Fabio Cavalera, la Lettura (Corriere della Sera) 03/02/2013, 3 febbraio 2013
IL TRUFFATORE CHE HA BEFFATO LONDRA
Giovedì di due settimane fa. Davanti ai giudici della corte di Southwark, la riva Sud del Tamigi londinese, un signore ben vestito, ma sovrappeso e con una bella pelata in testa, si sta giocando le ultime carte per scampare alla prospettiva di soggiornare per un po’ di anni nelle dure carceri di Sua Maestà: una caduta rovinosa per uno come lui, abituato ai lussi delle case a Mayfair e Kensington, ai viaggi con i jet e gli yacht della flotta che ha messo in piedi, alle limousine e agli amati tavoli da poker di tutto il mondo.
«No, non date retta a quello che è stato scritto su di me e a quello che l’accusa qui vi ha raccontato. Sono un vero businessman, faccio affari alla luce del sole, non imbroglio nessuno». Tono gentile, magari sotto-sotto compiaciuto e comunque per nulla imbarazzato dalle «chiacchiere» sul suo conto, quelle che lo bollano come il più grande truffatore della storia del Regno Unito.
Achilleas Kallakis, origine greca, si è guadagnato un soprannome che è un programma: il «Don». Forse perché circolava a Londra, a Parigi o negli States, con schiere di guardaspalle. O forse perché adorava la bella vita e distribuiva ai camerieri o ai croupier di Las Vegas e Montecarlo, le mete adorate, mance che sono uno stipendio per un comune mortale. Il «Don» era un vero «Don». Persino le banche erano in coda nel cuore di Westminster, davanti agli uffici delle società-schermo che aveva fondato, per aprirgli linee di credito, da fantascienza, negate a qualsiasi altro cliente.
In cinque anni, dal 2003 al 2008, ingannandole nel più semplice dei modi, il «Don» ha intascato 750 milioni di sterline (oltre 900 milioni di euro). Faceva credere di essere uno degli imprenditori più facoltosi del pianeta, faceva credere di essere l’ambasciatore della Repubblica di San Marino nel Qatar, faceva credere di essere membro del board di comando della National Portrait Gallery di Londra e «patrono» del National Ballet, faceva credere mille altre cose. E l’ha sempre passata liscia. Ingaggiava persino «attori» per dimostrare che lui disponeva di un esercito di autisti, che aveva le Bentley simbolo di potere e ricchezza, che aveva la scorta. E, invece, era un ex agente di viaggio a Croydon (sobborgo londinese) con il vizio del poker, questo sì che era vero. Frequentava i tornei internazionali, appariva in televisione, appassionatissimo: quando gli andava male, tirava fuori le mazzette e pagava per cambiare posto, questione di scaramanzia.
Furbo. Intelligente. Grande e ineguagliabile trasformista. A suo modo testardo e coraggioso. Ma davvero maldestri quegli istituti di credito della City che gli sono andati dietro, che lo hanno inseguito, coccolato e finanziato. La Allied Irish Bank e la Bank of Scotland del gruppo Lloyds, che gli hanno consentito — foraggiandolo — di acquistare 16 palazzi a Londra: in St. James Square o in Berkley Square a Mayfair, a Ennismore Gardens a Knightsbridge, due passi da Harrods, persino in Buckingham Road, la sede del «Daily Telegraph», gloriosa bandiera del giornalismo inglese di stampo moderato. E la Barclays che gli ha dato i soldi per comperare due case in Brompton Square e una trentina di milioni di sterline per il Lady K, un ex traghetto trasformato in yacht a cinque stelle. O GeCapital che gli ha prestato prima 44 milioni di dollari per un jet, poi altri 8,4 per un elicottero. Sulla base di che cosa?
Il «Don» fabbricava documenti di garanzia falsi, i padroni della City ci cascavano. E lui, senza una sterlina in tasca, manovrava il tesoro a suo uso e consumo attraverso una fitta rete di società offshore alle British Virgin Islands; così non pagava manco le tasse: immobili, barche, aerei, gioielli e tavolo verde dove non era niente male visto che nel giro di pochi mesi era riuscito a raggranellare 500 mila sterline, guadagnate col sudore delle puntate. Un maestro.
Bastava dare uno sguardo attento agli archivi, bastava ripercorrere le cronache di qualche anno addietro, bastava informarsi per capire con che razza di individuo i giganti della City trattavano. Pensavano di avere davanti un tycoon di prima grandezza e avevano davanti il campione del bluff. Il numero uno, occorre riconoscerlo, del raggiro e dello «scherzetto». Che sbadate però le incrollabili istituzioni della finanza che dai loro fortini del Miglio Quadrato o di Canary Wharf muovono capitali in ogni angolo del pianeta. Non erano neppure riuscite a inquadrare il piccolo gioco di prestigio grazie al quale il «Don» le ha letteralmente prese per il naso: una modesta e banale «a» al posto di una «o». Fregate. Elementare. Che ci vuole?
Niente meno che diciotto anni fa Achilleas Kallakis ne aveva già combinate di ogni genere ma dall’altra parte dell’Oceano, sempre truffe: all’epoca si dedicava ai titoli nobiliari, li vendeva garantendo la possibilità di diventare barone o baronessa. Il bello è che qualcuno gli ha aveva pure creduto. Alla fine però scivolò e nel 1995, assieme al suo socio di sempre Alex Williams, gli fu presentato il conto, la condanna a qualche mese. Cosa che non lo indispettì più di tanto, semmai lo costrinse, una volta saldato il debito con la giustizia, a cambiare cognome. Non chissà quale storpiatura: una «a» al posto della «o». E Achilleas Kallakis diventò Achilleas Kollokis. Non più piazzista di titoli nobiliari ma qualcosa di più importante, di più solido, di più concreto. Affari stellari.
Per cinque anni, dal 2003 al 2008, il Kollokis-Kallakis con l’amico Alex che gli procurava le false lettere di garanzia in modo da circuire le banche e che lo aiutava a cercare le comparse di autisti e «sorveglianti», le auto di rappresentanza e quanto di necessario per camuffarlo, ha bidonato i colossi del credito intascando l’equivalente di 900 milioni di euro in prestiti, mutui e fidi. Poi sul più bello il castello è crollato. Un funzionario della Allied Irish Bank ha ficcato il naso dove non avrebbe dovuto o dove nessuno avrebbe immaginato. Il «Don» si era presentato per ottenere un altro finanziamento. «Mi copre una importante società di Hong Kong». Aveva pure dato il nome di un cinese, fantomatico dirigente della Sun Hung Kai Properties, società conosciuta e stimata nel mondo del business immobiliare internazionale. Solo che quel signore non esisteva. «Chi è costui?». E così il domino è partito. Un tassello alla volta, Kollokis è ritornato a essere il Kallakis dei titoli nobiliari. Il re delle truffe.
Ed eccoci, allora, al giovedì di due settimane fa. «No, non credete a quello che scrivono di me». Giura l’imputato. Peccato per il «Don» che la corte non si lascia imbambolare e non ci casca: sette anni di carcere. Da scontare senza perdere tempo. E patrimonio confiscato. Con una dura reprimenda per le banche assetate di bonus che erano cadute nella trappola più stupida: quella maledetta «o» al posto della «a». Da Mayfair alla cella.
C’è da scommettere: il quarantaquattrenne Achilleas incanterà anche i detenuti suoi compagni di prigione raccontando (altra frottola) che lui aveva ricevuto niente meno che dalla Churchill Enterprise Foundation il premio per l’eccellenza nell’imprenditoria. Non c’è dubbio, l’eccellenza nel bluff per beffare e sbancare l’avida City.
Fabio Cavalera