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 2013  febbraio 05 Martedì calendario

MA I BIG ITALIANI NEI LORO ATTIVI HANNO MENO RISCHI DA FINANZA

Le banche italiane sono sotto pressione in Borsa. Non depone a favore dell’immagine del settore che proprio Mps, l’istituto che è stato governato per anni da chi era al vertice dell’associazione di categoria, sia stato pizzicato a giocare coi derivati con l’apparente scopo di diluire le perdite negli anni. E non giova il fatto che proprio Mps sia la prima banca italiana a rischiare la nazionalizzazione – con i Monti bond lo Stato diventa il potenziale azionista di controllo all’82% – sebbene ciò abbia ben poco a che fare con Alexandria e Santorini (i prodotti strutturati rilevati dal nuovo management come problematici) e molto invece con la minusvalenza sull’ampio portafoglio di titoli di Stato che lo stress test dell’Eba ha cristallizzato al 30 settembre scorso in 3,3 miliardi, Minusvalenza che nel frattempo il ripiegamento dello spread ha dimezzato, ma tant’è.
Se la "modica quantità" non è il salvacondotto per tutti i guai, non è però un caso se finora nessuna banca italiana ha dovuto ricorrere al salvagente di Stato per non affogare. Lo stesso Montepaschi, che coi derivati ci ha dato dentro negli ultimi anni fino a portarsi in testa alla classifica nazionale – i derivati senesi sono quasi quadruplicati in termini di incidenza sui mezzi propri dal 56,3% di fine 2009 al 186,1% di metà 2012 –, ha ancora molta strada da fare per avvicinarsi ai colossi del credito continentale. Al 30 giugno scorso il peso di questi strumenti sul totale dell’attivo era infatti limitato al 7,9% per Mps contro una media delle grandi banche europee (i dati sono presi da R&S-Mediobanca) che sfiorava il 23%. Ben al di sotto le banche italiane: alla stessa data l’incidenza dei derivati era pari al 12,4% sul totale attivo di UniCredit, al 9% di Intesa, al 4,5% di Banco Popolare, all’1,4% di Ubi.
Ma la minor rischiosità degli attivi, che caratterizza gli istituti tricolori, non emerge solo dal peso relativamente basso dei derivati. Anche le cosiddette attività di livello 3 – i titoli diventati poco o per nulla liquidi con la crisi finanziaria del dopo-Lehman e quindi difficilmente smobilizzabili – non sono di ammontare tale da togliere il sonno. Sempre prendendo a riferimento i dati R&S aggiornati al primo semestre 2012, mentre i big di casa, Intesa e UniCredit, evidenziavano attivi illiquidi pari rispettivamente all’8% e al 18% del patrimonio di vigilanza, Deutsche Bank scavallava il 75%, come pure Credit Suisse, zeppa di attivi di livello 3 pari a quasi il 90% del suo capitale netto.
Vogliamo parlare della leva finanziaria? Un campanello d’allarme che solo adesso le autorità di vigilanza stanno prendendo in considerazione, ma che non ha impedito a banche finite nelle braccia dello Stato come Royal Bank of Scotland di vantare ratio patrimoniali da primi della classe ancora pochi mesi prima della nazionalizzazione. Se si misura la leva con il rapporto tra il totale dell’attivo tangibile (escluse quindi le poste immateriali come per esempio l’avviamento) e il patrimonio netto tangibile, Intesa e UniCredit stanno a 19,3 volte contro una media continentale di 27,6 volte. Ma ci sono ancora banche che hanno parametri doppi rispetto alla media: 56,8 volte la leva di Credit Suisse e Crédit Agricole, 55,5 volte la leva di Deutsche Bank. Più alto il valore del parametro, minore il capitale sottostante all’attivo. In altre parole, se la leva è alta, basta anche un piccolo deprezzamento dell’attivo per compromettere la struttura patrimoniale dell’istituto.
Sotto tutti i punti di vista, le nostre banche sono più tradizionali e come tali esposte ai rischi più tradizionali, che i clienti cioè non rimborsino i crediti. Il 56% del totale dell’attivo delle due maggiori banche italiane è spiegato infatti dagli impieghi alla clientela: non a caso i colossi elvetici, che fanno più finanza, si fermano sotto il 20%, i tedeschi superano appena il 25%. Il rovescio della medaglia? Il maggior peso dei crediti dubbi sul totale del patrimonio netto tangibile, che arriva al 69,3% nel caso di Intesa e all’84,2% nel caso di UniCredit. Più del doppio rispetto alla media continentale che è del 29%. In Svizzera poi il cliente che non paga è proprio l’ultimo dei problemi: a fine giugno i crediti dubbi erano pari solo al 2,5% del capitale netto tangibile di Credit Suisse e Ubs. Ma ciò non ha evitato le ripetute ricapitalizzazioni.