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 2013  febbraio 03 Domenica calendario

I SIGNORI DEL CREDITO ONLINE CHE SPIANO LE VITE DEGLI ALTRI

Tra le tante mirabolanti promesse sbandierate dai paladini dei big data, quella che grazie a essi più gente potrà avere accesso a migliori condizioni di credito e ad altri servizi bancari sembra effettivamente credibile. Fino a poco tempo fa, la mancanza di dati certi su chi aspirava a ottenere un prestito senza avere dei precedenti verificabili obbligava le banche a trattare tutti come clienti ad alto rischio. Di conseguenza, i prestiti venivano offerti a tassi proibitivi o semplicemente rifiutati.
Se c’è, però, una cosa che Silicon Valley ha imparato a raccogliere, organizzare e analizzare, sono i dati. Il risultato è che sta nascendo una nuova generazione di aziende che, impiegando algoritmi, scandaglia i big data per determinare la solvibilità di chi chiede un prestito.Alcune di queste aziende — come la Lenddo di Hong Kong, che attualmente opera nelle Filippine e in Colombia — lo fanno raccogliendo informazioni sui loro clienti da social media come Facebook e Twitter. Per ottenere un prestito da Lenddo è essenziale avere nel proprio social network un gruppo di individui altamente affidabili — quelli a cui Lenddo assegna un punteggio di 400 — che, se garantiscono per voi facendovi ottenere un prestito, saranno poi aggiornati sull’andamento dei vostri rimborsi. Analogamente, la società statunitense LendUp, che offre prestiti a breve termine con tassi di interesse elevati, riservando ai clienti di provata fiducia proposte più attraenti sul credito a lungo termine, utilizza le informazioni tratte dai social media di chi chiede un prestito per verificare che i dati forniti con la domanda online corrispondano a quelli risultanti da Facebook e Twitter.

Wonga, un’azienda leader nel settore dei prestiti online, con sede a Londra e in rapida espansione in Sudafrica, Canada e Spagna, nelle sue valutazioni tiene addirittura conto dell’ora e del modo in cui il cliente si muove all’interno del suo sito. Alcuni dei criteri di rilevazione dei dati sono piuttosto misteriosi e il loro elenco è di solito molto lungo. Kreditech, una delle aziende tedesche più importanti in questo settore, sostiene di analizzare 8 mila diverse informazioni, come «dati relativi all’ubicazione (Gps e micro-geografia), grafici ricavati dai social media (i «mi piace», gli amici, i luoghi, i messaggi), analisi comportamentali (quando e quanto si rimane su una pagina web), abitudini di acquisto nell’e-commerce e dati sugli strumenti informatici utilizzati (applicazioni installate, sistemi operativi)», e così via.
Non tutti però hanno uno smartphone o possono permettersi di passare l’intera giornata su Twitter a scambiare battute con gli amici (ovvero, chi ha il tempo di fare queste cose probabilmente non ha bisogno di piccoli prestiti). Così, invece di esaminare le informazioni sui social media e monitorare il browser, alcune aziende verificano l’affidabilità dei clienti studiando i loro comportamenti telefonici. Per esempio Safaricom, il più grande operatore di telefonia mobile del Sudafrica, per valutare i suoi clienti guarda quanto spesso arrivano a usare tutti i minuti di telefonate che hanno a disposizione, se ricorrono regolarmente ai servizi in voce, e con che frequenza fanno transazioni finanziarie attraverso un apparecchio mobile. In questo modo la gente può avere accesso al credito — forse non alle condizioni più vantaggiose — semplicemente usando il telefono cellulare.
Non è detto che questi metodi debbano essere appannaggio dei soli operatori mobili: una nuova start-up chiamata Cignifi sta lavorando a una soluzione in grado di generare automaticamente una valutazione finanziaria del cliente, cercando di individuarne lo stile di vita attraverso l’analisi di dati come la durata delle telefonate e l’ora e il luogo in cui vengono effettuate. Il progetto è quello di estendere questa soluzione a molti Paesi in via di sviluppo.
Quasi tutte queste start-up partono dal presupposto che i criteri attuali per verificare la solvibilità di chi chiede un prestito siano inefficaci, perché prendono in considerazione solo poche informazioni, escludendo così molti lavoratori diligenti e rispettosi delle scadenze. Secondo logica, più dati si hanno, più è facile distinguere tra chi merita il prestito e chi no.
Douglas Merrill — ex chief information officer di Google e fondatore di ZestFinance, un’importante start-up che controlla dati online per fornire informazioni sulla solvibilità degli individui ad aziende di credito — ha detto l’anno scorso al «New York Times»: «Pensiamo che tutti i dati abbiano una valenza finanziaria, solo che non sappiamo ancora bene in che modo. Google ci ha insegnato che una pagina è importante per quello che contiene, ma anche per la correttezza nell’uso della grammatica, per il carattere scelto, per il momento in cui viene creata o modificata. Insomma, per tutto». Merrill mette in pratica quel che predica: ZestFinance esamina 70 mila indicatori e li inserisce in dieci modelli distinti di valutazione del rischio. I risultati ottenuti da questi modelli vengono poi paragonati — in millisecondi — per decidere come comportarsi con i singoli clienti.
Tutto questo è meraviglioso, e molte di queste start-up sembrano dirette da persone che vogliono rendere il credito più accessibile alle masse. (Dobbiamo però aggiungere che le aziende di credito online più grandi e affermate, come Wonga, si trovano regolarmente coinvolte in polemiche, come quando sono state accusate di prendere aggressivamente di mira gli studenti o di aver assunto un ex consulente di David Cameron per dirigere i loro affari con il governo).
Il problema grande e irrisolto è però quel che accade quando queste aziende, dopo aver capito che i dati raccolti sono interessanti sotto il profilo del credito, si accorgono che lo sono anche per il marketing. Considerando quanto sanno dei loro clienti, sarebbe per loro molto allettante utilizzare i dati non solo per garantire la solvibilità di un cliente o per fargli ottenere un prestito a breve termine per pagare qualcosa che è tentato di acquistare online (Wonga, ad esempio, ha recentemente avviato una partnership con un rivenditore di mobili, i cui clienti hanno la possibilità di pagare i mobili che acquistano in un secondo momento e a rate — per gentile concessione di Wonga).
Dopo tutto, conoscendo i social network dei loro clienti, quel che leggono, quali app hanno installato, e quasi tutto quel che pubblicano sui social media o addirittura scrivono nei loro sms, le aziende possono perfezionare l’arte della persuasione occulta e della manipolazione in modi che Madison Avenue non avrebbe mai potuto nemmeno sognare.

Questo, ovviamente, non è quel che ci dicono loro. L’anno scorso il fondatore di Wonga ha dichiarato al «Guardian» che non credeva che la gente potesse essere convinta a chiedere un prestito che non gli serviva. «I nostri clienti hanno un problema di contanti e hanno bisogno di una soluzione. Non gli chiediamo di ottenere un prestito di cui non hanno bisogno. In genere Internet non ti spinge a comprare nulla. Si deve andare a cercare qualcosa. È diverso da qualcuno che viene a casa tua e cerca di venderti cose che magari non ti servono».
Ci vuole una buona dose di coraggio — o di miopia — per sostenere che su Internet non venga mai venduto nulla di superfluo! È questa ingenuità — o forse finta ingenuità — l’aspetto più inquietante del nuovo potere che le start-up finanziarie che maneggiano i big data possono esercitare sui settori più vulnerabili della popolazione.
Evgeny Morozov
(Traduzione di Maria Sepa)