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 2013  febbraio 05 Martedì calendario

L’INERZIA DEGLI EUROPEI CONDANNO’ COSTANTINOPOLI - Il 28 maggio 1453 l’imperatore bizantino Costantino XI Paleologo radunò i comandanti militari e con commoventi parole — tramandateci da un testimone oculare, l’uomo di corte Giorgio Sfranze — annunciò per l’indomani la battaglia decisiva atta a rompere l’assedio di Costantinopoli da parte del sultano Mehmed II

L’INERZIA DEGLI EUROPEI CONDANNO’ COSTANTINOPOLI - Il 28 maggio 1453 l’imperatore bizantino Costantino XI Paleologo radunò i comandanti militari e con commoventi parole — tramandateci da un testimone oculare, l’uomo di corte Giorgio Sfranze — annunciò per l’indomani la battaglia decisiva atta a rompere l’assedio di Costantinopoli da parte del sultano Mehmed II. Il popolo, secondo Sfranze, «rispose dando prova di eroismo», ma l’impresa non riuscì. Costantino fu travolto e il 29 maggio 1453 segnò così la fine dell’impero durato oltre undici secoli. I turchi uccisero quel giorno circa quattromila persone tra combattenti e popolazione civile. Ma il racconto di Sfranze è quasi sicuramente un falso, costruito un secolo dopo gli eventi da un arcivescovo greco che risiedeva a Napoli. La resistenza ai musulmani non ebbe affatto caratteri grandiosi. In un libro di Jonathan Harris edito dal Mulino, La fine di Bisanzio (pp. 304, 25), si ripercorrono gli ultimi giorni della città sulla base di resoconti di prima mano, dai quali si apprende che i bizantini di Costantinopoli furono «decisamente poco propensi a rinunciare alle loro vite», che i più abbienti si tennero «ben stretti i loro averi piuttosto che donarli per finanziare le difese», mentre i più poveri chiesero di essere pagati per combattere. E che i più strenui «difensori della città» furono i contingenti da Venezia e Genova, quest’ultimo guidato con spirito di abnegazione da Giovanni Giustiniani. È vero che Costantino XI morì in battaglia; ma suo fratello Demetrio si arrese al sultano, consegnandogli, senza combattere, la cittadina di Mistrà. L’altro fratello, Tommaso, non attese neanche l’arrivo dei turchi e fuggì via nave verso l’isola di Corfù. Il «falso Sfranze» fu costruito ad arte per attenuare la vergogna di quei comportamenti che, nel Settecento, Edward Gibbon avrebbe stigmatizzato come poco dignitosi. Colpa che fu ingiustamente estesa anche a Costantino XI Paleologo, definito da George Finlay «il più inetto di tutti i principi». In tempi recenti gli storici sono stati più generosi nei confronti degli ultimi imperatori bizantini, ai quali per anni e anni erano state imputate un’eccessiva disponibilità alla resa, nonché una dannosa predisposizione ai futili battibecchi dottrinari e dinastici. Adesso gran parte degli studiosi sostengono, come Harris, che gli ultimi bizantini videro «nella dominazione musulmana un’alternativa preferibile all’essere controllati dall’Occidente cattolico, dal momento che i turchi, per quanto infedeli, erano nondimeno disposti a tollerare la fede ortodossa». Gli stessi studiosi hanno poi fatto notare come dietro i contrasti fra i Paleologi si nascondessero importanti «questioni economiche e legami famigliari, non solo ambizioni personali». Ma, osserva Harris, «resta la percezione che la risposta bizantina alla minaccia ottomana fu in qualche modo inadeguata, se non vigliacca». Perché? L’autore nota come ancora negli ultimi anni siano state date alle stampe «valanghe di libri», in molti dei quali si riflette l’assunto che «tra Cristianesimo e Islam esistesse (ed esista tuttora) uno scontro connaturato e inevitabile, e che nel Medioevo cristiani e musulmani si trovassero continuamente in uno stato di rivalità e di guerra». Questa convinzione, prosegue Harris, «è oggi alla base della credenza di molti musulmani di essere stati vittime di aggressioni cristiane perpetuatesi nei secoli, e dell’altrettanto erronea idea che molti occidentali nutrono quando considerano l’Islam una religione di violenza per antonomasia». Alla luce di questo genere di pregiudizi, «la prontezza di alcuni bizantini ad arrendersi docilmente ai dominatori musulmani suona come slealtà nei confronti del loro "schieramento" e in qualche modo come una deviazione da quello che ci si dovrebbe normalmente attendere in simili circostanze». Ma all’epoca lo «schieramento» occidentale, a cui i bizantini avrebbero dovuto mostrare lealtà, non esisteva in nessun modo. L’ultimo secolo di vita dell’impero bizantino fu contrassegnato sul teatro europeo dalla guerra dei Cent’anni (1337-1453) combattuta tra cristiani inglesi e cristiani francesi; nello stesso periodo si ebbe un aspro conflitto tra i musulmani ottomani e i correligionari karamanidi, anch’essi turchi: ciò che dimostra come dietro la gran parte delle guerre del tardo Medioevo non ci fossero affatto dogmi religiosi. Di conseguenza, scrive l’autore, si può dire che nella fase conclusiva della storia di Bisanzio «la disponibilità a un accordo con i turchi da parte di alcuni bizantini non era necessariamente questione di vigliaccheria o di mancanza di patriottismo, quanto piuttosto consapevolezza del fatto che i turchi costituivano ormai un elemento permanente della scena politica, destinato a non scomparire». Le questioni cruciali cui i bizantini dovevano far fronte non riguardavano tanto rivendicazioni di natura religiosa o territoriale, quanto il pragmatismo della politica internazionale e del maneggio diplomatico, nonché la necessità di fare le giuste scelte individuali per assicurare un futuro a se stessi e alle proprie famiglie». Del resto le premesse per quel che accadde nel 1453 erano state poste un secolo prima, nel 1354, allorché gli ottomani sbarcarono sulla sponda europea dei Dardanelli, conquistarono Gallipoli e gran parte della costa settentrionale del Mar di Marmara. Fu poi l’emiro ottomano Murad I a permettere ai signori locali sconfitti di rimanere al loro posto, «purché riconoscessero la loro condizione di vassalli, gli versassero tributi, e fornissero truppe che servissero sotto le sue armi». Finché, dopo la caduta di Adrianopoli, fu lo stesso imperatore bizantino Giovanni V Paleologo — dopo aver cercato aiuto a Roma, dove si era convertito per calcolo politico alla fede cattolica, e a Venezia, dove era stato addirittura arrestato per debiti — che si sottomise, nel 1372, a Murad. Conservando, in compenso, la sovranità su Costantinopoli. In segno di deferenza, Giovanni si dispose ad inviare alla corte di Murad il proprio figlio Manuele con un contingente di truppe da porre al servizio dell’esercito ottomano. Manuele accettò di mala voglia. Qualche anno dopo, nel 1382, si ribellò e andò a guidare la resistenza di Tessalonica all’assedio ottomano. Dopo cinque anni, nel 1387, i tessalonicesi, sfiniti, chiesero a Manuele di andarsene per potersi arrendere anche loro a Murad. Il quale Murad, per magnanimità (e per sottile calcolo politico), consentì a Manuele di tornarsene a casa e ricongiungersi al padre. A quel punto la sovranità del mondo bizantino era solo di facciata e il dominio turco non conosceva più impedimenti. Ma nel 1389 Murad morì e il figlio che gli succedette, Bayazid I, si mostrò subito meno prudente e politico del padre. Una nutrita serie di successi militari convinse Bayazid, nel 1394, a cingere d’assedio Costantinopoli per conquistarla. E Manuele, succeduto al padre Giovanni, si trovò alle prese con lo stesso problema che aveva scelto di affrontare (con scarso successo) a Tessalonica. Stavolta, visto che rischiava di cadere in mano ai musulmani la più importante città cristiana del tempo, decise di chiedere aiuto alle potenze con lo stesso credo religioso. Quelle del nostro continente. E qui si entra nel vivo di un’indagine assai accurata dei mali congeniti al dna della futura Europa. Manuele si rivolse alla Russia (cristiano ortodossa), ma la Russia lasciò cadere l’invito. Poi al Sacro Romano Impero, che copriva le attuali Germania, Austria e Repubblica Ceca. In seguito ai regni di Francia, Inghilterra, Ungheria; al ducato di Borgogna, alla Spagna che, con l’eccezione dell’emirato di Granada, era tutta cristiana e alle città-stato italiane: Firenze, Milano, Venezia, Genova, Siena, Ferrara. Come si diceva, l’intera Europa attuale. Ma ottenne poco. Molto meno di quello che era stato messo in campo per le crociate. Qualcosa del genere aveva tentato suo padre Giovanni V nel 1369, quando, per ricevere aiuti da Occidente, si era recato a Roma dove, come abbiamo ricordato, si era addirittura convertito al cattolicesimo. Ma non gli era servito a niente e così, tornato a casa, Giovanni si era fatto vassallo dell’impero ottomano. Adesso sembrò che Manuele II potesse avere miglior fortuna. Nell’estate del 1396, un esercito congiunto di 15 mila francesi, borgognoni e ungheresi guidato da Sigismondo, re d’Ungheria e da Giovanni di Nevers, figlio del duca di Borgogna, si mise in moto alla volta di Costantinopoli. Ma Bayazid mosse all’attacco dei latini e il 25 settembre li affrontò a Nicopoli, in Bulgaria, annientandoli. Tre anni dopo, nel 1399, fu Carlo VI di Francia a inviare un migliaio di uomini per aiutare Costantinopoli a resistere. E l’anno successivo fu Manuele a intraprendere un viaggio in Francia e in Inghilterra (tra le quali stava per riaccendersi la guerra dei Cent’anni) per mettere a punto una strategia europea meno disordinata, così da liberare Costantinopoli e sconfiggere i musulmani una volta per tutte. Papa Bonifacio IX benedisse l’iniziativa di Manuele, promettendo indulgenze speciali per tutti coloro che lo avessero aiutato, e il suo rivale avignonese Benedetto XIII assunse lo stesso impegno. Ma erano tutti annunci a cui non seguiva niente: la rivalità tra Venezia e Genova ostacolava tra l’altro la creazione di una flotta comune che avrebbe potuto essere l’arma decisiva. Il sultano Bayazid, che per mettere zizzania tra i suoi antagonisti sosteneva apertamente le aspirazioni di Ladislao di Napoli al trono d’Ungheria, era ben consapevole del fatto che le divisioni avrebbero impedito a quelle potenze di trovare un vero accordo: «Finché i cristiani avranno due papi», diceva, «li combatterò senza timore; quando ne avranno uno solo, dovrò fare la pace con loro». Manuele si rassegnò e restò a Parigi, ospite del re francese nel palazzo del Louvre, per scrivere un trattato teologico assai erudito sulla processione dello Spirito Santo. «Può darsi», scrive Harris, «che si aspettasse di ricevere da un giorno all’altro la notizia che Costantinopoli era infine caduta in mano a Bayazid, nel qual caso egli avrebbe potuto trascorrere in Francia il resto della sua vita in aureo ritiro». Fu lì, a Parigi, che nell’estate del 1402 lo raggiunse, a sorpresa, la notizia della sconfitta di Bayazid. Solo che Bayazid era stato travolto non già da mano europea, bensì asiatica. Nel senso che il sultano aveva avuto l’imprudenza di rivolgersi contro i musulmani dell’Asia Minore, aggredendo l’emiro di Sivas, protetto da Tamerlano, il signore dei mongoli di Samarcanda. Fu dunque Tamerlano che, per reazione, attaccò l’esercito di Bayazid ad Ankara a fine luglio (dopo aver addirittura deviato il corso di un fiume per assetare le truppe nemiche) e lo fece a pezzi. Dopodiché l’armata mongola di Tamerlano dilagò. Fino a Smirne che, dopo essere stata catturata dai crociati nel 1344, era ancora in mano ai cavalieri cristiani di San Giovanni. In seguito Tamerlano richiamò in terra ottomana tutti gli emiri turchi che Bayazid aveva estromesso e tenne il sultano prigioniero fino alla sua morte nel 1403. Ma non andò oltre. Toccò al figlio di Bayazid, Suleyman, il compito di ricostruire l’impero ottomano. Nell’indifferenza dei bizantini (e degli Stati cristiani europei) ai quali lo scampato pericolo appariva definitivo. Anzi, Harris sottolinea come, persino con i turchi alle porte di Costantinopoli e con l’impero sull’orlo della rovina, i bizantini fossero riusciti a «trovare il tempo di cimentarsi in lotte intestine e di farsi coinvolgere in intricati e interminabili battibecchi ideologici». Sotto questo aspetto, prosegue l’autore, «Bisanzio non era affatto diversa da altri regni medievali»: nella fattispecie, «le sue rivalità politiche vertevano attorno al controllo dell’ufficio imperiale e, come in altre società, tali lotte erano soltanto un modo di esprimere profonde differenze ideologiche di fondo, nello specifico sul modo di rapportarsi ai latini e ai turchi ottomani». Presto ripresero i rapporti economici tra bizantini e turchi, rapporti che in breve ridivennero ottimi. Del resto «era la stessa prossimità dei due imperi a fare sì che i due popoli avessero poche altre scelte quando si trattava di cooperare… qualcosa che fecero spesso». Greci e turchi finirono per assumere vicendevolmente aspetti della cultura gli uni degli altri. I bizantini appresero dai turchi l’arte (preziosa per le guerre dell’epoca) del tiro con l’arco a cavallo; i turchi impararono dai greci le tecniche marinare più moderne. Ma non era solo per questo che i bizantini ai tempi di Giovanni VII preferivano la sottomissione ai turchi. C’era anche, come si è detto, la sordità ai loro appelli della frastagliata Europa dell’epoca. E soprattutto il ricordo del 1202, cioè della Quarta Crociata, partita per strappare l’Egitto ai saraceni, ma deviata su Costantinopoli. Anzi, contro Costantinopoli. Qui i crociati si intromisero nelle lotte per il potere e quando il capo di una fazione da loro appoggiata fu ucciso, francesi e veneziani si ritennero «oltraggiati e traditi», e attaccarono la città. Il saccheggio che ne seguì fu brutale, ma quello che più sconvolse i bizantini fu il modo in cui «il cosiddetto esercito cristiano si comportò nei confronti delle chiese di Costantinopoli, che vennero sistematicamente razziate e spogliate». Le truppe latine fecero irruzione nella cattedrale di Santa Sofia, mettendo le mani sui vasi sacri dell’eucarestia e sulla lampade d’argento, dissacrarono addirittura l’altare. Un sacerdote bizantino così descrisse i crociati a Costantinopoli: «Depredano i luoghi santi, calpestano le cose divine, scatenano liti per gli oggetti sacri, gettano a terra le sante immagini di Cristo, della sua santa Madre e di tutti i santi uomini che in eterno sono graditi al Signore Iddio, e gridano ingiurie e oscenità». Certo, i crociati avevano agito in questo modo senza essere stati a ciò autorizzati dal Pontefice. Ma la Chiesa accettò che essi procedessero in seguito all’elezione di un loro imperatore e, soprattutto, che chiamassero un ecclesiastico veneziano a ricoprire la carica di patriarca per imporre il rito cattolico alle chiese della città. Questo stato di cose durò oltre cinquant’anni, fino a quando nel 1261 Michele VIII Paleologo riconquistò la città e restituì Santa Sofia a un patriarca ortodosso. Così quando Giovanni e poi Manuele presero la decisione di lanciare una richiesta di soccorso all’Occidente, ai loro concittadini non poteva passare inosservata la circostanza che stessero chiedendo aiuto «ai discendenti di quegli uomini che due secoli prima avevano saccheggiato Costantinopoli, il cui orientamento religioso era ritenuto eretico dalla gran parte dei bizantini». Anche all’epoca dell’assedio di Bayazid, la diffidenza e il rancore degli abitanti della città nei confronti dei latini era maggiore di quella che avevano per i turchi. E sono rimaste testimonianze di innumerevoli loro vessazioni all’indirizzo degli europei (mentre i turchi rimasti in città venivano lasciati in pace). Ad esempio c’è una lettera di Enrico IV d’Inghilterra a Manuele II (che tra il 1400 e il 1401 era stato suo ospite), nella quale il sovrano inglese lamenta di aver ricevuto «inquietanti resoconti su maltrattamenti subiti da cristiani latini a Costantinopoli a opera dei sudditi dell’imperatore». Il grande entusiasmo che una piccola cerchia di intellettuali e cortigiani provava per tutto ciò che veniva da Occidente, scrive Harris, non era condiviso da gran parte della popolazione e di sicuro nemmeno dai monaci del monte Athos, a cominciare da Gregorio Palamas (1296-1359), futuro arcivescovo di Tessalonica. Qualunque cosa il basileus (sovrano) proponesse in merito a un aiuto contro gli ottomani da chiedere all’Europa dell’epoca era accolto perciò con sospetto e grande freddezza. Ma l’imperatore Manuele non si dava per vinto. Inviò una grande quantità di ambasciatori presso le corti occidentali, primo tra tutti l’assai stimato Manuele Crisolora, che era stato docente all’università di Firenze. Tra il 1404 e il 1415 Crisolora «vagò indefesso per tutta Europa, trattenendosi in Italia, Francia, Inghilterra, Spagna e Germania ond’esortare i loro regnanti a inviare aiuti a Costantinopoli». Altri ambasciatori furono mandati anche in Ungheria, Polonia e Lituania. Ma tutti senza successo. Manuele II stipulò allora importanti alleanze matrimoniali, imparentandosi con il marchese del Monferrato e con il conte di Rimini. A un tempo però scelse di aiutare Ohran, figlio di Suleyman, contro il sultano Musa, suo grande nemico. La contesa fu aspra e Ohran finì strangolato. Allora Manuele diede una mano a Mehmed, fratello di Musa, e questi vinse la partita riuscendo a riunificare l’impero ottomano fino a quel momento diviso. Il che, come era facile immaginare, non fu un bene per il mondo bizantino. Quando l’impero musulmano riunificato finì nelle mani di Murad II, per Bisanzio fu l’inizio della fine. Nel giugno del 1422 l’esercito del sultano cinse nuovamente d’assedio la capitale di Manuele II. I combattimenti durarono tutta l’estate, il 24 agosto i turchi attaccarono le mura teodosiane, che resistettero, cosicché il 6 settembre Murad fu costretto a sospendere l’assedio. Per poco. Qualche tempo dopo a Costantinopoli divenne imperatore Giovanni VIII Paleologo (l’unico di cui sia sopravvissuto un ritratto, realizzato da Pisanello) che si trovò a dover affrontare nuovamente i turchi. Nel 1423 Giovanni VIII intraprese un viaggio a Venezia, Verona, Pavia, Milano e poi in Ungheria alla ricerca di nuovi aiuti. Ma non ne ebbe, se non a parole. E nella primavera del 1430 Murad era all’attacco di Tessalonica. La cui caduta riaccese la discussione sul modo di rapportarsi all’Occidente. I bizantini ritenevano che fosse urgente venire a patti con il sultano, dal momento che i turchi si erano definitivamente ripresi dal tracollo del 1402. Solo Giovanni VIII invece insisteva nel cercare aiuto in Europa. Anche a costo di chiudere lo scisma tra Chiesa ortodossa e Chiesa cattolica, così da poter chiedere al Papa la benedizione a una vera e propria crociata contro i musulmani. Fu questo il segno del Concilio che si tenne prima a Ferrara (1438) poi a Firenze (1439), al quale partecipò l’imperatore in persona (nonostante fosse afflitto da un grave attacco di gotta che una volta lo costrinse ad entrare a cavallo fin dentro la sala da pranzo dell’abitazione di un gentiluomo di Peretola che lo aveva invitato a colazione). Il 6 luglio 1439 fu sancita la riunificazione delle due Chiese e così Giovanni VIII rientrò trionfante a Costantinopoli. Ma gli effetti del Concilio di Firenze furono nulli e a Bisanzio prese piede un clero antiunionista che ripudiava il compromesso con il Papa. Presto il nuovo sultano, Mehmed, mosse all’attacco del nuovo imperatore Costantino XI. Il papa, Niccolò V, non si dimostrò ben disposto come l’imperatore aveva sperato, con ciò dimostrando che il Concilio di Firenze non era servito a nulla: a Costantinopoli fu il trionfo dei contrari all’unione con la Chiesa cattolica (tant’è che a Roma il patriarca unionista, Gregorio III Melisseno, era costretto a vivere praticamente come un rifugiato). Mehmed, una volta che ebbe preso la decisione di sferrare l’attacco definitivo a Costantinopoli, fu lesto ad ammantare la campagna nei panni di un jihad contro gli infedeli, «benché soltanto pochi mesi prima avesse strapazzato a cuor leggero i confratelli musulmani, i turchi karamanidi». Era intollerabile, dichiarò, che Costantinopoli, «circondata com’era dalle terre dell’Islam, dovesse sopravvivere sotto il dominio di un re cristiano». E sferrò l’attacco. Un grande turco, il principe Orhan, restò dalla parte dei bizantini e, nel momento della disfatta, si gettò dalle mura marittime sfracellandosi sulle rocce sottostanti. Furono uccise due personalità latine di altissimo rango, il bailo veneziano Girolamo Minotto e il console catalano Pedro Juliano. Si salvò l’uomo più ricco di Costantinopoli, il megaduca Luca Notara, a cui il sultano rese omaggio andandolo a trovare a casa, dove assisteva alla moglie malata. Ma trascorse qualche ora e anche Notara fu messo a morte (qui Harris dà scarso credito al racconto per cui questo cambio di umore di Mehmed fu causato dalla decisione del nobile di rifiutargli il figlio quattordicenne che il sultano avrebbe voluto possedere carnalmente lo stesso giorno della sua visita). Nelle isole le cose furono più semplici: a Imbro, il governatore bizantino, Michele Cristobulo, accettò di consegnare Lemno, Taso e Imbro stessa al sultano, a patto che gli abitanti non ricevessero molestie. E così fu. In seguito gli esuli bizantini si sparpagliarono in tutta Europa. Un buon numero di rifugiati raggiunse il porto di Ragusa, sulle coste della Croazia. Da lì si trasferirono a Milano, in Francia, Germania, Inghilterra, Scozia, Spagna. Alcuni discendenti dell’ultimo Costantino si fecero musulmani. Il duca di Borgogna Filippo il Buono annunciò una crociata alla riconquista di Costantinopoli. Lo stesso fece Alfonso di Aragona. L’imperatore Federico III convocò a Francoforte una dieta di prìncipi in cui venne proposto di inviare in Ungheria un contingente di 40 mila uomini, per iniziare di lì una controffensiva antimusulmana. Nel luglio del 1456 gli ungheresi riuscirono a infliggere una sconfitta all’esercito del sultano. Ma le forze combinate di Ungheria, Borgogna e Aragona non approfittarono del momento e rinunciarono ad andare oltre. Nell’ottobre 1463, dopo varie analoghe iniziative pontificie, Pio II emanò la bolla Ezechielis prophetae, con la quale dichiarava formalmente guerra ai musulmani, e radunò una flotta nel porto di Ancona. Ma nell’agosto dell’anno successivo il Papa spirò prima che quelle navi prendessero il largo. Fu l’ultima volta che in Europa ci si propose di andare alla riconquista della capitale bizantina. Da quel momento, la casa romana del prestigioso umanista cardinal Bessarione divenne rifugio e punto di ritrovo per gli esuli bizantini fino alla sua morte, avvenuta nel 1472. Messi di fronte alla schiacciante superiorità militare dei turchi ottomani, scrive Harris, «ben pochi bizantini avevano optato per il sentiero dell’eroica resistenza che la cronaca dello pseudo Sfranze attribuisce a Costantino XI». Essi scelsero piuttosto di «conservare le loro sostanze» laddove era possibile e, quando giunse la fine, si adattarono al nuovo regime. Conclude l’autore che quegli ultimi bizantini «ebbero semplicemente la sventura di vivere in un’epoca in cui la ricchezza e la forza della loro società erano quasi completamente erose, lasciandoli nell’impossibilità di affrontare gli ottomani sul piano militare». E, li giustifica, «non dovrebbe giudicarli con eccessiva severità chi non abbia mai vissuto analoghi frangenti». Probabilmente Harris ha ragione: sarebbe sbagliato per la fine di Bisanzio attribuire colpe a collaboratori e sudditi di Costantino XI. Tra l’altro, quando si fa storia forse non è mai il caso di dare giudizi retrospettivi. Ma sui comportamenti di quella che un giorno si sarebbe chiamata Europa e sulle conseguenze che ebbero nel mondo musulmano probabilmente sarebbe giusto approfondire la riflessione. Paolo Mieli