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 2013  febbraio 05 Martedì calendario

IL MIO SCATTO LIBERO


[Cesare Monti]

L’IMMAGINE della musica italiana degli anni Settanta passa attraverso l’obiettivo del fotografo Cesare Monti. Lucio Battisti che corre nel fango. Fabrizio De André con gli occhi chiusi sovrastato dai microfoni. E le copertine dei dischi della Premiata Forneria Marconi, Ivano Fossati, i Dik Dik, Edoardo Bennato, Angelo Branduardi, Pino Daniele, il Banco del Mutuo Soccorso, gli Area, Eugenio Finardi... «Non mi rendevo conto della forza dei miei scatti. E neanche gli altri: mi chiamavano perché ero giovane e costavo poco».

La chiamavano anche gli amici. Lucio Battisti per esempio.
Lo incontrai per la prima volta a casa mia, era amico di mio fratello (Pietruccio Montalbetti, poi leader dei Dik Dik, ndr). Lucio passava tanto tempo da noi, apprezzava la cucina di nostra madre, scriveva le sue prime canzoni e strimpellava gli esercizi con Pietruccio, anche lui alle prime armi. La nostra casa era piccola, non mi facevano studiare, mi distraevano. Non avevo una grande passione per la musica, invece ci sono cascato dentro con tutti e due i piedi.
Il "disturbatore" Battisti poi è stato tenuto da lei in posa giornate intere.
Lucio davanti alla macchina fotografica era molto paziente, faceva esattamente quello che volevo. Anche stare per ore nella stessa posizione, mentre scattavo centinaia di fotografie. Mio fratello dice che io e Lucio andavamo d’accordo perché eravamo molto simili: caparbi, per niente amanti della mondanità, quasi austeri. Lucio sapeva che l’importante non era il soggetto fotografico, cioè la star, il divo, ma il progetto che ci stava dietro. Per realizzare la copertina del 33 giri Il mio canto libero, del 1972, la foto dei "boschi di braccia tese", radunai una cinquantina di amici. Feci sdraiare tutti quanti a terra e chiesi loro di alzare le braccia. Lavorare con Lucio, però, era difficile: lui era davvero di una professionalità impressionante, non c’era casualità nelle foto, tutto veniva costruito, fin dai più piccoli dettagli. Per la copertina di La batteria, il contrabbasso, eccetera, pubblicato nel 1976, una delle mie preferite, il terreno era stato allagato apposta e Lucio dovette correre più volte in mezzo alle pozzanghere sollevando più acqua possibile. Indossava una muta sotto i vestiti. Gli feci fare centinaia di salti nell’acqua, il giorno dopo aveva la febbre.

Realizzare una foto sola, simbolica, per la copertina di un disco. In Italia il primo a pensarci è stato lei.
Un tempo si prendeva uno scatto da un servizio fotografico e lo si metteva in copertina. Dopo aver lavorato a Londra come assistente fotografico e frequentato il mondo della musica inglese, nel 1971 tornai a Milano con una visione diversa. Il mio lavoro con i cantanti consisteva nel creare un’unica immagine, in un bianco e nero duro, molto contrastato. I giornali non la volevano comprare ovviamente. Lucio mi chiese di collaborare con il gruppo che si stava costituendo intorno a lui e Giulio Rapetti, in arte Mogol. L’etichetta era la Numero Uno. Ci capimmo al volo, Lucio con le sue canzoni aveva intrapreso, come me, la strada della ricerca.

E le palme di plastica sulla spiaggia di Rimini per l’omonimo disco di Fabrizio DeAndré?
Fabrizio in quel momento non aveva un contratto discografico, ma decidemmo di fare lo stesso la copertina. Era il 1978. Per cercare un finanziamento, spinto da Fabrizio, telefonai al comune di Rimini, ma feci una gaffe terrificante: raccontai che De André stava per pubblicare un 33 giri dal titolo Rimini, «una cittadina viva solo d’estate», così dissi. Mi ero dimenticato della sua storia, di Dante Alighieri, di Francesca da Rimini, della signoria rinascimentale dei Malatesta. Me la dovetti cavare da solo. Sulla spiaggia scorsi la postazione di un fotografo che aveva attrezzato un set con palme di plastica affollato di donne con gonnellini hawaiani che volevano farsi ritrarre con quello sfondo. Non erano certo foto ironiche, servivano solo a provocare l’invidia di amiche e colleghe facendo credere in un viaggio esotico. Quella era la copertina simbolo, non certo Francesca da Rimini e la corte malatestiana. Volevamo ritrarre quel mondo dell’apparenza che iniziava a farsi strada.

Pino Daniele e Angelo Branduardi nelle sue foto sembrano angeli musicanti.
Me l’hanno detto anche i fratelli Carmelo e Michelangelo La Bionda: «All’inizio non avevamo capito che in noi cantanti cercavi gli angeli». Il ritratto non riproduce le persone, mette a nudo l’anima. È questo il viaggio che intraprende il fotografo.

Come ha fatto nel 1972 a convincere un omone come Francesco Di Giacomo, voce solista del Banco del Mutuo Soccorso, a posare nudo con un martello in mano?
Le fotografie che gli feci durante il giorno non mi convincevano affatto. Uscendo dal cinema mi venne un’idea. Era già passata mezzanotte, a Milano nevicava. Lui dormiva in un albergo in corso Buenos Aires. Gli telefonai, andai a prenderlo, lo portai nel mio studio e gli dissi subito: «Adesso spogliati». Lo fotografai per due ore, e lui non fece una piega. Risultato? L’immagine simbolo del gruppo, utilizzata per copertine e manifesti.

La foto che ama di più tra quelle che ha scattato?
La mia fotografia preferita è la copertina del 45 giri Il mio canto libero, in cui di Lucio si vede soltanto un occhio, quello sinistro. Però è lui, si riconosce, è inconfondibile. Credo che sia l’immagine che più di altre racconta l’essenza di Battisti.

Perché ha smesso di fotografare i cantanti e negli anni Ottanta ha iniziato a girare spot pubblicitari?
Tutto è coinciso con la morte di Demetrio Stratos (New York, 13 giugno 1979, ndr), il cantante degli Area. Per me si era chiuso un ciclo, e anche per la musica italiana. Gli anni Settanta da noi sono stati incredibili, creativamente fantastici. Negli Stati Uniti i dischi erano già solo business, gli italiani invece ci credevano. Per i giovani la musica era una bandiera.