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 2013  febbraio 03 Domenica calendario

DYLAN E BOWIE NON SANNO DIPINGERE

Perché importanti sedi espositive pubbliche accettano di farsi contaminare da esperienze «estetiche» come design, moda, musica? Forse, è il segno di un’epoca nella quale si è compiuto, per dirla con Steiner, il drammatico passaggio dall’autorità alla celebrità. Ma, forse, è anche sintomo di un tempo nel quale i musei tendono a diventare simili a mall caotici, gestiti senza criterio critico: non luoghi di approfondimento e studio, ma spazi di intrattenimento, condannati a profanazioni sistematiche. Due recenti episodi.
Milano, Palazzo Reale. Martedì 5 febbraio verrà inaugurata la prima personale italiana di Bob Dylan (a cura di Francesco Bonami). In mostra, «The New Orleans Series». Un ciclo di 22 dipinti recenti. Vi appare una New Orleans avvolta in un polveroso splendore. Una decadente eleganza, che rimanda ai noir degli anni 40 e 50. Quadri che ritraggono gruppi di persone o singoli individui, appesantiti da campiture piatte e da tonalità cupe. Si respira un’atmosfera tragica.
Londra, Victoria and Albert Museum. Il 23 marzo è fissata l’apertura dell’antologica di David Bowie. Testi autografi, art work originali delle copertine dei dischi, costumi e scenografie, videoclip, film e foto. E molti oggetti cult: come l’abito spaziale di Ziggy Sturdust. Ma perché Palazzo Reale e il V&A scelgono di nobilitare i «giochi» di Dylan e Bowie? Semplice: proprio perché celebrity. Vicende a confronto.
Dylan. È tra le personalità più versatili della storia del rock. Poeta, romanziere (Tarantula), scrittore di memorie (Chronicles), intellettuale impegnato, attore (Pat Garrett & Billy The Kid), regista (Renaldo & Clara), protagonista di documentari (No Direction Home di Scorsese), ispiratore di film (Io non sono qui di Haynes), in diverse occasioni ha dichiarato di sentirsi più a suo agio dinanzi a una tela che a una pagina bianca. In maniera inattesa, ha detto di preferire il dipingere allo scrivere e al cantare canzoni. Addirittura Dylan pensa se stesso innanzitutto come pittore. Supervisiona sempre la grafica delle copertine dei suoi album, concepite da maestri della fotografia. Ma la vera svolta risale al 1966. Vittima di un incidente motociclistico, costretto all’immobilità, l’autore di «Blowin’ in the Wind» scopre il mistero dei colori. Frequenta le lezioni di Norman Roeben, che gli insegna alcune tecniche e gli fa conoscere l’arte del XX secolo. Da allora in poi, decide di evitare tour troppo lunghi. Registra di meno. «Voglio solo dipingere», confessa. Nel 1968, riecheggiando Chagall, realizza la copertina in rosa dell’album «Music from Big Pink» del gruppo The Hawks. Nel 1970, cura in prima persona la cover di un suo disco, «Self Portrait», duramente stroncata. Dagli anni 70, dedica ogni momento libero alla sua «vocazione». Disegna in modo quasi compulsivo. Lo fa un po’ ovunque: durante i tour, nelle stanze degli alberghi. Il suo mito è Picasso: «Aveva disintegrato il mondo (…). Era un rivoluzionario. Era così che volevo essere io». L’artista che lo influenza maggiormente è Ben Shahn. Non mancano le fascinazioni simboliste ed espressioniste. Suggestioni eterogenee che si ritrovano in «Drawn Blank» (a Chemnitz, 2007); in «The Brazil» (a Copenaghen, 2010); e in «The New Orleans» (ora a Palazzo Reale).
Bowie. È il 1960 quando il Duca Bianco comincia a seguire i corsi di Owen Frampton, alla Bromley Technical School. Intenso il suo dialogo con gli artisti: sulle copertine dei suoi album riproduce opere di Vasarely, di Peellaert, di Boshier. Inoltre, guardando a body artist come Lüthi e Ontani, trasforma i suoi show in coinvolgenti performance, segnate da continui travestimenti. Talent scout, collezionista (degli young British artists), editorialista, critico e intervistatore (per la rivista «Modern Painters»), si sente egli stesso un artista visivo. La sua consacrazione si ha nel 1996, quand’è invitato alla Biennale di Firenze. Polemico nei confronti delle logiche del mercato, gestisce un sito (bowieart.com) dove pubblica e vende le sue serigrafie e sculture.
Alcune affinità sono evidenti. Siamo di fronte a due figure da sempre sorrette da una spiccata sensibilità artistica. Che, a un certo punto della carriera, hanno avvertito quasi una stanchezza creativa, e si sono spinte verso territori inesplorati. La loro sfida: coniugare il loro mestiere con una loro passione segreta. Due naïf, dunque. Separati da tante differenze. Dylan è un pittore quasi del tutto privo di talento. I suoi quadri appaiono accademici, scolastici, dilettanteschi, ingenui, senza originalità, fondati sulla riproposizione di stilemi ampiamente conosciuti, distanti dalle «scandalose» canzoni degli anni 60, nelle quali si incontravano tensione politica, vocalità roca e sonorità essenziali. Il caso-Bowie è più complesso. Siamo al cospetto di un vero avanguardista. Una sorta di Picasso del rock che, nel suo itinerario, ha cambiato mille identità. Pur privo di abilità pittorica, egli è un inconsapevole erede dello sperimentalismo novecentesco. Ha la capacità di «ri-locare» le intuizioni di Dalí, di Warhol e di Lüthi in scenari postmoderni. In lui, c’è il performer, il situazionista, il body, il pop, l’artista fluxus. E lo showman.
Nonostante queste differenze, la strategia cui si affidano Dylan e Bowie è la medesima. In una prima fase, restando nel loro specifico musicale, si aprono a contaminazioni e a collaborazioni. Commettono l’errore, però, di ritenere che, per essere artisti autentici, occorra dipingere. Scelgono, perciò, di misurarsi con la pittura. Che considerano un diversivo. Uno strumento di legittimazione culturale. Infine, un divertissement. Non da esercitare privatamente ma da esibire in pubblico. E da imporre nei musei, in virtù di un consenso ottenuto per altre qualità.
Di questi equivoci si è fatto lucido interprete Damien Hirst. Spesso, negli anni 90, gli fa visita nel suo atelier londinese Bowie. Che, un giorno, gli svela il suo sogno: realizzare uno spin painting a quattro mani. La replica: sprezzante. Hirst suggerisce a Ziggy Stardust — che indossa sempre abiti bianchi Gucci — di stare attento a non sporcarsi. Poi, dirà: «Bowie sta cercando di catturare la forza dell’arte per sfruttarla nel suo lavoro. Vuol trasformare il musicista Bowie nell’artista Bowie. Che però fa schifo».
Vincenzo Trione