Gianni Riotta, La Stampa 5/2/2013, 5 febbraio 2013
NON C’È UNA VIA ITALIANA PER USCIRE DALLA CRISI
Consiglierei a tutti coloro che stanno ponderando per chi votare nelle cruciali elezioni del 24 febbraio la lettura incrociata di due bei libri, seri e chiarissimi, Lezioni dalla crisi dell’ex premier Giuliano Amato (Laterza) e del vicedirettore del Sole-24 Ore Fabrizio Forquet, e L’intelligenza del denaro di Alberto Mingardi, giovane direttore dell’istituto Bruno Leoni (Marsilio). Con esempi semplici, fondati su argomentazioni profonde, i due saggi esaminano l’intrattabile crisi, finanziaria e dell’euro, che ci affligge dal 2007, scavano nel capitalismo del passato e del presente e arrivano, con serenità, a trattare la vicenda italiana. Siamo da una generazione paese che non cresce, con bassa produttività e innovazione, manifattura forte (seconda in Europa, sesta nel mondo) ma frammentata in piccole imprese di scarso peso globale, forti costi dell’energia, alta disoccupazione, grande debito pubblico e ricchezza privata, ceto medio che perde identità e patrimonio.
Secondo le etichette correnti Amato e Forquet partirebbero da posizioni più vicine a Lord Keynes (lo Stato interviene quando la crisi rallenta l’economia), Mingardi è più legato alla scuola liberista di Milton Friedman, persuaso che il pur generoso sforzo della spesa pubblica crei al genio del mercato maggiori guai che benefici. In realtà i due libri non rinunciano al pragmatismo per le idee astratte, si sforzano di vedere cosa funziona in realtà, invitano il lettore - vivaddio, in questa campagna elettorale di luoghi comuni - a pensare senza preconcetti. Amato e Forquet prendono le mosse dalla caduta di Lehman Brothers nel 2008, i giorni in cui The Economist eThe Financial Times titolavano attoniti «È la fine del capitalismo?». Spiegano come la crisi sorprenda gli economisti non per ignavia - come la Regina Elisabetta imputa al povero governatore della Banca d’Inghilterra King - ma perché mai nella storia, neppure nel catastrofico 1929, abbiamo affrontato un sisma globale, con i mercati connessi nella nevrosi dei nanosecondi. Lezioni dalla crisi calcola che tra il 2008 e il 2010 vengano bruciati 3100 miliardi di euro di prodotto interno lordo e in 37 milioni restino senza lavoro (considerate: in Italia gli occupati sono 23 milioni). Da noi perdono il posto in 350.000, mezzo milione vanno in cassa integrazione, il 10% dei lavoratori affronta la povertà, un ragazzo su tre è disoccupato, l’ansia sociale porta al boom degli antidepressivi. Lo sviluppo? Nel 2015, forse.
A chi crede, dal Fatto al Giornale , che la vicenda del Monte dei Paschi di Siena sia un giallo in cui Cattivi, Corrotti e Politicanti rubano ai Poveri, cari al Vendicatore Beppe Grillo, Amato e Forquet ricordano con pazienza come la crisi dei mutui in America contagi il mondo, costringendo le banche a inseguire profitti a rischio per coprire gli investimenti degli anni presunti «buoni». Morale? Solo «competendo sull’innovazione» l’Italia tornerà al benessere.
Qui si innerva il lavoro di Mingardi: L’intelligenza del denaro , titolo ideato dal giornalista Luca Mastrantonio, ritiene che non ci sia «via italiana» alla produzione e che imbrigliare il mercato in un eccesso di regole, illudersi di dirigerlo verso «il bene comune» prepari stagnazione e crisi. Il libro – a sua volta brillante e senza tic accademici - prende le mosse dal boom dei telefonini. Nato in America con la Motorola, pesando quasi un chilo, con solo mezz’ora di uso dopo dieci ore di carica e con un costo, oggi, di 6700 euro, il «telefonone» di allora ci fa ridere. Ma se abbiamo in tasca prodigi che ci permettono di leggere giornali, partecipare ai social media, mentre in Africa fanno da portamonete elettronico per ogni pagamento, dal taxi alla scuola dei bambini, il merito non è di Motorola, bensì del mercato che, lanciando alla competizione altre aziende, ha, in pochi anni, cambiato uno strumento di comunicazione privato in televisione, radio, computer e tipografia tascabili. Pretendere di «regolare», o riprodurre per legge, questo processo è da Don Chisciotte scrive Mingardi: soprattutto in Italia, paese che da sempre diffida del «mercato».
A sorpresa i due lavori si incontrano, quando Mingardi cita lo storico discorso del premier Amato, 22 aprile 1993: «È un dato di fatto che il regime fondato su partiti che acquisiscono consenso di massa attraverso l’uso dell’istituzione pubblica nasce in Italia con il fascismo ed ora viene meno. Non a caso (…) nello stesso momento viene meno il regime economico fondato sull’impresa pubblica, che era nato negli Anni 30. Si tratta di un regime economico e di un regime di partiti che attraversa (…) un cambiamento pur importante, fondamentalissimo, come il passaggio tra quel regime e la Repubblica, ma che ora viene meno». L’idea che l’impresa pubblica garantisca sviluppo più del mercato - di cui con lucidità Amato annuncia il declino 20 anni fa - è, sotto la lente di Mingardi, sottesa a tante vicende italiana di oggi, Fiom contro Fiat, Monte dei Paschi, Alitalia, Ilva. La diffidenza stessa degli intellettuali per il mercato è, a giudizio dell’autore, radicata nel loro, pur nobile, senso del merito, credere che il più colto debba essere il più retribuito e promosso, mentre spesso i consumatori preferiscono altri criteri e funzioni, ostili agli accademici.
La transizione dal gabinetto Berlusconi a Monti, la stagione delle riforme mancate, la volata elettorale di Bersani e del Pd, è da Amato, Forquet e Mingardi stretta nell’unica cornice degna: la difficoltà comune del paese a rinunciare alle illusioni confortanti del passato e a confrontare, a viso aperto, la realtà del futuro. Nessuno dei tre autori cede al vezzo intellettuale di credersi migliore, o al di fuori, del nostro tempo. Ne nascono due volumi rari in Italia, entrambi colti e chiari. Utili prima del voto, indispensabili dopo.