Giordano Tedoldi, Libero 5/2/2013, 5 febbraio 2013
L’EDITOR CHE SALVÒ LE PAROLACCE DI HEMINGWAY
[Max Perkins riconobbe il talento di autori come Fitzgerald e Wolfe e lo difese dalle pressioni degli editori che non ne amavano gli eccessi. Senza di lui, non sarebbero mai stati pubblicati] –
L’editor letterario suscita reazioni estremistiche: ci sono validissimi scrittori che, senza il calore del suo incoraggiamento, non covano mai l’uovo, e altri che lo considerano un fallito che al massimo può sistemare la punteggiatura. La colpa è anche degli editor medesimi, che da qualche tempo si pavoneggiano, fondano agenzie letterarie con arie da broker di Wall Street, pubblicano romanzi mediocri puntualmente osannati dai loro clienti. Insomma, non ci sono molti Max Perkins in giro.
Chi è costui? Era L’editor dei geni, come si intitola la sua biografia scritta da Andrew Scott Berg (Elliot, pp. 536, euro 35) anche se in originale il titolo è Editor of genius, cioè editor di genio, come a dire che Perkins fu sullo stesso piano dei grandi che scoprì e assistette: Fitzgerald, Hemingway, Thomas Wolfe, tra i tanti. Perkins lavorò per 36 anni alla Charles Scribner’s Sons, la cui politica editoriale era smaccatamente conservatrice e nel suo catalogo sciorinava le opere complete di Henry James, Edith Wharton e i rimpianti vittoriani della saga dei Forsyte di Galsworthy.
Esordi difficili
Alle riunioni editoriali in cui si decideva quali libri pubblicare, il giovane Perkins doveva fronteggiare Scribner, la cui espressione favorita per stroncare ogni allontanamento dalla tradizione era: «Sono fiero della mia sigla editoriale. Non posso pubblicare romanzi privi di valore letterario» e il capo redattore William Brownell, che quando ricevette Di qua dal Paradiso, l’esordio di Fitzgerald, confessò di «aver dormito sul libro», e che amava rifiutare le proposte più ardite con un formidabile «non possiamo pubblicare tutto. Lasciamo che qualcun altro ne faccia un fiasco».
Non che Perkins fosse un rivoluzionario: il suo romanzo preferito era Guerra e Pace e non aveva nessuna velleità di plasmare i suoi autori: «Non vi venga mai in mente di sentirvi importanti per quello che fate, perché un editor al massimo rilascia energia. Un editor non crea niente. Se avete un Mark Twain, non cercate di trasformarlo in uno Shakespeare o viceversa. Perché alla fine un editor può tirare fuori da un autore solo quello che l’autore ha già in sé».
Quando intuiva la grandezza era però disposto a lottare a costo di licenziarsi. Costrinse Fitzgerald a riscrivere tre volte Di qua dal Paradiso e quando anche l’ultima stesura venne bocciata perché il libro era «frivolo », Perkins sfidò gli anziani: «La mia sensazione è che un editore debba essere fedele prima di tutto al talento. E sarà una cosa gravissima non pubblicare un talento come questo. Se rifiuteremo gente come Fitzgerald, perderò ogni interesse nell’editoria». Fitzgerald all’epoca viveva riparando i tetti delle carrozze ferroviarie. Pochi giorni prima del suo ventitreesimo compleanno, Perkins gli comunicò che Scribner avrebbe pubblicato il suo libro. Fitzgerald insisté perché uscisse entro Natale: voleva far colpo su Zelda Sayre, la sua futura moglie. Perkins gli spiegò che una pubblicazione così frettolosa avrebbe pregiudicato le vendite, e la preoccupazione pecuniaria ebbe la meglio sulle smanie amorose dello scrittore.
L’impatto di un romanzo disilluso come quello di Fitzgerald sul decoro del marchio Scribner si poté misurare quando la sorella di un impiegato dell’ufficio vendite, considerata «molto erudita», lesse il libro. Era consuetudine che se la donna avesse pianto durante la lettura, sarebbe stato un grande successo commerciale. «Che cosa ha detto tua sorella? », chiesero dopo il weekend all’impiegato e quello: «Lo ha preso con le tenaglie, perché dopo averlo letto non aveva più intenzione di toccarlo con le mani, e lo ha gettato nel fuoco ».
Il primo giorno Di qua dal Paradiso, nella libreria dell’editore, vendette due copie, e ciò parve a Perkins «di buon augurio». In una sola settimana, il libro vendette più di 20.000 copie e l’ambizioso Fitzgerald, nel saggio Early Success ricorda: «Mi prendevo così sul serio che non trovai neanche la cosa divertente». Alla prima crisi creativa, Fitzgerald scrisse a Perkins: «Mi piacerebbe sedermi con cinque o sei compagni scelti e bere fino a crepare ma sono stufo in egual misura della vita, dell’alcol e della letteratura. Se non fosse per Zelda, credo che scomparirei dalla circolazione per tre anni. Andrei per mare come marinaio o qualcosa del genere e farei un lavoro duro - non ne posso più della flaccida mollezza semi-intellettuale in cui mi dibatto insieme alla mia generazione».
Perkins rispose così sul rapporto tra vita, alcol e letteratura: «Chiunque pratichi quest’ultima è a intervalli incerti stanco della prima, ma è proprio quello il momento in cui è probabile che si attacchi saldamente al secondo». Spaventato, Fitzgerald tornò a scrivere il suo secondo romanzo e un giorno parlò a Perkins di Hemingway, che all’epoca viveva a Parigi. Nei loro primi scambi, Hemingway disse a Perkins che il romanzo era «una forma terribilmente artificiale ed esaurita» e che voleva scrivere uno studio sulla corrida.
Temi proibiti
Perkins non si lasciò disorientare da quelle provocazioni e pubblicò il suo primo romanzo, Fiesta. Con Hemingway, ancora più che con Fitzgerald, Perkins dovette mediare tra il linguaggio diretto e franco della Lost generation e la vecchia guardia della Scribner. Oltre alla naturale abitudine di Hemingway nel definire Lady Brett Ashley, eroina del romanzo, «cagna», su un calendario, nello spazio per le «cose da fare», Perkins aveva appuntato le tre parole critiche di Fiesta: «cacare», «fottere », «pisciare».
Il vecchio Scribner trovò il calendario e disse a Perkins: «Se devi ricordare a te stesso di fare certe cose, sei nei guai». Con Thomas Wolfe i rapporti furono burrascosi: lo scrittore, che era molto alto, scriveva le pagine del suo secondo, colossale romanzo in piedi, sopra un frigorifero. Buttava le pagine in uno scatolone che veniva poi consegnato a Perkins, il quale doveva pensare a farne un libro.
Un giorno, nell’ufficio di Perkins, di fronte all’ennesima proposta di un drastico taglio, Wolfe se ne stava silenzioso e ferito. In un angolo c’era un bizzarro regalo di un’amica di Perkins, una pelle di serpente con sette sonagli. «Ah ah! Il ritratto di un editor!» esclamò Wolfe.