Carlo Bonini; Walter Galbiati, la Repubblica 5/2/2013, 5 febbraio 2013
COSÌ LA FONDAZIONE SI STRANGOLÒ CON L’ULTIMO PRESTITO CAPESTRO E PER MPS 740 MILIONI DI PERDITE
Il contratto di 126 pagine siglato con Jp Morgan nel 2011 per l’erogazione di un prestito di 600 milioni di euro con cui sostenere un aumento di capitale da 2,1 miliardi, documenta come e a che prezzo la Fondazione Mps decise, contro ogni logica di equilibrio finanziario, di consegnarsi all’abisso di un debito insostenibile. Quello che l’avrebbe costretta, lo scorso anno, a vendere quanto di vendibile aveva in portafoglio. A fare cassa, cedendo partecipazioni minori per oltre 200 milioni di euro e il 12,5% di azioni Montepaschi per circa 600 milioni, riducendo così dal 49,1% al 34,9 la propria
quota nel gruppo di Rocca Salimbeni.
Il 2011, dunque, e il nuovo prestito di Jp Morgan. In quel momento, dopo l’aumento di capitale del 2008 (5 miliardi necessari all’acquisizione di Antonveneta) e la sottoscrizione del prestito ibrido F. r. e. s. h. (1 miliardo), la Fondazione, di fronte a un nuovo aumento di capitale, avrebbe una sola strada da percorrere: diluire la propria quota in Mps, come del resto le consigliano in quel frangente i suoi due advisor, Credit Suisse e Banca Rotschild. Non fosse altro perché, in quel momento, tutti gli indicatori — dal valore del titolo in caduta libera, alle perdite sanguinose sui derivati, di cui la banca è imbottita — consigliano di non investire liquidità in nuove azioni per altro in sicura perdita. Al contrario, la Fondazione decide di stringersi al collo il
cappio che le porge Jp Morgan e il consorzio di 10 banche pronte a erogare un prestito di 600 milioni di euro con ritorni importanti, vista la disperazione di Rocca Salimbeni. Parliamo — come si legge nelle 126 pagine del contratto di “loan” — di Barclays (che finanzia 50 milioni), Bnp Paribas (60 milioni), Credit Agricole (50 milioni), Deutsche Bank (60 milioni), Goldman Sachs (30 milioni), Intesa san Paolo (60 milioni), Jp Morgan (60 milioni), Mediobanca (60 milioni), Natixis (60 milioni), Royal Bank of Scotland (50 milioni), Unicredit (60 milioni).
Gli interessi vengono fissati a un
tasso annuo composto dall’Euribor a 6 mesi maggiorato di un 3%, che può salire al 4 in ragione delle variazioni del rating delle obbligazioni a lungo termine della Banca. Mentre il piano di ammortamento prevede una restituzione dei 600 milioni in sei tranches annue, dal 30 giugno 2012 (200 milioni) al 30 giugno 2017 (100 milioni), con step intermedi da 50 milioni di euro (giugno 2013 e 2014) e 100 milioni (giugno 2015, 2016). Ma, quel che conta è che quel secondo loan con Jp Morgan fa salire l’indebitamento della Fondazione sopra il miliardo di euro, con tutti i titoli Mps consegnati a garanzia.
Perché ai nuovi 600 milioni vanno aggiunti i 490 che, tre anni prima, in occasione del F. r. e. s. h., la Fondazione ha contratto con Credit Suisse e Mediobanca, che di quel “convertendo ibrido” si erano fatti canale.
Il contratto viene dunque siglato nel 2011, il finanziamento erogato, ma, come prevedibile, nel 2012 la Fondazione comprende di non poterne onorare né i costi né la scadenze. E dunque procede a quella dolorosa ristrutturazione del debito che le consente, dopo la restituzione immediata di 600 milioni di euro realizzati da dismissioni di partecipazioni e vendite di azioni, di abbattere l’indebitamento da 1 miliardo di euro a 350 milioni nei confronti di Jp Morgan. Con un nuovo tasso di interesse, fissato questa volta nell’Euribor a sei mesi maggiorato di 425 punti base, per un costo cioè superiore a quello dei “Tremonti bond”. Al punto che, una settimana fa, la Fondazione ha annunciato di essere pronta a cedere un altro 10% di Montepaschi proprio per rimborsare la parte d’indebitamento che ancora la vede esposta nei confronti del pool d’istituti di cui è capofila JpMorgan.
Domani, intanto, al consiglio di amministrazione del Monte si discuterà dei bilanci della banca, successivi all’acquisto di Antonveneta. E il rischio è che debbano essere riaperti, con le conseguenze legali del
caso. In particolare, l’attenzione si concentrerà su quello del 2009, quando per abbellire i propri conti, l’istituto senese stipulò i contratti “Alexandria”, “Santorini” e “Nota Italia”. I vertici della banca dovranno aggiungere una perdita lorda di circa 740 milioni. A indicare come dovrà essere contabilizzato «il buco » saranno i revisori della PriceWaterhouse, mentre l’eventuale qualificazione del reato spetterà alla Procura. Potrebbe non essere necessario, invece, mettere mano ai conti 2010 e 2011. Quanto al 2012, invece, è probabile che Alessandro Profumo e Fabrizio Viola vogliano approfittare del momento favorevole alle pulizie per scaricare tutte le magagne presenti nei conti, secondo la migliore tradizione dei grandi ristrutturatori
d’aziende.