Luca Pagni; Eugenio Occorsio, Affari&Finanza, la Repubblica 4/2/2013, 4 febbraio 2013
L’INTRIGO INTERNAZIONALE DELLA SAIPEM FRA VENDITE SOSPETTE E INCHIESTE GIUDIZIARIE
[due pezzi]
«Non c’è un problema specifico che riguarda Saipem. La società sconta il rallentamento dei grandi progetti di esplorazione in tutto il mondo. Progetti che, siamo confidenti, ripartiranno anche se in ritardo rispetto ai tempi previsti. E Saipem ha le competenze e la tecnologia per continuate a svolgere il ruolo di leader mondiale come ha fatto negli ultimi anni. Il periodo negativo finirà con il 2013: con il 2014 torneremo a crescere ai livelli precedenti».
Di fronte alla platea incredula degli analisti internazionali, è stata questa la linea di difesa del neo amministratore delegato Umberto Vergine, appena catapultato dall’Eni alla guida della controllata. Non è Saipem la grande malata, ma l’intero settore dell’esplorazione petrolifera che ha tirato il freno dopo aver corso negli ultimi anni, a causa dell’incertezza politica in alcuni paesi grandi produttori, per la recessione in Europa, per la concorrenza che ha abbassato i margini di tutti i big e per l’esplosione dello shale gas che ha reso gli Stati Uniti autonomi dalle importazioni di metano.
Una linea Maginot che non ha retto di fronte all’ondata di vendite in Borsa che ha portato il titolo a perdere oltre un terzo del suo valore, fino a scendere sotto i 20 euro. Una fuga precipitosa da parte di tutti i grandi fondi di investimento per il timore che le revisioni delle stime degli utili (meno 6% per il 2012 e meno 50 per cento per il 2013) in realtà non siamo così «prudenziali» come Vergine ha sostenuto agli analisti finanziari.
Il mercato teme che ci possa essere dell’altro. E che, soprattutto, le ripercussioni sui dividendi della controllante Eni vadano ben oltre i 200 milioni dichiarati dal gruppo guidato da paolo Scaroni. «Da quello che ci hanno detto - è il commento di un trader di una primaria banca d’affari - abbiamo capito che il bilancio Saipem è stato costruito, fino a poche settimana fa, basandosi su commesse che in realtà non ci sono o sono in grave ritardo. Possiamo essere sicuri che non ci sia dell’altro?».
Ed è quello che vuole sapere anche la Consob che ha aperto una indagine sul crollo in Borsa. Così come sulla vendita - soltanto poche ore prima dell’annuncio - del 2,3 per cento delle azioni da parte di uno o più investitori istituzionali, sotto la regia di Bank of America-Merrill Lynch: una operazione fin troppo fortunata, nella tempistica, per non aver fatto scattare il campanello d’allarme in tutta la comunità finanziaria sul fatto che qualcuno sapesse in anticipo cosa stava per abbattersi sulla società. Con l’ulteriore sospetto che qualcuno dall’interno abbia passato all’esterno “notizie sensibili”.
Ma del possibile insider trading si occuperanno le authority, sia la Consob che la Fsa inglese ed eventualmente la magistratura. Il mercato, più che altro, è preoccupato di ben altro. «L’ordine di grandezza di queste revisioni ci suggerisce che l’azienda abbia mal realizzato i progetti durante il processo. Riteniamo, inoltre, che la decisione del precedente management di puntare su progetti a basso prezzo potrebbe comportare ulteriori problemi che potrebbero sfociare in ulteriori svalutazioni ». Così ha scritto in un report la banca d’affari Nomura, i cui analisti sono stati presi in contropiede esattamente come tutti i loro concorrenti dall’annuncio di Saipem.
In sostanza, dopo quanto accaduto il mercato non si fida più. Gli investitori hanno pensato che l’arrivo di Vergine alla guida del gruppo fosse dovuto al coinvolgimento del suo predecessore Pietro Franco Tali - assieme al direttore finanziario dell’Eni Alessandro Bernini nell’inchiesta per presunte tangenti in Algeria (indagati dalla procura di Milano). Alla luce dei nuovi eventi, c’è da pensare che il socio di controllo sia intervenuto prima che la bolla del bilancio gonfiato raggiungesse dimensioni eccessive.
«Timori ingiustificati» va ripetendo agli investitori il presidente di Saipem, Alberto Meomartini, dirigente di lungo corso di Eni, nonché presidente di Assolombarda. Chi lo ha incontrato riferisce il tentativo di riportare fiducia sull’azienda: «Il business è solido e le nostre attività sono molto apprezzate. Saipem è leader sia nelle attività sulla terraferma, sia in quelle off shore. E la reazione del mercato è stata eccessiva, stiamo parlando di un gruppo che ha dichiarato per il 2013 450 milioni di utili e un portafoglio ordini di 20 miliardi. Abbiamo problemi con dei contratti che hanno subito rallentamenti ma che partiranno comunque. Soltanto più avanti».
In effetti, qualche avvisaglia sui possibili rischi di un business in “bolla” c’era già stata. Basta guardare il grafico di Borsa di Saipem. Dai 10 euro del 2008, la società ha macinato contratti e utili per quattro anni fino a toccare i massimi il 14 ottobre scorso a 39 euro per poi scendere fino a 35. Poi il crollo causato dalle nuove comunicazioni al mercato da parte dell’ad Umberto Vergine che appena arrivato ha fatto scattare l’auditing interno, convocando al quartier generale di San Donato tutti i responsabili dei principali progetti e preteso di sapere lo stato dell’arte per rifare i conti sia del 2012 sia le previsioni dell’anno successivo.
Una sorta di pulizia di bilancio che ha delle giustificazioni sia industriali che politiche. Come ha spiegato il manager nella conference call con gli analisti: «Una serie di contratti sono in corso di revisione con gli appaltatori locali e potrebbero essere meno profittevoli. In altre regioni, come la Nigeria o il Venezuela, le incertezze politiche determinano il blocco delle nuove esplorazioni. Nella prima metà del 2013 arriveranno a conclusione alcuni contratti a bassa marginalità. Una serie di circostanze negative che messe tutte insieme costringono a rivedere le nostre stime».
Il mercato, però, dopo averli chiusi a lungo ora ha aperto gli occhi di fronte alle difficoltà dell’intero settore. Di fronte ai successi della società ai copiosi utili e alla corsa del titolo (cresciuto di oltre il 200 per cento in cinque anni), ha creduto che le cose potessero sempre andare bene. Non a caso, i fondi si sono precipitati a comprare a prezzi di mercato il 2,3 per cento messo in vendita da Bofa-Merrill Lynch.
Invece, perché Saipem torni a correre nel 2014, come ha garantito al mercato, la società ha bisogno che lo scenario del settore rimanga più che positivo: i prezzi del petrolio devono restare alti, almeno sopra i 90 dollari. Saipem si aspetta che le compagnie petrolifere aumentino del 7% la spesa in conto capitale l’anno prossimo. In ogni caso, siamo sotto la media dell’11 per cento della big oil nell’ultimo decennio. Tanto da costringere Goldman Sachs a rivedere le sue stime al ribasso per gli investimenti del prossimo biennio: nel 2012 sono stati spesi per le esplorazioni ed estrazioni 100 miliardi di dollari, quando solo un anno fa la banca d’affari aveva predetto che sarebbero stati 250 miliardi. Una spending review che non poteva non toccare Saipem. Ma perché avvisare il mercato così tardi?
Luca Pagni
QUELLA BATTAGLIA DI ALGERI PER LE RISORSE DEL SAHARA CHE HA COINVOLTO IL GRUPPO–
Il 6 novembre 2007 la Saipem firmò con l’ente energetico algerino Sonatrach il contratto per la condotta onshore di trasporto del Gpl fra il giacimento di gas di Hassi R’mel nel cuore del Sahara e il polo costiero di export di Arzew. Una commessa da 285 milioni di euro, la terza quell’anno dopo la condotta sottomarina Medgaz e l’impianto di trattamento del greggio nel campo di Hassi Messaoud. Il 2008 andò ancora meglio: il 28 luglio la Saipem acquisì un ordine per una serie di impianti del valore complessivo di 2,8 miliardi, assumendo per la prima volta il ruolo di main contractor in un progetto di impianto di liquefazione di gas. Significava affermarsi come contrattista integrato in grado di gestire complessi progetti chiavi in mano in un’area sempre più vasta di servizi energetici.
Tempi dorati per la Saipem. Nei soli quattro anni fra il 2006 e il 2009 la società acquisì contratti pluriennali in Algeria per quasi 20 miliardi. Ma senza saperlo, e senza fare fino a prova contraria nulla di male, l’azienda dell’Eni si stava infilando in un tunnel diabolico e infido. Il suo rapporto privilegiato con la Sonatrach doveva farla cadere in un vortice senza uguali di faide di potere, lotte politiche interne all’Algeria, colpi a tradimento. L’Eni è stato per anni a sua insaputa un sorvegliato speciale nel quadro della sanguinosa rivalità fra l’establishment civile guidato dal presidente Abdelaziz Bouteflika, e quello militare che risponde al Drs, il potente servizio segreto erede delle organizzazioni che avevano condotta la battaglia di Algeri contro la Francia del 1960 (in cui si dice che abbia avuto un ruolo dalla parte degli algerini Enrico Mattei, e di qui il ruolo di alleato strategico della nazione nordafricana).
Altri tempi. Ora il Drs, guidato da 23 anni dal generale Mohamed Mediène detto Toufik, un personaggio che sembra uscito da un libro di Le Carrè, ha un’ossessione: liberarsi di Bouteflika. Il quale, al potere dal 1999, non molla. Intendiamoci, non è un campione di democrazia. Ha fatto rivedere la costituzione per essere rieletto per un terzo mandato quinquennale (ora scade nel 2014), è passato indenne attraverso innumerevoli rivolte interne, bagni di sangue, accuse di brogli elettorali. Persino la primavera araba l’ha miracolosamente risparmiato. Allora il Drs ha deciso di giocarsi l’ultima carta. A costo di intaccare l’immagine del Paese e di compromettere un business che vale il 45% del Pil, lo colpirà attraverso la Sonatrach. E’ la più grande compagnia petrolifera d’Africa, leale al presidente per definizione e perché al suo vertice ci sono tutti uomini vicini a Bouteflika. Ed è vulnerabile ai ricatti perché storicamente è successo che nei contratti petroliferi si siano inseriti mazzette e giochi poco chiari, «anche se precisa una fonte indipendente con una lunga esperienza nel tradingenergetico - bisogna sfatare la leggenda che questa sia la regola nel petrolio. Non è così e grandi società come l’Eni non hanno assolutamente quest’abitudine. Può succedere, certo, ma come in qualsiasi altro settore».
Sta di fatto che il disegno dei servizi algerini è ormai da parecchi anni quello di fiaccare Bouteflika, tanto più che lui sta preparando da tempo alla successione il fratello Said, facendo saltare ancora di più la mosca al naso agli avversari militari. Lo conferma una serie di testimonianze incrociate. Intanto un cablo dell’8 febbraio 2010 reso noto da Wikileaks (pubblicato anche da Repubblica), che riporta una confidenza fatta all’ambasciatore statunitense ad Algeri, David Pearce, da Dick Holmes, direttore delle operazioni nel Paese dalla texana Anadarko, seconda solo all’Eni come rilevanza nel Paese fra le compagnie occidentali. La stessa Wikileaks ha intercettato anche un altro sibillino messaggio all’ambasciatore, inviatogli stavolta da Sid Ahmed Ghozali (che era stato presidente della Sonatrach dal 1966 al 1977 e successivamente primo ministro): «Non si fidi mai di nulla di ufficiale». Ma dell’esistenza della faida scrivono quasi ogni giorno i quotidiani algerini Le Matin e El Watan. Ne ha parlato con sicurezza Hocine Malti, ex presidente proprio della Sonatrach, nel suo libro Histoire secrète su pétrole algérien. E l’ha confermato mercoledì 30 gennaio a Valentina Saini del quotidiano Linkiesta Charles Gurdon, direttore di Menas Associates, una boutique di consulenza sui rischi politici basata a Londra. Gordon si è spinto oltre: secondo le sue informazioni, l’odio fra Bouteflika e i servizi andrebbe al di là di una disputa sul controllo del Paese e delle sue risorse energetiche. Il presidente sarebbe stato messo al vertice dai militari ma poi si sarebbe ribellato cercando di divincolarsi dalla loro ingombrante morsa. C’è un precedente inquietante: un altro presidente, Mohamed Boudiaf, era stato assassinato nel 1992, e i sospetti sono ricaduti sui generali perché non aveva accettato il loro controllo.
Insomma il Drs non va tanto per il sottile. Jeremy Keenan dell’African school of oriental studies di Londra ha detto a Linkiestaaddirittura che pur di danneggiare Bouteflika abbia aperto la porta ai jihadisti del terminale di In Amenas (teatro del tragico attacco del mese scorso), salvo poi essersi reso conto del tremendo errore che aveva fatto. Più verosimile è che il Drs avesse messo già da tempo i suoi agenti, secondo il più classico schema dei servizi segreti, a seguire minuziosamente le trattative della Sonatrach con i partner occidentali. In attesa di qualche passo falso per poter ricattare la società e quindi il governo. Finché la trappola è scattata nel gennaio 2010. Una retata della polizia ha portato in carcere l’intera dirigenza della Sonatrach, tutti fedelissimi di Bouteflika. Il quale ha dovuto spedire in esilio all’estero Chakib Khelil, uomo- chiave del suo entourage, ministro dell’Energia ed ex-presidente dell’Opec. L’accusa era di corruzione su diversi contratti fra cui alcuni della Saipem a partire da uno da 580 milioni di dollari per la costruzione del terzo lotto del gasdotto Gk3 firmato nel 2009.
La Sonatrach non si è più ripresa dalla crisi, e la maggior parte dei suoi contratti è stata bloccata, rivista al ribasso, sospesa. Ma quello che stava succedendo ad Algeri chiamava pesantemente in campo una società italiana. Negli atti dell’inchiesta algerina c’è di tutto, anche che Reda Meziane, il figlio dell’allora Ceo di Sonatrach, ha ricevuto dalla Saipem 38mila euro per comprare una macchina alla moglie. A questo punto la magistratura italiana ha voluto vederci chiaro: la Procura di Milano ha aperto nel febbraio 2011 un’inchiesta per corruzione internazionale a carico dei vertici della Saipem. L’ultimo avviso di garanzia, per colmo di sventura, è partito la settimana scorsa proprio mentre stava consumandosi il dramma finanziario, destinatario l’ex amministratore delegato Pietro Franco Tali, già messo alla porta da Scaroni il 5 dicembre 2012 insieme con gli altri dirigenti coinvolti. Progressivamente l’inchiesta, tuttora in fase di indagini preliminari, si è allargata fino a comprendere contratti per un totale di 10,5 miliardi di dollari firmati in Algeria dalla Saipem e dalla Fcp, una società canadese acquisita dal gruppo Eni. Che, precisa il comunicato- warning della settimana scorsa, “collabora in ogni possibile modo”. Ma ormai il danno al bilancio e all’immagine è fatto. L’impegno in Algeria, tengono a precisare dalla società, non supera il 3-5% dei contratti complessivi della Saipem, una frazione rispetto ai tempi d’oro. Il tesoro racchiuso nel “maledetto scatolone di sabbia”, come lo chiamava Richard Nixon ai tempi dello shock petrolifero del 1973, può attendere.
Eugenio Occorsio