Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2013  febbraio 04 Lunedì calendario

SCHIFANI, IL PRESIDENTE SFUGGITO ALLA MALEDIZIONE DEL PALAZZO

[Al contrario di Fini & Co. èl’unico del centrodestra ai vertici delle Camere a finire la legislatura in armonia col Cav. E si prepara a tornare alla guida dei senatori Pdl] –
Tra i presidenti di centro-destra dell’una e dell’altra camera, Renato Schifani è il solo sfuggito alla maledizione della lite con Berlusconi. Il sessantaduenne avvocato palermitano che guida il Senato sta infatti terminando la legislatura in armonia con il Cav e intenzionato a restarci. Al contrario di Gianfranco Fini e gli altri saliti sul massimo scranno da beniamini del Berlusca e ridiscesi da nemici. Si va dai presidenti del Senato, Scognamiglio (1994-1996) e Pera (2001-2006), a quello della Camera, Casini (2001-2006), a Irene Pivetti che- reginetta di Montecitorio tra il 1994 e il 1996 rompendo con Bossi, si allontanò anche dal Cav.
Renato è di un’altra pasta. A suggerirgli un comportamento lineare, oltre all’affetto per il Berlusca, la proverbiale prudenza. Schifani esce con l’ombrello anche col sole. Del resto, basta ascoltare le sue dieci dichiarazioni giornaliere, solenni e scontate: «Ho fiducia nella saggezza del presidente Napolitano »; «Auspico prevalga il senso delle istituzioni»; «Lo Stato è dalla parte dei cittadini». Normalmente, chi ti fa venire il latte alle ginocchia è un beota. Non è il caso di Schifani. Fissatelo quando parla. La bocca emette i suoni di cui sopra, ma gli occhi sono birboni. È come se mandasse questo messaggio: io lo so che sto dicendo cose da calo degli zuccheri, ma chi va piano e non strafà va lontano e in piedi sta. Questo è Schifani: un’assennatezza al servizio della sopravvivenza nella convinzione - democratica e antifascista che cento giorni nel gregge sono più fruttuosi di uno da leone.
La prova è che tutti, da Napolitano in giù, si fidano più di lui che dell’omologo Fini il quale, a furia di scalmanarsi fuori dal coro, ha macinato sconsideratezze tali da far passare per saggezza le banalità del nostro Renato.
Schifani si piace da matti. Per coinvolgere anche noi nel suo piacere, imperversa 24 ore su 24 su ogni tipo di media. La chiave di questa tempesta comunicativa è Eli Benedetti, suo portavoce dai tempi in cui era capogruppo dei senatori di Fi, ossia da oltre un decennio. Modenese, ex marito della deputata del Pdl, Isabella Bartolini, Eli è nel suo genere un Einstein. Telefona alle redazioni per avvertire che il capo ha detto questo e quello, manda sms suggerendo interviste anche a Ferragosto e organizza appostamenti di troupe televisive in suggestivi angoli romani dove il presidente passerà per caso, ben disposto a fare dichiarazioni spontanee sulla rava e sulla fava mentre il sole ne aureolerà la curatissima pelata. Una calvizie, quella di Schifani, che, dai suoi esordi in politica (1996), attirò l’attenzione universale. Infatti, non accettando la progressiva perdita delle chiome, Renato si era fatto un vistoso riporto detto «riportone Schifani» - colossale opera di ingegneria tricologica. Fu probabilmente il Cav, molto sensibile in materia, a suggerirgli di liberarsi di quella posticceria. Fatto sta che, quando nel 2006 la fece fuori, fu lui il primo a complimentarsi con Renato del suo attuale look dicendogli pubblicamente: «Sei un gran figo».
Chiunque, al posto suo, dopo essere stato la seconda carica dello Stato, si agiterebbe alla ricerca di una poltrona degna dei trascorsi, dal Quirinale a Palazzo Chigi, pronto a immusonirsi in caso di fiasco. Schifani, invece, ha senso della misura e punta alla durata. Si attrezza perciò a riprendere il seggio che ricopriva prima di guidare Palazzo Madama, ossia quello di presidente dei senatori del Pdl. C’è del calcolo in questo modestia. Il Senato, nella prossima legislatura, sarà l’assemblea chiave dove si gioca la sopravvivenza di un governo che - come si prevede - avrà un margine di pochi voti. Il che esalta il ruolo del capogruppo. Senza contare che stavolta, per la prima volta, il Cav opterà per Palazzo Madama e Renato potrà stargli a fianco con quel che ne segue in termini di confidenza e reciproci vantaggi.
Contrariamente a Fini che, se perde il seggio, gli resta solo il cognato, Schifani - pur non pensando affatto a mollare - avrebbe comunque il suo ragguardevole studio legale nel centro di Palermo. Da anni, lo ha affidato al socio, Nunzio Pinelli, al figlio di lui e al proprio, Roberto Schifani, per non mescolare politica e avvocatura. Tuttavia, come accade, la visibilità romana di Renato, ha attratto molta clientela danarosa nello studio che da medio, quando c’era lui, è diventato grande in sua assenza. Questa rendita di posizione suscita fieri mugugni tra i colleghi del Foro panormita.
Schifani si è fatto da sé. Ai genitori, impiegati pubblici, deve solo gli studi, coronati da una laurea con lode in Legge. Ottenne il primo impiego vincendo un concorso al Banco di Sicilia. Capì che non faceva per lui perché pensava di continuo alla pesca subacquea, tuttora la sua passione (quando può è alle Seychelles o a Sharm el Sheick). Uscito dalla banca, fu accolto nello studio legale di Giuseppe La Loggia, pezzo da novanta della Dc siciliana. Si trovò benissimo, poiché era dc nell’anima e l’avvocatura gli stava a pennello. Schifani - anche da parlamentare - è uno che studia e scava finché non adocchia l’espediente.
Diventato amicone di La Loggia jr - (Enrico, il futuro ministro di Berlusconi)- fu da lui presentato al Cav. Aderì a Fi e nel 1996 fu eletto senatore. All’epoca, il centrodestra era all’opposizione. Berlusconi capì subito che Renato aveva pignoleria da vendere e poteva essere un perfetto rompiscatole. Così, gli affidò le relazioni di minoranza sulle leggi dei governi di Prodi e di D’Alema che Schifani si premurava di fare a fette. Nelle due legislature successive fu capogruppo. In quella 2006-2008, in cui la Sinistra aveva un vantaggio di pochi senatori sulla Destra, esigeva dai suoi la presenza in Aula per tendere agguati agli avversari. Era occhiuto come un maremmano. Una volta che, assentandosi, Alfredo Biondi impedì di silurare un provvedimento, Renato lo apostrofò: «Ci hai fatto perdere un’occasione d’oro». Biondi, che era una volpe, spiegò di avere avuto un attacco d’asma dovuto alla moquette e di essere corso a prendere l’antistaminico. «Non credo di dovere morire in Aula », aggiunse teatralmente. «Morire no, ma tenerti le pillole in tasca, sì», lo gelò l’altro.
Eletto nel 2008 presidente del Senato con la spinta del premier, Renato andò il giorno dopo a Palazzo Grazioli per ringraziarlo. I puristi sentenziarono che toccava semmai al Cav recarsi a omaggiare la seconda carica dello Stato. Fu così che Schifani, per evitare polemiche, tornò altre volte dal Berlusca, ma col cappello calato e gli occhiali scuri. Nonostante la sicilianità, Renato non è mai stato accostato alla mafia, se non capziosamente da Travaglio e affini, condannati a pagare i danni. L’uomo è questo: più luci che ombre, nessun bagliore.