Giampaolo Visetti, la Repubblica 4/2/2013, 4 febbraio 2013
LA LUNGA MARCIA DELLA CENSURA
LA CENSURA in Cina, come lo smog, non si distingue con certezza. C’è una certa nebbia, questo sì, ma si confonde. Dopo qualche anno però parte qualche colpo di tosse e se il tuo giornale ti chiede di parlarne un po’, trovi decine di storie alternative, più urgenti, come dire, che potrebbero funzionare. Di censura a Pechino ci si ammala così: si arriva a convincersi di esserne ossessionati, a proteggerla per spirito di obiettività, infine a sfruttarla come scudo alla pigrizia. Convivere con una censura redazionalmente archiviata come «vecchio film», ai corrispondenti stranieri riserva non sottovalutabili comodità. Una su tutte: l’alibi di ferro per restare sempre e comunque seduti davanti al computer, con l’orecchio onestamente sintonizzato sulla melodia rassicurante della propaganda. Questo
confortevole abbandono al non voler nemmeno sapere se dietro all’apparenza si cela un’altra verità, o se la realtà abbia maggior titolo sociale di essere affermata rispetto all’interpretazione pre-elaborata dal partito-Stato, è l’apatia fatalista con cui da quasi sessantacinque anni il popolo cinese avvolge l’autoritarismo che lo soggioga. Si vive stretti, finendo con il trovare all’angustia pregi innumerevoli, e altrettanti difetti a quella semplificazione che parte del mondo si ostina a chiamare obiettività. In questi giorni, a chi scrive da Pechino, è stata recapitata una fiorita scatola rossa. È un regalo per festeggiare l’inizio dell’anno lunare del Serpente Nero d’Acqua e contiene due chili di dolci tradizionali. Il gentile pensiero è dell’Ufficio Informazione della capitale, che ringrazia gli «amici stranieri» che hanno collaborato a «chiarire alla comunità internazionale» la «vera grandezza dell’ascesa cinese». Forse nessuno, tra i destinatari, ha mai saputo di operare per un tale obbiettivo. Eppure, per le autorità, non conta. Una lettera elenca decine di eventi gloriosi a cui durante l’anno pochissimi hanno presenziato, come il settimo simposio internazionale sulla fragola.
Biscotti e missiva servono a funzionari che per fare carriera devono giustificarsi con altri funzionari, su, fino al massimo livello: tranquilli, là fuori tutto è sotto controllo. Va detto: offrire agli amici i dolcetti cinesi cucinati da censura e propaganda, scoccia, come un brufolo sul naso proprio la sera che non ci voleva. La scatola rossa però, certo per sbaglio, può anche non arrivare. Si fa finta di nulla, ma è chiaro che non si smette di pensarci e il peggio è che si congettura su come guadagnarsela la prossima volta. Così, tanto per gioco, come una foca che salta ad afferrare il pesce sospeso dall’addestratore. È comprensibile che descrivere la nuova censura della Cina come uno smog, una tortina al fagiolo, o una bella carpa rossa, risulti deludente. Il punto è che, nella potenza non democratica che per la prima volta si appresta a comandare l’umanità, nessuno può oggi sottrarsi alla sua impalpabile, cordialissima e conveniente dittatura. Censura, propaganda e repressione si trasformano nell’immagine unica che un individuo riesce ad ottenere della realtà in cui è immerso e infine di se stesso.
Questa straordinaria Cina inesistente, che vogliamo disperatamente sia un successo e di cui comunque non possiamo più privarci, è il pesciolino pescato per tutti dalla censura: e per la prima volta, da mangime ad uso interno, punta a diventare il nuovo foraggio unico globale. Qualche storia esemplare può servire, per non farsi venire strane idee sulla Città Proibita, ma è il cuore della questione che dobbiamo sentire, da subito, battere: la censura cinese, da strumento di rimozione arcaico, nazionale, ideologico ed etico, sta completando la sua trasformazione in sistema di negazione moderno, internazionale, economico e culturale. In Occidente i casi recenti più amati dalla nostra contro-propaganda, sono quelli che eccitano fantasie cinematografiche, discussioni con parole
incomprensibili, atti né provabili né smentibili, o consolidati modelli spionistici della storia. Il
New York Times
ha appena denunciato un «attacco militare» degli hacker cinesi dopo la rivelazione di uno scandalo che coinvolge il premier uscente Wen Jiabao e la sua famiglia. I pirati informatici di Pechino, per cercare il traditore che ha passato agli Usa le prove della corruzione finanziaria del patrio potere,
per mesi avrebbero violato la rete del giornale e la controversia potrebbe addirittura approdare alla Wto. L’associazione della stampa estera ha rivelato che sono decine i corrispondenti dalla Cina ad essere gratificati dalle medesime attenzioni. In un Paese al 173° posto su 179 per il livello della libertà di stampa, invasioni elettroniche, furti telematici, registrazioni telefoniche e oscuramenti, non risparmiano nemmeno i media del partito.
Una bella ripassatina, per lesa maestà, l’hanno ricevuta di recente anche
Wall Street Journal, Washington Post, Reuters, Cnn
e l’agenzia
Bloomberg,
rea di aver mirato direttamente al nuovo segretario Xi Jinping. La corrispondente di
Al Jazeera,
Melissa Chan, nel maggio scorso è stata la prima, dopo 38 anni, ad essere stata espulsa con il ricatto del mancato rinnovo del permesso di soggiorno. La televisione del Qatar è stata costretta a chiudere la redazione inglese di Pechino e l’anchorman più famoso della tivù di Stato, Yang Rui, ha avuto il buon gusto di definire la collega, in una controllata diretta della prima serata, «puttana straniera». A essere sinceri, Yang Rui, obbediente soldatino del «Dipartimento per la propaganda del partito comunista cinese», ha aggiunto anche che «è ora di fare piazza pulita dell’immondizia straniera». Non l’hanno preso sul serio nemmeno i rivoluzionari nostalgici di Mao, allora non ancora in rotta, ma il segnale lanciato dai leader dei prossimi dieci anni è risultato sufficientemente chiaro.
La Cina è censura e propaganda, altrimenti non è, o diventa un’altra inimmaginabile cosa: questo dettaglio, partito comunista ed esercito non lo consentiranno ed è opportuno che l’Occidente se lo appunti bene in vista, sopra l’elenco dei suoi debiti. In gennaio poi, a Canton, è scoppiato il caso del
Southern Weekly.
Una mattina i giornalisti, tutti iscritti al partito, sono scesi sotto il giornale, hanno denunciato di essere stati obbligati a pubblicare un editoriale favorevole al prossimo presidente Xi Jinping e a stracciare un commento a favore della Costituzione, che già imporrebbe libertà di stampa e di espressione, oltre che
la democrazia. Inaudito, dopo Tiananmen: sciopero, manifesti ripresi in tivù, folla di simpatizzanti, web ribollente e agenti smaniosi di testare i manganelli. È durata un paio di giorni, il tempo che la stella nascente del partito, Hu Chunhua, prendesse le misure ai tempi nuovi della web-community.
Il neo governatore del Guandong ha lasciato gridare e rivendicare, ha rispedito i soldati in camerata, ha rimosso un paio di funzionari troppo zelanti e ha infine «trattato». Rivolta finita: un successo per il potere, un capolavoro per la propaganda. Non senza fretta, come per la quisquilia che in decine di metropoli cinesi respirare è una pretesta «pericolosa per la salute», o che desiderare cibo commestibile è una «prepotenza sovversiva», o che rodersi il fegato vedendo le fuoriserie dei vecchi funzionari gonfie di ragazzine con una naturale predisposizione per il ballo e qualche gioiello è una «degenerazione anticollettivista dell’invidia capitalista», si è concluso che però lassù «qualcosa si muove». Su questo, non c’è dubbio: ma cosa? I passi indietro della censura-propaganda-repressione, le storiche aperture che elettrizzano le no-stop news, sono questi. Cinesi e stranieri vengono convinti a ignorare che il Tibet è inaccessibile da un anno e che si è cominciato a condannare a morte chi «istiga» a darsi fuoco contro Pechino. Nella capitale un residente su cinque è pagato dalle autorità per «controllare e reinventare la pubblica opinione». Il capo della propaganda, Lu Wei, ha organizzato un esercito di 2 milioni e 60 mila «spin doctor», incaricati di «diffondere energia positiva online». Dopo il bisticcio con il
New York Times,
negli Usa sono a rischio 300 mila account di Twitter, mentre tutti gli internauti cinesi che frequentano Weibo, dotati di «patente a punti» in base al tasso di adulazione, sono costretti a registrarsi documento alla mano. Nell’anno del Congresso, le «notizie negative» sono state «sconsigliate». Non si può chiedere perché un treno è deragliato, o perché 34 minatori sono rimasti sepolti sotto una miniera di carbone. Per chi vive qui è umiliante confessarlo: ma ci si abitua alla
«wei-governance», come viene presentata la censura di Weibo, si convive con «l’ecologia di internet », o con la «purificazione dei temi caldi». Non per fare i difficili, ma si stenta a segnalare che centinaia di ideogrammi, anche quasi innocenti come «gelsomino», risultino oscurati causa assonanza irriguardosa, che i nudi delle statue di Michelangelo vengano pudicamente coperti a colpi di pixel
di Stato, o che nemmeno una mezza coscia sfugga all’amputazione morale del film “Titanic”. Per dire: io confesso di aver steso un velo, di ignavia e di repulsione verso le prevedibili finte indignazioni democraticamente corrette, sulla censura delle scene di «Skyfall » in cui i cinesi fanno la parte dei cattivi. Mesi fa, non una parola sulle sforbiciate contro «Men in Black 3», o contro «Pirati nei Caraibi», colpevole di aver presentato cinesi sfregiati e addirittura calvi. A continuare, finirebbe peggio: grazie alla prodigiosa macchina della persuasione, un popolo che corrisponde ad un sesto degli umani sulla terra è convinto che il Nobel per la pace Liu Xiabo sia un terrorista, accetta che da maggio sia sparito l’eroe epurato Bo Xilai, a un passo dal vertice del potere, o trova patriottico che il Nobel per la letteratura Mo Yan non fiati per suggerire libertà di espressione ai suoi connazionali.
Vecchie cronache di un regime, per dinosauri delle Guerre Fredde che ignorano come quando il pezzo sia destinato all’economia, tutto si debba tradurre, con rilevabile ipersalivazione, nelle «dinamiche fisiologiche di una super-potenza in crescita». Per semplicità: la notizia oggi è che la nuova censura cinese non può più permettersi di cancellare la verità solo in Cina, ma ha la missione di negarla lontano, all’estero, ovunque essa provi a nascere, meglio se negli Usa. Colpa dei nuovi media. Non ci sono visti, filtri, tagli, hacker, dottrine e muraglie che tengano: l’affare «New York Times-Wen Jabao » ha aperto un fronte globale sconosciuto, quello oltre il quale Pechino è costretta a spingersi per negare la realtà alla radice ed escludere fisicamente dai fatti chi ha il dovere di descriverli. È la formula di Lu Benfu, mente discreta dell’e-security dell’Accademia cinese delle scienze: «Se non si sa, non esiste. Ma se lo dici a tutti prima di tutti, anche l’inesistente è ovvio». Per questo, a chi vive a Pechino, finisce con il non apparire certo cosa oggi sia la censura in Cina: sarà per lo smog, se c’è, per la scatola rossa, se è arrivata, o per quel pesciolino, ammesso che qualcuno si dia realmente cura di
tenerlo sospeso tra le dita.