Silvia Truzzi, il Fatto Quotidiano 4/2/2013, 4 febbraio 2013
“SÌ, IO RICORDO I GIORNI CON CALLAS E COPPOLA”
Milano
Non è il tic-tac dell’odioso orologio, il tempo che passa e fa rumore. Qui la colonna sonora è una teoria di pianoforti, una musica costante che ti accompagna nei corridoi. La Casa Verdi di Milano (sorge accanto a piazza Wagner, vuole il caso o forse il destino) è un’istituzione, la conoscono tutti: non c’era bisogno di Quartet, prima prova di Dustin Hofmann alla regia. piccolo gioiello nelle sale in queste settimane. Eppure il monumento progettato da Camillo Boito vive giorni di riflettori, visite e una rinnovata notorietà mediatica. Il maestro di Busseto la volle per “accogliervi i vecchi artisti di canto non favoriti dalla fortuna, o che non possedettero da giovani la virtù del risparmio. Poveri e cari compagni della mia vita”, scrisse in una lettera all’amico Giulio Monteverde.
VERDI, CHE È QUI sepolto nella cripta accanto alla seconda moglie Giuseppina Strepponi, decise che la casa fosse inaugurata dopo la sua morte. Non desiderava encomi o ringraziamenti: riserbo impensabile nell’età dell’esibizione. I primi nove ospiti entrarono il 10 ottobre 1902, fino a oggi più di mille persone vi hanno soggiornato tra cantanti, direttori, coristi, orchestrali, ballerini. Due sezioni, anzi tre. La casa albergo, dove abitano persone autosufficienti e la Rsa, residenza assistita che accoglie gli ospiti più in difficoltà. In quattro appartamentini ci sono coppie di coniugi . Poi c’è la villetta, una depandance dove vivono studenti delle scuole musicali di Milano. Così i nipotini hanno il privilegio di chiacchierare con nonni che della loro stessa passione hanno fatto una ragione di vita e spesso sono i primi spettatori dei loro concerti: supervisione cui seguono consigli e osservazioni sull’esecuzione. L’uomo o lo donna che invecchia, dice il filosofo Jean Améry in un libro bello e violentissimo, Rivolta e rassegnazione (Bollati Boringhieri) guarda il futuro come negazione che si sperimenta nel territorio più privato ed esplosivo, il corpo. Ma in queste stanze si respira un presente vivacissimo, anche se lontano dal mito della vecchiaia saggia e placida: che sia una, possibile, risposta? Ci sono laboratori - la redazione di un giornalino, La voce di casa Verdi, la Tisaneria dove si beve il té e si conversa – e naturalmente moltissimi strumenti musicali, quasi mai inermi. Gli ospiti autosufficienti possono entrare e uscire quando vogliono, partecipare o no alle attività che invece sono obbligatorie per i non autosufficienti che hanno bisogno di esercizio, di oblio e malinconia no. La colazione è servita fino alle nove e trenta, il pranzo alle 12.30, la cena alle 19. Il portone chiude alle 20, ma gli “autonomi” hanno le chiavi, per uscire a cena o andare a teatro. In mezzo si può, per esempio, frequentare il laboratorio della signora Titti dove si fabbricano, con ammirevole pazienza, fiori di carta: attorno a un tavolo, le eleganti signore che furono soprani o étoile acclamate, ritagliano carta crespa e decorano. Dopo, le composizioni vengono vendute, il ricavato devoluto per le adozioni a distanza. Alle pareti foto sorridenti di bimbi lontani. Oppure i pomeriggi di canto, dove però è bandita l’opera: si suona Celentano o Non ti scordar di me, canzoni degli anni d’oro, degli anni loro, che servono per esercitare la memoria, uno dei tanti, terapeutici, effetti collaterali di una medicina che si chiama musica.
LASALATOSCANINIè il luogo della socialità che si accomoda su poltrone di broccato rosso, dove si possono ascoltare battibecchi e discussioni, come quando si è accesa la polemica sulla scelta della Scala di aprire la stagione con il Lohengrin di Wagner, di cui quest’anno ricorre il bicentenario che “concorre” con quello verdiano. Si srotola lo schermo, come ogni giovedì appuntamento al Cineforum: oggi si guarda Amarcord di Fellini. C’è Beppe De Tomasi, regista di numerose opere, attore, compagno di strada di tanti grandi della lirica, avvolto in un maglione verde. Classe 1934, prima direzione al Teatro sociale di Como, la Butterfly, nel ‘67. Ha lavorato all’Opera di Chicago, di San Francisco e Philadelphia, Baltimora e Washington. Nel 1990 Coppola andò da lui: lo voleva per il Padrino parte III, serviva un regista di opere teatrali per le scene della Cavalleria Rusticana in cui canta Anthony Corleone. “Girammo a Roma e a Palermo. Dopo, Coppola mi chiese di andare negli Stati Uniti, ma amavo troppo la lirica”, spiega con la voce tradita dalla raucedine. E se gli chiedi qual è l’artista più talentuoso con cui ha lavorato, risponde senza alcuna esitazione, se non un’impercettibile pausa figlia dell’età: la divina, lei, Maria. “La Callas, la conoscevo prima del dimagrimento, della trasformazione. Un giorno la accompagnai dall’otorino, perché stava perdendo la voce. Il medico le disse che aveva problemi al diaframma. Ed ero a Roma con Roberto Saporiti, quando accade lo scandalo della Norma. La accusarono indegnamente di fare i capricci, invece lei si rifiutò di cantare il secondo atto perché era una professionista. Stava male e non ce la faceva. In sala ricordo che c’erano la Lollobrigida, Gassman, Silvana Pampanini, il presidente Gronchi. Però ora mi scusi, ma non voglio farmi attendere in sala da pranzo”.