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 2013  febbraio 03 Domenica calendario

LA TASSA SUI CELIBI (MA NON SULLE NUBILI) - E’

«singol» (single), diremmo oggi di una persona non sposata (sì, d’accordo, per evitare accuse di discriminazione sessista e obiezioni politicamente corrette lo diremmo anche di chi non ha una relazione stabile). Sulla carta d’identità del «singol» però non troveremo scritto single — e meno male —, ma celibe, o nubile. Celibe, lo sappiamo tutti, si dice soltanto dell’uomo non sposato, mentre per la donna si dice nubile. Anche se in verità Alessandro Manzoni ne I promessi sposi definisce Perpetua «celibe». Secondo l’etimologia, celibe è l’uomo privo di talamo, cioè — e questo fin dalla Grecia antica — l’uomo privo di un letto o di una camera nuziale, nubile invece sta per donna da sposare o, ancora più precisamente, da «prendere» in sposa. Ma a questo punto bisogna fermarsi un attimo. Perché siamo già di fronte alla contestatissima (oggi) contrapposizione tra un soggetto, diciamo così, attivo (l’uomo) e uno passivo (la donna), che durante il fascismo fu invece alla base di un ragionamento e poi di una misura demografico-fiscale passata alla storia come tassa sul celibato.
Prevista dal Regio decreto legge numero 2.132 del 19 dicembre 1926 ed entrata in vigore il 13 febbraio 1927, l’imposta gravava, appunto, soltanto sui celibi, dato che il regime fascista voleva sì accrescere il numero dei matrimoni, e quindi incrementare le nascite, ma non riteneva di poter mettere sullo stesso piano uomini e donne, sebbene non perdesse occasione di celebrare la donna come madre e «angelo del focolare». Che pagassero soltanto i «signorini», dunque. Per fasce di età e per aliquote di reddito. Settanta lire per i giovani dai 25 ai 35 anni, cento lire fino ai 50 e cinquanta lire superati i 50 anni. Più, come si è detto, una somma calcolata in base all’aliquota di reddito prodotto dal celibe. Una tassa «ideologica» fin che si vuole, ma concreta come tutte le tasse quando si tratta di aumentarne l’importo, anche al di là dei risultati ottenuti. E infatti non passa nemmeno un anno che anche la tassa sul celibato raddoppia. E poi raddoppia ancora nel 1934. E nel ’36 viene estesa anche ai celibi residenti nelle colonie. I quali, se non si fossero decisi a cambiare stato civile, sarebbero stati bersaglio di un’ulteriore penalità: in materia di lavoro, in caso di assunzioni o promozioni, a loro sarebbero stati preferiti gli uomini sposati e, tra questi, gli sposati con figli.
Sarebbe però troppo facile e persino ingiusto immaginare i legislatori fascisti nei panni del principe Giovanni e del suo strisciante consigliere sir Biss (nel celebre cartoon Robin Hood, di Wolfgang Reitherman, 1973, Walt Disney), mentre esultano per i denari raccolti con una indiscriminata imposizione fiscale. Il principe Giovanni che esclama: «Tasse! Tasse! Bellissime e adorabili tasse!», e sir Biss che lo adula: «Sire, Voi siete bravissimo a convincere i poveri a farvi omaggio dei loro risparmi» evocano molto meglio il tempo presente che non il Ventennio. Persino la figura dell’occhiuto e spietato sceriffo di Nottingham si troverebbe molto più a suo agio oggi, in una Agenzia delle Entrate, che non allora, a minacciare di pignoramento gli evasori della tassa sul celibato. I quali, poveretti, quando non erano oggetto dello scherno altrui — frutto delle insinuazioni che la condizione di celibi stuzzicava circa la loro sessualità — potevano almeno consolarsi con la storia. E con la storia di Roma in particolare, a cui il fascismo non mancava mai di richiamarsi con la prosopopea che conosciamo.
Racconta Carla Fayer (indimenticata docente di Antichità romane all’Università Gabriele d’Annunzio di Pescara-Chieti), nel suo libro La familia romana. Aspetti giuridici e antiquari (edizioni L’Erma di Bretschneider), che dei celibi si occuparono già nel 403 avanti Cristo i censori Marco Furio Camillo e Marco Postumio Albino, i quali, «imposero a coloro che erano giunti celibi alla vecchiaia di versare all’erario una somma a titolo di punizione», poiché, argomentavano i censori, «la natura, come vi dà la legge del nascere, così vi dà quella del generare». Tre secoli dopo, nel 131 a.C., il discorso viene ripreso da un altro censore, Quinto Cecilio Metello Macedonico, che tiene un discorso pubblico per esortare i celibi a prender moglie. E nel 46 a.C. è Cicerone che esorta Cesare a favorire l’incremento demografico e a vietare il celibato. E Cesare fa di più. Per far fronte alla diminuzione della popolazione causata dalle guerre, istituisce anche dei premi per le famiglie numerose. Infine, ecco l’imperatore Augusto, che con un solenne discorso rivolto ai celibi e agli orbi (chissà perché questa «equiparazione») chiarisce che il matrimonio e la procreazione sono le finalità della sua nuova legislazione matrimoniale. «Nel 18 a.C. Augusto fece approvare la lex Iulia de maritandis ordinibus», scrive Carla Fayer, «che imponeva pene piuttosto dure ai celibi e alle nubili; e celibi, termine comprendente anche le donne, erano considerati i maschi fra i 25 e i 60 anni e le donne fra i 20 e i 50». Andò a finire che il celibe perse anche la capacità giuridica. Non poteva ereditare e non poteva nemmeno partecipare a festeggiamenti e spettacoli pubblici.
Benito Mussolini aveva ben presenti questi illustri precedenti e infatti non manca di citarli nel suo famoso discorso dell’Ascensione, tenuto il 26 maggio 1927 alla Camera dei deputati, nel quale spiega le ragioni della nuova politica demografica del regime. «La tassa sui celibi dà dai 40 ai 50 milioni — dice Mussolini —. Ma voi credete realmente che io abbia voluto questa tassa soltanto a questo scopo? Ho approfittato di questa tassa per dare una frustata demografica alla Nazione. Qualche inintelligente dice: siamo in troppi. Gli intelligenti rispondono: siamo in pochi. Affermo che, dato non fondamentale ma pregiudiziale della potenza politica, e quindi economica e morale delle Nazioni, è la loro potenza demografica». Ma il Duce intuisce che c’è un problema. E si chiede: «Queste leggi sono efficaci?». Risposta: «Le leggi sono come le medicine, sono efficaci se sono tempestive».
Dalla decrescita del tasso di natalità che ne seguì — passata dal 29 per mille del 1926 al 25,2 per mille del 1930 e poi al 23,2 del 1937 — si dovrebbe dedurre che o la cura fu intempestiva o le medicine erano sbagliate. Anche se in realtà, oltre agli effetti della Grande Depressione del 1929, c’era un altro fattore che giocava contro la crescita della popolazione: l’elevato tasso di mortalità — in particolare di quella infantile —, dovuto alla povertà, che in diverse regioni italiane aveva il volto della miseria, come emerse dal censimento del 1931. E proprio il censimento, condotto da quell’Istituto centrale di Statistica del Regno (l’Istat) inaugurato nel 1926 e messo alla diretta dipendenza della presidenza del Consiglio, testimoniava dell’importanza attribuita dal regime alla statistica, considerata il migliore strumento per conoscere caratteristiche e trasformazioni della popolazione.
Tanto che da quel momento i censimenti verranno svolti non più ogni dieci anni, ma ogni cinque, consentendo di calibrare al meglio l’adozione di una serie di misure, come l’esenzione dalle tasse per le famiglie numerose, gli assegni familiari per i lavoratori dipendenti, i prestiti matrimoniali, i premi di nuzialità e quelli per le madri prolifiche, i periodi di riposo per le madri lavoratrici prima e dopo il parto, la riduzione delle tariffe ferroviarie per i viaggi di nozze. Misure che — al di là di come la si pensi — costituivano una politica per le famiglie e che nonostante tasse bizzarre come quella sul celibato (abolita il 27 luglio 1943, alla prima riunione del governo Badoglio) impongono un interrogativo che non si può eludere: esiste oggi una politica per le famiglie (e per le unioni di altro tipo) degna di questo nome e all’altezza dei tempi?
Carlo Vulpio