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 2013  febbraio 05 Martedì calendario

LE RELAZIONI MIRACOLOSE

Che cosa indica nell’Italia di oggi la parola notabile? Non è forse solo un modo volutamente — ma immotivatamente — spregiativo di definire l’élite, cioè quel vertice che esiste e adempie a un ruolo decisivo in ogni società? Non credo. Notabili ed élite sono cose diverse e proprio l’Italia ne è una prova: tra l’altro — come dirò — con l’uso tanto diffuso quanto ambiguo dell’espressione «società civile».
L’élite propriamente detta è composta di figure (spesso con un adeguato sfondo familiare) dotate di competenza in ruoli specifici nel campo delle attività private o dell’amministrazione, nonché di riconosciuto valore, integrità e successo.
Il notabile italiano, invece, è un’altra cosa. È innanzitutto (ma in misura minore) chi, a partire da una base di eccellenza personale, arriva alla politica per cooptazione ma vi rimane poi di fatto vita natural durante (sempre eludendo però il meccanismo della ricerca del consenso elettorale grazie al seggio parlamentare o altro ruolo pubblico assegnato «dall’alto»). Sono, per antonomasia, quegli «intellettuali» e «tecnici» beneficiati in particolare dalla Sinistra, salvo quelli — in genere i migliori tra loro — che dopo una legislatura capiscono come stanno le cose e tagliano la corda. Vi è poi un secondo tipo di notabile, quello diciamo così più autentico, il notabile doc. È colui al quale, forte di opportune relazioni personali quasi sempre politiche (di rado un’eccellenza professionale), non viene già offerto di svolgere uno specifico incarico pubblico in relazione alle sue competenze, bensì — sia pure talora a partire da queste — viene cooptato in un circuito di potere diffuso, al cui centro c’è sempre e comunque la politica. Per rimanervi anch’egli vita natural durante. È il jolly del potere italiano. È il notabile che può essere e fare di tutto: guidare un gabinetto o un ufficio legislativo, un’Authority, un governo tecnico, l’Aspen, un’enciclopedia, un ente pubblico, una fondazione bancaria, il Touring Club, la Federazione Giuoco Calcio, il Cnel, una società aeroportuale, la Cassa depositi e prestiti, Cinecittà, la Rai, un Consiglio superiore di qualunque ministero, le Poste, insomma tutto. Oltre che, beninteso, sedere in centinaia dei più vari consigli di amministrazione; e naturalmente tutto ciò per decenni, passando da un posto all’altro senza alcuna particolare competenza, e magari sommando contemporaneamente le prebende e gli incarichi più eterogenei (inclusi quelli parlamentari).
Come si vede, in Italia è la politica il brodo di coltura essenziale di questa categoria di persone. Non solo perché è la politica, con il suo storico statalismo, che assicura l’enorme estensione delle posizioni, dei posti disponibili per i notabili, ma perché essa costituisce l’amalgama omogeneizzante (ormai transpartitico) che rende possibile la compenetrazione/sovrapposizione di tutto e di tutti: e dunque la moltiplicazione diffusiva del potere di ognuno. È così che per esempio qualunque notabile può assicurare un posto al proprio coniuge o al proprio figlio in pratica dappertutto. È per l’appunto sempre questa esigenza della compenetrazione, in vista dell’accrescimento della capacità d’influenza, che spiega la tenace propensione del notabilato italiano di origine politica ad autonomizzarsi. In particolare dando vita e riconoscendosi in reti di legami alternativi a quelli ufficiali di tipo politico-partitico: da quello di parentela (più frequente di quanto si pensi) al legame di tipo massonico, oggi più in voga che mai, a quello delle «cricche» e consorterie consimili.
Cresciuto enormemente in potenza con la seconda Repubblica, il notabilato è divenuto in tal modo, e sempre più spesso, il serbatoio e insieme il traguardo, la «sistemazione», del ceto politico, una volta lasciato l’impegno parlamentare.
Se così stanno le cose si capisce perché è tanto difficile per l’Italia avere una classe dirigente. Questa è possibile, infatti, quando l’élite come l’ho definita sopra (figure con competenza in ruoli specifici, di riconosciuto valore, integrità e successo), quando i membri di tale élite, dicevo, sono in grado di accedere ai luoghi del comando pubblico (statale e non). Proprio ciò in Italia però non avviene, non può avvenire, dal momento che tali luoghi sono pressoché interamente monopolizzati dal notabilato d’origine politica. Il quale vi impone le sue regole: prima di ogni altra la regola della inamovibilità. Il massimo a cui un membro dell’élite può aspirare in Italia è un inutile posto di senatore o deputato, nel quale si accorgerà presto chi è che comanda davvero. In quest’ottica emerge in pieno il carattere sostanzialmente di alibi che finisce per avere la nozione di «società civile»: una nozione, guarda caso, che solo qui da noi ha la diffusione che sappiamo. Ma che in realtà serve al ceto politico per evitare un confronto vero con le eccellenze sociali, con l’élite vera e propria, e di conseguenza per evitare il problema di dar vita ad un sistema di potere complessivamente diverso dall’attuale. Viceversa l’evocazione rituale della «società civile» serve piuttosto per fingere di rinnovarsi, di «andare verso il popolo», approvvigionandosi (tuttavia solo in occasione delle elezioni) di persone, perlopiù sconosciute o di secondo rango, e però pomposamente esibite come provenienti per l’appunto dalla «società civile». Destinate regolarmente, come è ovvio, a non contare niente e a poter fare ancor meno.
Ernesto Galli della Loggia