Piero Ostellino, Corriere della Sera 04/02/2013, 4 febbraio 2013
NELLO STATO DI POLIZIA FISCAL-STALINISTA
Quando, a Mosca, portavo la mia automobile a far riparare, una volta che la mia segretaria aveva espletato le pratiche dovevo, per raggiungere l’officina, oltrepassare una sbarra manovrata da un’anziana donnina. Che si rifiutava sistematicamente di alzarla se la mia segretaria (russa) non scendeva e raggiungeva la destinazione a piedi, mentre io ci arrivavo in auto. La ragione del comportamento di questo «Stalin minore e in versione burocratica» era duplice. Innanzitutto, strutturale: ogni burocrate tende a esercitare il potere di cui dispone, grande, piccolo, infinitesimo che sia, in modo arbitrario e dispotico perché l’autoreferenzialità è la sola «sostanziale» fonte di legittimazione che conosca e sia disposto ad accettare; derivandogli quella «formale» dalla politica che gliel’ha conferito. In secondo luogo, moralistica: il burocrate crede di avere una «missione etica» da compiere. Per autolegittimarsi non si limita ad applicare la legge; pretende di dilatarla in vista del «miglioramento morale» dei suoi simili.
Si farebbe, però, torto al burocrate se lo si definisse un fanatico, simile agli interpreti di certe dottrine rivoluzionarie del passato. La sua natura non è ideologica ma teologica, cioè ancor più illiberale. Ma non è un rivoluzionario: è un conservatore, se non un reazionario. Crede a quello che fa ed è, a suo modo, un «chierico» della politica, frustrato dalla sensazione di esserne «usato». La politica dovrebbe limitarne e regolarne i poteri. Ma non ne ha l’interesse perché è, se mai, sua convenienza lasciargli il compito di fare «i lavori sporchi», di sollevarla dalla responsabilità di rispondere di ciò che fa e dal fastidio di «sporcarsi le mani».
Più è esteso il potere burocratico, minori sono le possibilità del cittadino di risalire alla responsabilità ultima, cioè politica, di ciò che gli accade. Il rapporto fra cittadino e burocrazia, in uno Stato caratterizzato da tale forma di arbitrio e di dispotismo amministrativo, è un processo kafkiano senza fine. Così funzionano i regimi autoritari e totalitari dei quali il burocrate è la lunga mano, non di rado senza manco rendersene conto, convinto com’è di assolvere una funzione moralizzatrice. Gli si farebbe, perciò, ancora torto se si ignorasse che, a fondamento di tale convinzione, c’è una filosofia morale. Il guaio è che essa coincide perfettamente con l’ideologia totalitaria. Se all’origine dell’ostracismo della donnina della sbarra verso la mia segretaria c’era il pregiudizio, tipicamente sovietico, che, per il solo fatto di essere al mio fianco in auto, essa appartenesse a quella specie (limitata) di donne russe che si prostituivano allo straniero per un paio di calze di nylon, è presto detto quale fosse la sua filosofia morale. Lo Stato aveva il diritto di verificare dove «tutte» le segretarie — metafora del cittadino comune — passassero serate e pomeriggi e la società, costituita nella totalità da «cittadini onesti», era così «collettivamente unita» da non consentire a nessuno di avere uno stile di vita sottratto al giudizio comune. Se, poi, non era lo Stato a provvedere, ci pensava lei, la piccola «burocrate della sbarra». Tale filosofia morale era l’essenza del totalitarismo sovietico ed è oggi, piaccia o no, il terreno sul quale si sviluppa, da noi, pubblicamente, il vessatorio Stato di polizia fiscale e si concreta l’arbitrio, personale, del burocrate. Il caso sovietico merita, perciò, una riflessione sulla prassi fiscale di certe democrazie liberali dell’Occidente tanto apprezzata dai cultori della nostra fiscalità.
Diciamo, allora, che una cosa è la natura democratico-liberale del sistema politico americano nel suo complesso; un’altra sono le procedure di indagine del suo sistema fiscale, che arrivano fino a premiare la delazione del «buon contribuente» nei confronti del vicino di casa (supposto) evasore. Questa lesione alle libertà e ai diritti dei cittadini americani non mette in discussione la vera natura della più grande democrazia del mondo. Portare ad esempio la sua prassi fiscale per giustificare il nostro redditometro è barare al gioco. Che le procedure del Fisco Usa siano un vulnus alla democrazia liberale è un fatto indubitabile e condannabile, anche da parte di un ammiratore degli Stati Uniti come me; ma, a mio avviso, non è (ancora) tale da giustificare paragoni improponibili con una democrazia pasticciata, collettivista, dirigista e tendente al totalitarismo come la nostra. Né quelle procedure giustificano lo Stato di polizia fiscale che, da noi, si è voluto creare e imporre — nella «guerra all’evasione» del Paese che ha la più alta fiscalità del mondo! — grazie a una burocrazia più realista del re.
In definitiva. Sostenere che in una «società aperta» ci sono zone grigie dove il cittadino esercita le proprie libertà individuali e i propri diritti soggettivi e difendere la «privatezza» di tali libertà e diritti contro la pretesa che siano oggetto di indagine generale non è stare dalla parte degli evasori, né essere «di destra». Vuol dire solo cercare di tenere viva la fiammella di una cultura liberale poco conosciuta, e volentieri dileggiata, dalla maggioranza degli italiani. Capisco che una certa vocazione pedagogica che traspare dal tentativo possa irritare. Ma non si capisce come stanno le cose e, tanto meno, si diventa migliori, prendendosela con chi, esercitando il diritto di critica, mette in discussione un’Italia troppo poco liberale e democratica per essere accettabile con leggerezza.
Piero Ostellino