Marco Cicala, il Venerdì 1/2/2013, 1 febbraio 2013
VI SVELO UN SEGRETO: IN REALTÀ NON SIAMO MAI ESISTITI
MILANO. Non ditelo a nessuno, ma «il Gruppo 63 non è mai esistito». A svelare questo popo’ di segreto non è uno degli innumerevoli detrattori della neoavanguardia, ma uno dei suoi autori eponimi: Nanni Balestrini. Che subito precisa: «Di fatto, ci incontrammo in appena cinque riunioni, tra ’63 e ‘67. E ci sciogliemmo nel ’69». Autunno caldo o giù di lì. «Non avevamo manifesto, teoria comune, capi carismatici».
Libertari o svogliati? In un testo (nannibalestrini.it/gruppo63/prefazione.htm) si legge che inventaste il gruppo vostro malgrado.
«Quella formula è una civetteria. Sta a significare che avremmo potuto restarcene ognuno nel proprio cantuccio, invece decidemmo di fare qualcosa. Di organizzativo».
Che avevate in testa?
«Interpretare la mutazione italiana, da Paese agricolo a industriale. Per esempio, seguirne la trasformazione sul piano della lingua. Che diventava quella della tv, della scuola dell’obbligo o del meticciato createsi con l’emigrazione da Sud a Nord. Al contrario delle arti, del cinema o della musica - che erano molto più avanti - la letteratura non rispecchiava quei cambiamenti. Era ferma. Nel panorama europeo, arretrata. Arbasino sintetizzò quel tentativo di sprovincializzarla con la metafora della Gita a Chiasso».
Per defibrillare le patrie lettere rottamaste brava gente come Cassola, Bassani, Pratolini... Le «Liale».
«Definirli in modo così sprezzante fu una provocazione».
Se ne pente? Oramai persino Liala è stata riabilitata.
«Erano ottimi scrittori, ma - ai nostri occhi - sorpassati. Andavano letti come dei classici, come Manzoni. Non potevamo riallacciarci a loro».
A differenza delle avanguardie storiche, la neoavanguardia non ebbe un assetto militarizzante. Entrismi, deviazionismi, scissioni, epurazioni... Da voi non erano di casa.
«No. Per dire, quando Alfredo Giuliani e Giorgio Manganelli decisero di andarsene dalla rivista I Quindici, lo fecero perché - durante il ’68 - il giornale, da letterario, era diventato sempre più politico, la voce del movimento studentesco. Però non fu una vera rottura. Magari su certi progetti ci si separava ma su altri si tornava a lavorare insieme».
Lei scriveva cose tipo: este il nido delle morb / i strappa dal petto / ili d’erba fino a for / dei giunchi che rives / oi di petali e fic. Oggi chi le pubblicherebbe?
«Nessuno».
Liberazione o regressione?
«Regressione. Credo. Ho lavorato anni con Giangiacomo Feltrinelli. Lui non aveva un’idea dell’editoria come mecenatismo. Diceva che l’editore è innanzitutto uno che i libri deve venderli. Eppure pubblicava i nostri testi di ricerca. Per andare in attivo puntava su altri titoli. Oggi invece non c’è altro criterio che la vendibilità. È il processo di mercificazione...».
A proposito di processi: al raduno di Palermo, Eco si presentò riformulando in chiave adorniana Arrivederci di Umberto Bindi. Cantava: Alienaziooone/ è rinunciare a se stesso/ è un processo di perdizione./ Forse rivoluzione può liberaaarti... Oggi la parola alienazione è sparita, ma la cosa?
«La cosa no».
Chi sono gli alienati di adesso?
(Sorriso) «Semplicemente tutti. Specie i precari. Sempre più incatenati al lavoro ma senza alcuna garanzia».
Eco dice che il Gruppo 63 non nacque a Palermo ma a Milano, al ristorante.
«Io quel pranzo non me lo ricordo. Invece me ne ricordo un altro, palermitano, nel ’62. A tavola c’erano il barone Agnello, Giuseppe Ungaretti e Luigi Nono, che disse: Sono appena stato in Germania e ho partecipato a una riunione del Gruppo 47. Da lì sarebbe nata l’idea del nostro 63».
Eco la ricorda come un terrorista culturale. Nel ’79 però la accusarono di terrorismo-terrorismo. Era l’operazione 7 aprile contro l’Autonomia.
«Mi incolpavano di concorso indiretto in 19 omicidi. Compreso quello di Aldo Moro. Solo perché avevano trovato il mio nome sull’agenda di Toni Negri e perché scrivevo su Rosso, la rivista dell’area autonoma».
In seguito sarebbe stato totalmente scagionato. Però sfuggì alla retata scappando in Francia. Sugli sci.
«Sì. Il mandato di cattura non mi consentiva di presentarmi alla frontiera mostrando regolarmente il passaporto. Perciò andai a Courmayeur e visto che sapevo sciare passai il confine così».
Torniamo al 63. Si dice che anche Alberto Bevilacqua e Roberto Gervaso bussarono alla porta del Gruppo. Ma non gli fu aperto.
«Mi piacerebbe rispondere di sì, ma francamente non me lo ricordo».
In quella famosa foto di gruppo colpisce l’esiguità della quota rosa. Di donna se ne vede una sola. E sfocata.
«Perché all’epoca era così. Erano pochissime quelle che scrivevano o facevano arte. Oggi – pensi alla poesia – la situazione è del tutto capovolta. Tra i migliori poeti italiani, la maggior parte sono donne».
Gli scrittori non fanno più gruppo.
«Negli anni 90, si ridisegnò qualcosa di simile. Mi riferisco alla generazione post-riflusso degli Aldo Nove, Tiziano Scarpa, Enrico Brizzi, Rossana Campo. Autori molto innovativi. Ma la compagine venne frantumata dall’industria culturale. Che in generale - pagando sempre meglio - ti isola. Ti costringe a fare libri vendibili. E, se non ci stai, te li fa riscrivere dagli editor oppure non te li pubblica affatto».
Nei 60-70 il lavoro culturale era pagato peggio?
«Non solo. Nella stragrande maggioranza dei casi era volontariato».
L’identità volatile, fantasmatica, del Gruppo 63 gli si è ritorta contro. Vi hanno accusato di aver formato una lobby della cultura.
«Parlano di noi come se il Gruppo ancora esistesse. Controllando, tramando nell’ombra».
Umberto Eco dice: Non conquistammo il Potere culturale, per il semplice motivo che cel’avevamo già.
«È vero. Lui ed Edoardo Sanguineti ottennero una cattedra universitaria che non avevano nemmeno trent’anni - cosa oggi impensabile. Altri lavoravano nei giornali o nelle case editrici, che allora erano dirette da scrittori, non da manager».
Nel 1980, da sperimentalista, come giudicò il successo di massa di Il nome della rosa?
«Mi parve che quel romanzo rientrasse in modo assolutamente coerente nel percorso di Umberto Eco, interessato da sempre a fondere ricerca e letteratura popolare. Col tempo, io stesso ho scritto libri più leggibili».
Del nucleo originario faceva parte anche Valerio Riva. Che poi però passò a odiarvi. Poco prima di morire disse in un’intervista: Balestrini piaceva alle donne. Viveva alle spalle di due anziane signore. Insomma, Just a gigolo?
«Riva mi confondeva con un mio amico. Giovane scrittore povero che effettivamente conviveva con una signora attempata. Non con due. Quanto a me, mai avuto il bisogno di farmi mantenere. Ero di famiglia agiata».
In autunno come verranno ricordati i 50 anni del Gruppo?
«Vorremmo fare iniziative a Milano, Reggio Emilia, Roma e Palermo.»
Con gli altri vi frequentate ancora, vi tenete d’occhio a distanza oppure vi ignorate?
«No, siamo rimasti amici. Ogni tanto ci rivediamo. Come vecchi alpini».
E cantate Alienaziooone... ?
(Sorriso).