Massimo Gaggi, la Lettura (Corriere della Sera) 03/02/2013, 3 febbraio 2013
TANTI SALUTI AI PERIODICI DI CARTA
Arnaud de Borchgrave, corrispondente internazionale di «Newsweek» fino al 1980, ricorda quando, andato a raccontare la guerra indo-pachistana nel Sikkim, assunse 300 «sherpa», dando a ognuno due o tre dollari, per portare la sua jeep al di là di una frana: «Erano anni in cui vivevamo estremamente bene: si viaggiava sempre in prima classe, solo hotel a cinque stelle. E mai una nota spese messa in discussione in trent’anni». Conferma Milan Kubic, altro ex di rango del celebre magazine: «Si volava ovunque, quando ero in Sud America potevo affittare in qualunque momento un Cessna. Avevo un pilota solo per me, per tutto il tempo necessario. A 30 dollari l’ora».
Frammenti di un giornalismo che non esiste più e di un giornale che non c’è più. Raccolte, nella sua oral history di quella testata leggendaria, da Andrew Romano: firma di punta del «Daily Beast» e dello stesso «Newsweek», ormai trasformato in magazine digitale e pienamente incorporato nel sito di Tina Brown, dopo la cessazione delle pubblicazioni del settimanale di carta. L’ultimo numero è uscito a fine 2012: copertina nostalgica in bianco e nero con l’immagine del vecchio grattacielo filiforme al 444 di Madison Avenue, sede degli anni d’oro. Quando «Newsweek» aveva centinaia di giornalisti e 30 uffici sparsi per il mondo.
«Sembrava di avere a che fare con le vestigia di un grande galeone», ha raccontato con una punta di sarcasmo Tina Brown ricordando quando, nel 2010, ai tempi della fusione del settimanale nel «Daily Beast», studiò i documenti della cessione. «Era come girare nel relitto del Titanic, nuotare tra le stanze in un film di James Cameron».
La direttrice, che in passato era riuscita a rilanciare «Vanity Fair» e il «New Yorker», aveva creduto di poter ripetere l’impresa, riportando a galla anche «Newsweek», precipitato a un milione e mezzo di copie vendute rispetto a una diffusione che solo dieci anni fa era di 4 milioni. Un’illusione, come lei stessa ha ammesso: «Prendere "Newsweek" è stata una scommessa romantica, un gioco d’azzardo. Pensavamo che a fianco del nostro sito fresco, agile, ci potesse essere spazio per un autorevole giornale stampato. Ma, per farcela, avremmo avuto bisogno di almeno 5 anni di economia americana in piena espansione. E non è andata così».
A ottobre, d’accordo con l’editore Barry Diller, il padrone della Iac, la società alla quale fanno capo, oltre a «Daily Beast» e «Newsweek», anche altri siti come about.com e ask.com, la Brown ha annunciato a una redazione ormai preparata al peggio l’imminente chiusura dell’edizione cartacea e la trasformazione del settimanale fondato nel 1933 in magazine solo digitale. Un sacrificio inevitabile: la Brown non ha mai voluto confermare l’indiscrezione secondo la quale «Newsweek» perdeva 40 milioni di dollari l’anno, ma ha fornito un altro dato: la sola stampa del settimanale costava 42 milioni. Dunque, pagina voltata e inizio di una nuova vita, promisero allora la direttrice delle due testate e il presidente della società, Rob Gregory. Che da allora ha continuato a insistere: «"Daily Beast" e "Newsweek" possono vivere fianco a fianco» realizzati nello stesso luogo e dalla stessa gente, ma come testate separate. Col sito più attento allo «stato d’animo del momento, all’evoluzione immediata dei fatti, mentre il magazine digitale che si basa di più sulla sua autorevolezza, guarda al futuro», disegna scenari.
A un mese dalla cessazione delle pubblicazioni si può dire davvero che «Newsweek» si stia reincarnando? «Balle» taglia corto Michael Wolff, celebre critico dei media, fondatore del sito «Newser» e autore di una monumentale e discussa biografia di Rupert Murdoch, prima autorizzata e poi ripudiata dal tycoon australiano. «"Newsweek" è finito, kaput. Non è riuscito nemmeno l’atterraggio morbido, questo è un crash landing. Distinguere i modelli di business delle due testate online non ha senso, è un esercizio di cinismo per cercare di nascondere un fallimento. Tina Brown sta andando sott’acqua: anche il "Daily Beast" va male». E se provi a obiettare che l’anno scorso il sito ha registrato un incremento del traffico del 69 per cento, arrivando a oltre 18 milioni di utenti unici, Wolff rincara la dose: «Sono numeri modesti rispetto alle dimensioni del mercato, una cortina fumogena per nascondere una realtà sgradevole: tutto quello di cui Tina si è occupata negli ultimi 15 anni è finito con un fallimento. Anche Andrew Sullivan abbandona la nave. Dal primo febbraio ha portato il suo "The Dish" fuori dal sito del "Beast"».
In azienda, bocche cucite. Dopo molte insistenze forniscono qualche dato, ma poco significativo: oltre all’aumento del traffico del sito del «Beast», una fantasmagorica impennata (più 410 per cento) delle applicazioni di «Newsweek» scaricate nel 2012 sugli iPad e gli altri terminali mobili. Sì, ma quanti sono gli abbonamenti digitali pagati? Nello scorso autunno quelli all’iPad erano 44 mila. Quanti sono diventati dopo l’uscita di scena del magazine di carta? Nessuna risposta. In azienda come in redazione invitano a pazientare, perché a breve — chi dice a metà febbraio, chi in primavera — verrà presentata una nuova versione di «Newsweek Global», il nome della testata nella reincarnazione digital only.
Rob Gregory invita a guardare in faccia la realtà: il futuro è nei lettori digitali. A meno di tre anni dalla nascita dell’iPad, negli Stati Uniti ci sono già più di 70 milioni di e-reader. Ma la transizione sarà lunga e tormentata. A «Newsweek» i sopravvissuti dell’ennesima ristrutturazione — un altro dimezzamento degli organici attuato a tappe e concluso a dicembre — si aggirano ancora smarriti nella nuova, avveniristica sede delle attività editoriali Iac: lo strano palazzo dalle enormi vetrate curvilinee realizzato dall’architetto Frank Gehry.
«Una ristrutturazione non gradevole, ma necessaria, attesa da tutti e realizzata in modo non troppo traumatico», minimizza dalla Francia Chris Dickey, per molti anni responsabile delle edizioni mediorientali di «Newsweek» e tuttora capo dell’ufficio di Parigi. «Lo spirito di "Newsweek" è ancora vivo, almeno tra chi è rimasto. Nel gruppo abbiamo noi la bandiera del long form journalism, le grandi storie, i reportage, le analisi delle grandi firme, pezzi memorabili di scrittori memorabili». Ma cosa rimane di una redazione di «Newsweek» ormai ridotta all’osso e integrata in quella del «Daily Beast»? Che ne è della distinzione tra le due testate? Solo un fatto di marketing?
Dickey spiega di non sentirsi diminuito nella sua immagine di firma di «Newsweek» perché scrive anche per il «Daily Beast»: «Per alcuni è stato un trauma. Per me, invece, è normale, lo faccio tutti i giorni. Forse perché tanti anni fa sono arrivato qui da una cultura più aperta, quella del "Washington Post". Cominciai lì ai tempi delle dimissioni di Nixon, 1974, e passai al settimanale nel 1986, trasferendomi da un open space a un ambiente nel quale ognuno era chiuso nella sua stanzetta. Oggi siamo tornati a vivere in un ambiente più aperto, con le antenne spalancate verso il mondo. Da giornalista, il periodico, con la cadenza di un pezzo a settimana, mi è sempre andato stretto. Ora scrivo tutti i giorni. Ho appena pubblicato un’intervista al ministro della Difesa israeliano Ehud Barak che su "Newsweek" non sarebbe mai uscita: è andata sul "Daily Beast" ed è stata subito ripresa dal "New York Times"».
L’unica cosa su cui tutti — Wolff, Tina Brown, Dickey — sembrano d’accordo è che la stagione dei periodici di carta sta finendo: entro qualche anno anche «Time», unico sopravvissuto dei tre grandi settimanali («Us News & World Report» aveva già chiuso nel novembre 2010), sarà costretto a seguire la strada imboccata dal suo «fratello minore». «"Time" andrà avanti per un po’ perché è al centro di un gruppo editoriale che gli fa da ombrello e porta il suo nome» sostiene Tina Brown. «Ma è roba di qualche anno: gli elefanti non possono ballare il tip tap. Non credo che a metà del secolo i brand che oggi dominano il mercato avranno un ruolo. Giornali di carta non ce ne saranno più: chi vorrà, una volta che li avrà ricevuti via web, se li stamperà in casa».
Lettori e giornalisti si chiedono ancora quando è stata persa la battaglia per «Newsweek»: quando l’ex direttore Jon Meacham trasformò il settimanale d’informazione in un magazine aristocratico e rarefatto, dimezzando le vendite? O addirittura nel 2001 quando scomparve la grande editrice Katherine Graham, vera anima del gruppo? «Forse non ha senso cercare un responsabile» si defila Dickey. «È cambiato tutto e per tutti. Siamo nell’era degli e-reader: io stesso, ormai, leggo quasi tutto su tablet e telefono».
Eppure tra i periodici americani si vede qualche luce: il rilancio del «New Republic», il caso clamoroso dell’«Atlantic», il «New Yorker» che aumenta, sia pure di poco, le vendite. «Macché», replica Wolff: «Il primo ha un editore filantropo, il "New Yorker" ha il sostegno di Conde Nast, un publisher con le spalle larghe».
Niente carta, niente «Daily Beast». Cosa salviamo? Qual è il modello? L’«Huffington Post»? «Quello va meglio, ma fattura 60 milioni di dollari l’anno: insignificante. E anche altri siti che vanno per la maggiore, da "Buzzfeed" a "Business Insider", non guadagnano o portano a casa solo briciole». Poi l’ultima rasoiata di Wolff: «Quelli che funzionano e guadagnano sono i siti d’informazione specialistica come "Tripadvisor"». Consigli di viaggio. Amen.
Massimo Gaggi