Paolo Giordano, la Lettura (Corriere della Sera) 03/02/2013, 3 febbraio 2013
L’EDITOR, MIA MADRE
Nel corso dei suoi studi sulle interazioni fra madre e bambino, lo psicologo inglese Donald Winnicott inventò un’espressione destinata ad avere fortuna, tanto da entrare a far parte del lessico comune. Winnicott indicò come madre «sufficientemente buona» colei che sa concedere al figlio uno spazio protetto e amorevole dove sperimentare la propria onnipotenza, uno spazio dove gli è permesso di riversare le proprie manifestazioni negative e tutte le paure, per vedersele poi restituire in forme elaborate e dolci.
Mi sembra che una definizione come quella coniata da Winnicott sia perfetta anche per parlare degli editor letterari, giacché le qualità loro richieste sono esattamente quelle che caratterizzano la maternità virtuosa. L’editor, così come l’autore lo desidera, è infatti molto più madre che padre. Ma chi sarebbe, allora, l’«Editor Sufficientemente Buono»? Non saprei trovare un esempio migliore del leggendario Maxwell Evarts Perkins, «l’editor dei geni», né un manuale migliore per definirne l’operato della biografia toccante e fluviale che di lui ha compilato Andrew Scott Berg, pubblicata in Italia da Elliot a trentadue anni da quando l’opera vinse il National Book Award.
Max Perkins fu per molti anni il principale editor della narrativa alla Charles Scribner’s Sons, dove «scoprì» e crebbe — per l’appunto con amore materno — autori come Francis Scott Fitzgerald, Ernest Hemingway e Thomas Wolfe. Furono loro tre, sopra tutti gli altri, a segnare la straordinarietà della sua lunga carriera e la biografia di Berg ha il merito di rendere questi scrittori di romanzi a loro volta dei veri e propri personaggi romanzeschi, tanto che il libro, sebbene straordinariamente dettagliato, arriva presto ad appassionare come una storia inventata, la storia di un uomo con un dono nascosto e silenzioso (Perkins) e dei suoi tre figli più amati, così diversi fra loro. Se potessimo assegnare dei ruoli rispetto alla «maternità» di Perkins, allora Fitzgerald sarebbe il primogenito dolce e disperato, in costante bisogno di denaro (che l’editor puntualmente gli elargì, perfino dopo la sua morte); Hemingway sarebbe il figlio spaccone e sicuro di sé, geloso e impulsivo e vagabondo; Wolfe sarebbe il più giovane e il preferito, colui al quale il genitore può donare un amore ormai perfettamente libero da richieste di risarcimento. Fu Thomas Wolfe, infatti, a rivolgere per lettera a Perkins una delle più commoventi manifestazioni di affetto, che riassume la natura del suo rapporto con ognuno dei tre: «I giovani a volte credono nell’esistenza di figure eroiche più forti e più sagge di loro, alle quali possono rivolgersi per una risposta a tutte le loro vessazioni e sofferenze... Lei per me è una figura simile: lei è una delle rocce alle quali è ancorata la mia esistenza».
Perkins conosceva i suoi ragazzi. «Winnicottianamente» permetteva loro di sperimentare un senso di onnipotenza, con il progetto a lungo termine di renderli più assennati e autonomi. La sua empatia era tale da farglieli amare soprattutto per le loro debolezze: la vocazione per l’abisso di Fitzgerald lo inteneriva, difese sempre Hemingway per il suo uso smodato (per l’epoca) di termini scurrili, e invitò Wolfe a non contenersi mai nella produzione, anche quando le pagine che riempiva una dopo l’altra, in piedi, appoggiato al frigorifero per quanto era alto, superavano le 4 mila e non mostravano alcuna apparente coerenza l’una con l’altra. Max Perkins era l’incarnazione dell’Editor Sufficientemente Buono e, benché si possa intuire che qua e là la sua immagine tramandata diventi un po’ agiografica, il libro della sua vita andrebbe letto da ogni persona interessata a indagare i rapporti di dipendenza, di vaga sopraffazione e di solidarietà nascosti dietro qualsiasi opera di valore.
Dallo studio attento della biografia si potrebbe poi compilare un decalogo dell’Editor Sufficientemente Buono. Per esempio:
1) L’Editor Suff. Buono sa di avere a che fare con un mistero che è più grande di ciò che lui comprende, un mistero che si rinnova, sempre diverso, nell’incontro con ogni autore. Egli ammette pertanto la propria totale ignoranza davanti alla manifestazione di un nuovo talento. «Lei scrive in modo completamente personale, e io non dovrei arrischiarmi a fare delle critiche» disse Perkins a un esordiente Hemingway. «Non sarei sicuro di quanto dico».
2) L’Editor Suff. Buono dice più di quanto non abbia voglia, esprime al suo autore concetti che potrebbero benissimo restare impliciti, perché l’autore esige che gli venga espresso ciò che già sa, affinché ogni concetto sia certificato come vero: se, per esempio, l’autore ha fatto una scelta particolarmente coraggiosa riguardo all’abolizione delle similitudini, vuole che gli si dica: «La scelta di abolire le similitudini è molto coraggiosa», e se ha creato un personaggio vivo con appena tre frasi, pretende che questo venga notato: «Lei ha creato un personaggio vivo con poche frasi, davvero sbalorditivo», e così via. Si tratta di conversazioni superflue eppure necessarie, perché l’autore si aspetta dall’Editor Suff. Buono quel grado di consapevolezza e di interesse rispetto al proprio lavoro che sa di non poter trovare nemmeno in misura frazionale nella moltitudine dei lettori, né fra le righe della più acuta delle critiche.
3) L’Editor Suff. Buono non può essere uno scrittore a sua volta. Il pasticcio di interessi, ambizioni, invidie, dissapori diventerebbe presto inestricabile. Madeleine Boyd aveva l’impressione fondata che Max Perkins potesse scrivere meglio di molti dei suoi autori e in un’occasione azzardò la domanda sul perché non cominciasse a farlo. «Max semplicemente mi fissò a lungo e disse: "Perché sono un editor"».
4) L’Editor Suff. Buono non ambisce a essere riconosciuto, anzi scoraggia ogni forma di ringraziamento pubblica da parte dell’autore. Poco conta quello che desidera veramente, perché sa che questo è l’unico modo giusto. Perkins, al di là della propria soddisfazione segreta, fu molto contrario alla dedica lusinghiera che Wolfe volle inserire all’inizio di Il fiume e il tempo, opera alla quale avevano lavorato insieme giorno e notte, per mesi.
5) L’Editor Suff. Buono sa aspettare quando bisogna aspettare e sa spronare quando è il caso di spronare.
6) L’Editor Suff. Buono consiglia all’autore letture che lo aiutino a progredire. Sapevi che Max Perkins ti considerava ormai un autore maturo nel momento in cui ti invitava a leggere Guerra e pace, la sua opera letteraria preferita in assoluto.
7) L’Editor Suff. Buono, che alla vigilia di ogni pubblicazione se la fa sotto almeno quanto l’autore se non molto di più, non mostrerà mai la sua insicurezza. In caso di fallimento, completo o parziale, non nasconderà tuttavia la sua delusione, ma s’immergerà nel lutto insieme all’autore affinché egli non si senta solo nell’elaborarlo.
8) L’Editor Suff. Buono non è né l’avvocato del Pubblico né la personificazione della Letteratura: è un tramite, un morbido anello di congiunzione fra i due.
Eccetera. L’immagine che forse contiene tutte le altre è quella di una persona che, seppure operando all’interno di una logica di mercato e di un’azienda della quale deve aumentare il profitto, rivolge le spalle alla casa editrice che lo stipendia e tiene lo sguardo fisso sugli autori in cui crede, perché non perdano il cammino e perché possano esprimere — nel tempo e nella forma che sono loro congeniali — il proprio talento al massimo grado e senza farsi divorare da esso.
Non è un mestiere facile perciò, anzi: è un mestiere riservato a pochi eletti, a coloro che nel corso della vita hanno sviluppato un tipo davvero speciale di abnegazione, una disponibilità all’accoglienza con dei tratti quasi religiosi (o, al contrario, un narcisismo così spiccato da doverlo mascherare per forza dietro il narcisismo di qualcun altro). Ci sono aspetti addirittura infernali nella routine degli editor, basta pensare alla carica di pressioni ricevute da ogni parte e quotidianamente, in ragione del potere che possiedono e del numero di aspiranti scrittori in circolazione. «A Max capitava, come capitava allora e oggi a tanti editor, che gli scrittori diventavano amici e gli amici ogni tanto diventavano scrittori: una confusione incestuosa che a volte produceva bei libri e altre volte orrende complicazioni». Ogni santa mattina l’Editor Sufficientemente Buono è chiamato a mettere da parte il suo ego, l’umore, il mal di denti che lo ha tormentato nella notte e a lasciare libero il campo per i bisogni capricciosi dei suoi assistiti. Deve trattare ognuno di loro come se fosse l’unico, il migliore, la reincarnazione più recente e riuscita di William Shakespeare, mentre dentro lo brucia la consapevolezza che quella relazione asimmetrica contempla la possibilità del tradimento. Dei tre «figli» fu proprio Thomas Wolfe, il più amato, a voltare le spalle a Perkins, causandogli un dolore che lo accompagnò fino alla fine. Quasi ogni madre è familiare con tutto questo: l’unica consolazione per l’editor è che, per lo meno, riceve un compenso ogni quarta settimana del mese.
Oggi l’editoria è in crisi. È vero e, se pure non lo fosse, tanto lo ripetono tutti. La sintomatologia è quanto mai complessa: dicono che la scrittura portatrice di senso stia morendo sotto l’assedio di forme di intrattenimento più immediate e ammiccanti; dicono che la tecnologia divorerà la carta con voracità animale e da ogni parte si levano cori funebri (un po’ precoci) per la morte del libro «come lo conosciamo»; Raffaele La Capria ha denunciato su queste stesse pagine la proliferazione di scrittori ibridati con il mondo dello spettacolo, prendendosela fra l’altro con l’inerzia dei giovani che osservano il meticciamento restando zitti (ma cosa potremmo fare o dire, caro La Capria, noi giovani in-quanto-giovani, quando ogni nostra recriminazione verrebbe scambiata per smania di successo o snobismo o paura?). Insomma, ce ne stiamo tutti seduti con i piedi penzoloni sull’orlo del baratro dell’editoria e aspettiamo che la fine ci travolga.
Vale la pena, allora, di ricordarsi che nel 1929 la Grande Depressione piombò nera sugli Stati Uniti. A differenza della crisi economica che viviamo oggi, la G.D. aveva il difetto di essere la prima nel suo genere: nessuno aveva alle spalle l’esperienza per affermare che a un certo punto sarebbe finita (ma finì, poi). Dopo il crollo della Borsa, un Max Perkins preoccupato scrisse a Scott Fitzgerald: «Che effetto avrà nessuno può dirlo». Si riferiva anche ai libri, ma ben presto mise da parte l’angoscia per sostenere un Thomas Wolfe molto più ansioso di lui, alle prese con le tenebre del secondo libro. Nella generale mancanza di speranza e affezione che ogni crisi porta con sé, Perkins trovò la forza di dire a Wolfe: «Lei è uno scrittore nato, se mai ne è esistito uno, e non deve preoccuparsi se questo libro sarà bello come Angelo, o cose del genere. Se solo riuscirà a immergervisi, e ci riuscirà, sarà bello». Pochi anni dopo Wolfe pubblicò Il fiume e il tempo, suscitando un inedito clamore.
Perkins si guardava bene dal trasmettere la propria inquietudine agli autori che curava. Sapeva bene che ciò non avrebbe che peggiorato le cose, perché nessuna opera d’arte di valore può essere creata con la prospettiva di un orizzonte finito. L’Editor Sufficientemente Buono, lui prima di chiunque altro, deve garantire all’artista un’ipotesi di eternità, poiché è soltanto dentro un percorso illimitato che gli sforzi immani di creare qualcosa di bello «di per sé» assumono un senso.
La mia impressione è che oggi molti editori si sentano invece parte di una specie a rischio di estinzione — un’estinzione ancora più rapida di quella imminente degli scrittori che sono chiamati a proteggere. Per dirne una: la moda neonata che sia l’editore stesso a scrivere una fascetta di merito per il libro che pubblica, azzerando al contempo il valore e la veridicità della fascetta stessa, mi appare come un segno lampante di paura, anzi di dilagante terrore, più che come un’astuzia manageriale. E mi è capitato di prendere parte a riunioni editoriali in cui, prima di spendere anche soltanto una parola di circostanza per la sostanza del libro in esame, la discussione si incastrava sulla necessità assoluta di conquistare il Regno Di Facebook: persone che dovrebbero tenere dritto il timone del mercato librario hanno ripetuto così tante volte in una sola mattina la parola digital, da farmi venire il dubbio che il loro fosse più che altro un esercizio linguistico per appropriarsi di quella parola esotica con l’ultima sillaba amputata. Quale senso di eternità può esistere in mezzo a un simile panico?, fra le grida di si-salvi-chi-può che giungono da ogni parte dell’industria editoriale? Non vorremmo davvero che l’immagine fondante di questo volgere di millennio fosse quella del capitano che salta per primo sulla scialuppa e abbandona la nave.
Caro Max Perkins, aiutaci tu allora: sta davvero finendo tutto?, a questa velocità?, dobbiamo prepararci a un nuovo mestiere, magari pensare di aprire un franchising di telefonia mobile?, la scrittura muore proprio oggi che ci illudevamo di poterla reinventare noi? Sono sicuro che, se potesse, troverebbe il tempo di rispondermi, e di rassicurarmi. Ma almeno di una cosa sono persuaso, anche senza il suo consiglio: l’Editor Sufficientemente Buono non si estinguerà, non così in fretta almeno. Quando l’infausto digital avrà finalmente espresso in pieno le possibilità dell’autopromozione e della pirateria, quando la produzione letteraria libera avrà sfondato anche le ultime cateratte e i lettori saranno sommersi da un fiume di dilettantismo, saranno loro stessi, i lettori, a cercare degli appigli per non lasciarsi sommergere. E saranno ancora una volta gli editor (quelli sufficientemente buoni) e i critici (quelli sufficientemente buoni) a tendere loro la mano. Sempre che qualcuno sia sopravvissuto, s’intende.
Fra le creature tardive di Max Perkins vi fu anche il giovane James Jones, che sotto l’egida del funzionario della Scribner lavorò a un romanzo il cui titolo si accosta bene alle riflessioni di queste righe: Da qui all’eternità. Il romanzo avrebbe vinto il National Book Award e sarebbe diventato un classico della narrativa americana, nonché un campione di vendite. James Jones aveva tutti gli attributi per diventare il nuovo Thomas Wolfe di Max Perkins, il nuovo prediletto, ma arrivò troppo tardi, quando l’Editor Molto Buono era già stanco e malato, soprattutto di disillusione. Jones era come uno di quei figli che capitano ai genitori in età avanzata, un po’ per sbaglio, quando essi non posseggono più molta meraviglia da trasmettere. Mi si è stretto il cuore nel leggere le parole che scrisse a un amico dopo la morte di Perkins: «Sarei dovuto andare dov’era lui perché c’era così tanto che avrebbe potuto insegnarmi. Ma come ho detto, la vita non sempre mette queste due cose insieme; il suo tempo in questo senso lui lo ha dedicato a Thomas Wolfe e non a me».
Succede anche questo. Può succedere che l’autore arrivi dall’Editor Sufficientemente Buono quando per quest’ultimo è troppo tardi, quando la sua illusione è stata erosa e i suoi occhi sono spalancati su una realtà in cui non si riconosce più, e che lo spaventa. Allora, all’autore non resta altro da fare che rimettersi in marcia e andare a cercare laddove gli occhi sono ancora chiusi e il sogno stupido dell’eternità intatto. Altrove.
Paolo Giordano