Gianni Clerici, la Repubblica 4/2/2013, 4 febbraio 2013
ARTHUR ASHE – BLACK POINT
È il ventesimo anniversario della morte di Arthur Ashe, tennista americano nero. Mi arrampico su uno scaffale della mia biblioteca, e comincio a cercare. Ritrovo, vergognoso per la s-memoria, ben cinque libri su di lui, o di suo pugno. Levels of the Game è di John Mc Phee, uno dei maggiori romanzieri moderni americani, a proposito di un match tra due opposti simboli USA, Clark Graebner e Ashe. Dice il risvolto di copertina “Arthur pensa che Graebner, figlio di un dentista, giochi un conciso e rigido tennis repubblicano. Graebner pensa che Ashe, nato a Richmond, giochi un tennis disinvolto, dentro o fuori, liberale, democratico”. L’ultimo dei libri su, o di Ashe, è Giorni di Grazia, uscito subito dopo la sua morte, a firma comune di Arthur e Arnold Rampersad, buon giornalista. Narra la vita, e la malattia
del tennista. Mi fermerei alla malattia, e cioè sull’infezione causata da una superficialissima e infetta trasfusione del sangue di un malato di Aids. Malattia che venne annunciata sul giornale USA Today da un corazziale del tennista senza specificarne la causa. Un tipo da tabloid che, mentre lo minacciavo con l’Olivetti Lettera 22 in pugno quale arma contundente, ebbe il coraggio di giustificarsi: «La nostra professione è di rivelare la verità sui personaggi pubblici».
Quando venne contagiato nel 1988, Arthur aveva 45 anni. Aveva vinto, primo tra i neri, il Campionato del suo paese, sia dilettanti che professionisti, nel 1968, anno della Rivoluzione Open. Simile prodezza venne seguita dallo Australian Open nel 1970, da Wimbledon, contro Connors, nel 1975. Per dieci anni partecipò alla Davis come giocatore, e
in seguito fu per cinque stagioni Capitano. Arthur era un tennista velocissimo e leggero, con una battuta slice insolita per un destro, seguita spessissimo a rete, e due volée tagliate e sicure. Era, nei confronti degli avversari dei tempi, quando ancora i tennisti frequentavano la scuola, curioso e colto, con tendenza alla lettura, e una predilezione per Herman Hesse che non fu estranea alla nostra amicizia, come gli raccontai di aver visitato quel grande alla Montagnola, non lontano da casa mia. Proprio uno dei suoi libri reca, quale epigrafe, una definizione di Hesse, presa dal Gioco delle Perle di Vetro, a proposito della morte incombente: «Anche l’ora della morte ci può accompagnare verso freschi e nuovi spazi».
Com’era arrivato ad essere quel che era, Arthur, che chiamavo Arturo, con suo vivo divertimento, lui che amava l’Italia, e di un paese così diverso dagli USA era curiosissimo, tanto da ritornarci ad
ogni possibile occasione? In breve, Arthur era nato a Richmond, Virginia, il 10 luglio del 1943. Poiché le leggi razziali lo impedivano, non aveva potuto competere con i suoi coetanei bianchi durante gli anni dell’infanzia e della prima giovinezza. Era figlio del guardiano di un parco, e di una colf, in quei tempi chiamata serva. Per sua fortuna, l’evidente abilità con palla e racchetta aveva sollevato la curiosità di un benefattore nero, il Dottor Walter Johnson, di Lynchburg, che già era stato di grande aiuto alla prima campionessa nera di dieci anni avanti, Althea Gibson, e aveva fondato una Federazione per chi fosse coloured. Finito, grazie all’aiuto di Johnson, il liceo a St. Louis, Arthur riuscì a farsi ammettere ai Campionati Interscolastici, e li vinse.
Accolto anche alla grande UCLA (University of California di Los Angeles), vinse poi anche il titolo Intercollegiate, e cioè i Campionati Universitari, ai quali, allora,
partecipavano tutti gli Under 24. Da quegli inizi non facili a causa di un razzismo inimmaginabile nel tempo di Obama, Arthur sarebbe, passo passo, giunto a credere in se stesso, alla possibilità di una vittoria a Wimbledon, che venne ormai superati i trent’anni, con una memorabile partita tattica contro Jimmy Connors, di dieci anni più giovane.
Quella sua carriera di tardi miglioramenti fu purtroppo bloccata nel luglio del 79 da un attacco al cuore che lo costrinse ai margini, ma non certo all’inazione. Era stato tra i fondatori dell’ATP (sindacato tennisti) e il suo senso sociale lo spinse, primo tennista nero, a visitare il Sudafrica, dopo che l’ingresso gli era stato più volte rifiutato. Le visite in quel paese si rinnovarono, sino all’incontro con Mandela che si definì un suo “Fan”, e alla nascita di una Fondazione a Soweto. Da quell’iniziativa ne germogliarono altre, e la partecipazione di Arthur alle umane sfortune divenne più frequente e svariata, sino a creare una fondazione per le vittime dell’Aids.
Se questo è un banale tentativo di riassumere la sua vita, non posso dimenticare il mio ultimo incontro con Arthur. Avvenne a Wimbledon, nel luglio del 1992, di fronte alle erte scale che portavano alle nostre camerette televisive, i luoghi dei commenti alle partite. «Caro Gionni, l’anno prossimo temo che non sarò più in grado di salirci» mi disse, con un sorriso dolcissimo. Finsi di non capire e «Non avrai le vertigini?» ribattei. «Forse mi verranno, a guardarti tanto da lontano, lassù nel cielo» ancora sorrise. Mi abbracciò. E riuscii a non piangere, almeno sinché non fu fuori vista.