto successo.
Sei diventato celebre anche per il tuo interesse verso l’occulto, in particolare per il mistico inglese Aleister Crowley. Hai vissuto nella sua casa a Loch Ness in Scozia e sei un collezionista di oggetti appartenuti a lui. Cosa ti attira di questo personaggio?
Cosa mi piace del pittore preraffaellita Dante Gabriel Rossetti? Non me lo chiederesti mai. Ma mi chiedi di Crowley. E tutti sono lì ad aguzzare le orecchie in attesa di chissà quale grandiosa rivelazione. La verità è che quando avevo 14 anni ho letto un libro di John Symonds intitolato La grande bestia: vita di Aleister Crowley. Era un libro diffamatorio, ma nelle ultime pagine c’era una bibliografia e io sono stato curioso abbastanza da leggere alcuni dei libri di Crowley. Non è stata la mia unica fonte di ispirazione.
Ma è stato più di un interesse generico.
In realtà, è stato tutto ingigantito. C’era un equilibrio in questa fascinazione, altrimenti non sarei qui adesso.
Hai usato la parola "magia" per descrivere i Led Zeppelin. Cercavi di creare qualcosa di più potente di una sequenza di note e accordi?
La risposta potrebbe essere male interpretata o farmi sembrare ridicolo. Senza dubbio è una musica evocativa, ma non sono solo io o i Led Zeppelin. Anche la musica classica è magica. Sembra che alla gente piaccia attaccarsi ai miei interessi, qualsiasi essi siano, e tirarci fuori qualcosa che in realtà non c’è. Non credo di dover dare delle spiegazioni. Il motivo per cui i Led Zeppelin hanno ancora un pubblico, e una nuova generazione di fan, non sono le parole, è la musica. Non è: “Veramente hanno distrutto una suite d’albergo qui e hanno tirato una televisione dalla finestra là?". È la musica, e non il mito, a mantenere la band in vita. Quando il mito svanirà, ci sarà ancora la musica.
Kenneth Anger è ancora vivo. Avete fatto pace?
Quando ho annunciato sul mio sito che avrei pubblicato la colonna sonora, stranamente ho ricevuto la proposta di fare uscire di nuovo il film con la mia musica. L’ho ignorata.
Qual è il miglior riff dei Led Zeppelin?
È difficile dirlo. Qual è la mia canzone preferita dei Led Zeppelin? Tutte. Ognuna di loro doveva essere proprio lì dove si trova, su quegli album... Ma se dovessi scegliere, forse direi Kashmir. Sapevo che non sarebbe stata una canzone basata solo sulle parti di chitarra. Ci sarebbero state, certo, ma con un’orchestra che avrebbe regalato all’insieme un sapore, i colori di una sinfonia. L’ha scritta John Paul Jones, ma io gli ho detto: "John, deve suonare in questo modo". Ne ero sicuro, l’avevo sentita nella mia testa. Come abbiamo fatto a imparare io e Jeff Beck quando eravamo in grado a malapena di suonare l’assolo di My Babe? Ci siamo riusciti lasciandoci trasportare dentro le casse dello stereo, fino a ritrovarci nella stessa stanza con quei musicisti. Sentivi che stavi imparando mentre loro suonavano, era seducente. Quello che abbiamo fatto in seguito io, Jeff ed Eric è stato infondere lo spirito di quella musica che avevamo ascoltato così profondamente nelle nostre composizioni. Ci entri dentro, la catturi. È bello sentire la stessa cosa nelle tue canzoni, capisci che hai fatto un buon lavoro.
Scrivi ancora dei riff?
Sì, certo. I riff si materializzano all’improvviso, vengono fuori dal nulla. Nessuno può prevederlo. Suono questo, e un attimo dopo sto suonando qualcos’altro. È ciò che rende il tutto così meraviglioso.
Quando suoni un riff nuovo, ti chiedi mai se è buono come Whole Lotta Love?
No, perché non lo sarebbe. Le cose vanno assaggiate per sapere se sono buone. Adesso forse sarebbe importante pubblicare un album che raccolga tutto quello che ho fatto, una specie di riassunto di dove sono arrivato. Perché nelle cose di oggi c’è tutto il mio passato.
Cosa suoni quando sei a casa?
Soprattutto la chitarra acustica. L’unica cosa che non ho mai fatto è suonare delle scale: se prendo in mano la chitarra, suono un pezzo che conosco e di solito mi viene subito fuori qualcosa di nuovo. Quando mi trovo con altri musicisti, ho la capacità di tirare fuori un pezzo al volo. È successo così con John e Jason, dopo il concerto alla O2. Jason aveva un’idea, io lo seguivo subito. È il mio dono di natura.
Ti manca la possibilità di suonare i nuovi riff con i Led Zeppelin?
È stato tutto fantastico, i Led Zeppelin sono la band in cui ogni musicista vorrebbe suonare, e io c’ero. Per quanto riguarda fare musica senza compromessi, mi manca? Come a chiunque altro. Le band oggi non hanno la libertà che avevamo noi. Era un’epoca in cui potevi pensare di formare una band e suonare con loro per molto tempo. Potevi sviluppare e far crescere la tua musica, sentivi istintivamente che non era solo qualcosa che si poteva fare: lo dovevi fare.
Il rock di oggi ti sembra meno ambizioso?
Ci sono più restrizioni. Ci sono band molto creative, che guardano avanti, ma hanno limitazioni che non permettono loro di andare a esplorare le zone a cui siamo arrivati noi.
È come se le regole che voi avete infranto si siano in qualche modo ricostituite...
Quando ero con Neil Christian and the Crusaders avevo un contratto, ma non suonavo nei dischi. Quello era compito dei musicisti di studio. Le case discografiche avevano dei produttori che portavano alle band canzoni scritte da altri produttori. Era una situazione senza via di uscita. Poi sono arrivati i Beatles, e all’improvviso tutte le etichette volevano band che componessero musica in proprio. Questo è stato il grande contributo dei Beatles, forse più di ogni altra cosa che hanno fatto. Oggi mi sembra che si sia tornati indietro: ci sono artisti che sono costruiti per occupare uno spazio vuoto del mercato. Ma la musica è ancora forte dal vivo, ci sono band molto buone. Sono la nostra speranza per il futuro.
C’è un altro problema: gli stessi Led Zeppelin. Come può una rock band emergente superare quell’eredità? I Led Zeppelin hanno segnato dei traguardi che tu stesso ritieni impossibile raggiungere oggi?
Me ne sono reso conto quando, nel 1983, mi hanno chiesto di fare il tour benefico della ARMS a favore della ricerca contro la sclerosi multipla insieme a Jeff ed Eric. Lì ho realizzato che, al contrario di loro, io non avevo una carriera solista. Avevo scritto solo la colonna sonora di Death Wish II. Ma avevo i pezzi dei Led Zeppelin, e non c’era verso di far cantare Stairway to Heaven a qualcun altro. Allora l’ho fatta strumentale.
In un certo senso i Led Zeppelin sono la tua carriera solista. Hai fondato la band per portare avanti le tue idee sul futuro del rock, del blues e della chitarra.
È vero, ma questo potrebbe fare arrabbiare qualcuno. Ho messo tutto me stesso nei Led Zeppelin. Giusto o sbagliato che sia, è così.
Il Jimmy Page che ha suonato alla 02 nel 2007 è diverso o migliore di quello che suonava negli anni ’70?
Tutti noi cambiano, ma i nostri principi base restano uguali. Il Jimmy Page del 2007 celebrava la vita come quello del 1957, del 1967 e sicuramente come quello del 1977. La gente si chiede: «Perché non è andato avanti, e non ha sfruttato al massimo la situazione?». Perché non volevo. Nessun membro dei Led Zeppelin, men che meno io, deve essere più grande dei Led Zeppelin.
È strano pensare che la tua vita sia ancora guidata così tanto dai Led Zeppelin? Mi fa pensare che la band esista ancora.
Sei sempre il chitarrista della più grande rock band del mondo. Spero di essere ancora il miglior Jimmy Page in circolazione. Questa è la cosa più importante. Fino a quando lo sarò, va tutto bene.