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 2013  febbraio 03 Domenica calendario

L’AVVENTURA PERFETTA SULLE ORME DI SHACKLETON


La candida scialuppa in legno con due alberi per piccole vele è posata su ciottoli chiari e la luce delle vetrate ad arco offre un’atmosfera eroica allo scafo. Sulla prua si legge «James Caird». È l’orgoglioso cimelio del Dulwich College, nell’area meridionale di Londra, dove studiò fino a 16 anni e controvoglia Ernest Henry Shackleton, l’eroe dell’Antartide. Da allora la sua vita fu consegnata al mare: da mozzo a esploratore polare. I sei metri e 90 centimetri di uno scafo identico al «Caird» stanno navigando nelle acque gelide e burrascose dell’Atlantico meridionale, allontanandosi dalla costa del continente di ghiaccio e roccia che culmina al Polo Sud. La scialuppa è l’«Alexandra Shackleton», dal nome della nipotina dell’esploratore inglese, e riproduce nei minimi dettagli quella con cui Ernest Henry compì un viaggio della speranza sul confine dell’impossibile: con quattro marinai in 17 giorni colmò le 800 miglia marine (1300 km) che dividevano Elephant Island, ultima terra della penisola Antartica, alla South Georgia, la prima isola abitata a Est della Terra del Fuoco. Era il 1916.

Gli inglesi sono lì. Lo Shackleton di oggi si chiama Tim Jarvis, ha 46 anni e ha compiuto ogni viaggio oceanico immaginabile, compreso quello ai due Poli. Ha scritto degli esploratori inglesi dei primi anni del Novecento e ora si dirige, con cinque uomini di equipaggio, verso la baia di King Haakon, nel suo 10° giorno di mare. La costa, la stessa che accolse di notte con una bufera Sir Ernest 97 anni fa, è a 86 miglia. «Nelle ultime 24 ore - si legge nel diario di bordo - abbiamo coperto 97 miglia, con una media tra i 4 e i 5 nodi». Vento in poppa, dunque. E oceano tranquillo, come può esserlo laggiù, alla fine del mondo, dove vivere è un’impresa. Shackleton non riuscì mai a vedere avverato il suo sogno di gloria, raggiungere il Polo Sud prima, poi attraversare il continente antartico. Ma è un eroe proprio per quella navigazione folle su una delle tre scialuppe della nave «Endurance», imprigionata e stritolata dai ghiacci. Salvò tutto l’equipaggio, i quattro che erano con lui e i 17 che erano rimasti all’Elephant Island. Un’avventura irripetibile? La nipote di Shackleton, Alexandra, ha deciso di onorare il nonno riprovandoci e chiamando uno dei migliori navigatori inglesi, Tim Jarvis.

Tutto come allora, vestiti e alimentazione. Le aggiunte sono le comunicazioni informatiche e una barca a vela di 23 metri, l’«Atlantis», pronta a intervenire «solo in caso di gravi difficoltà» della gemella della James Craig. L’altra differenza è il meteo: Jarvis è per ora stato molto più fortunato di Shackleton. Nessuna burrasca, solo onde capricciose, freddo e un maligno vento traverso. Roba che un «lupo di mare» quale Tim e l’equipaggio fronteggiano senza particolari problemi. Sir Ernest, che aveva raggiunto con le scialuppe e 22 uomini, la costa dell’Elephant Island dopo 498 giorni di navigazione trascinando sul ghiaccio le barche o alla deriva su isole di pak, quando decise di andare a chiedere soccorso («Qui muoriamo tutti, nessuno verrà a cercarci») al villaggio dei balenieri della South Georgia, sapeva che nessuno fino ad allora aveva osato tanto. E a metà del percorso la sua scialuppa bianca fu investita dalla tempesta. Non solo, ma quando mancavano 150 miglia alla salvezza vide un orizzonte strano: sulla linea scura dell’oceano c’era un’insolita «riga bianca». Quella linea avanzò veloce verso la scialuppa e fu un miracolo se il guscio non si sfasciò. «Mai - scrisse poi Shackleton - in più di 20 anni di navigazione negli oceani, avevo visto un’onda di tali dimensioni». Oggi chiameremmo quell’onda l’effetto di uno tsunami, qualcosa che potrebbe essere descritto come «la tempesta perfetta».

Jarvis, lo skipper Nick Bubb, l’istruttore di montagna della Marina Barry Gray, il navigatore australiano Paul Larsen, l’ufficiale della Royal Navy Seb Coulthard e il cameraman Ed Wardle dall’acqua dovranno poi trasferirsi alla terra, anzi, al ghiaccio e alla roccia. Nel 1916 Shackleton raggiunse la South Georgia di notte e le onde lo tennero nella rada contornata da scogli per oltre 40 ore. Quando sbarcò, scoprì che era nella baia King Haakon, dalla parte opposta al villaggio dei balenieri. Il suo equipaggio era allo stremo delle forze, da tre giorni non bevevano, il ghiaccio di un iceberg portato a bordo si era sciolto. L’esploratore prese con sè Tom Crean e Frank Worsley, lasciò il possibile agli altri due uomini che non riuscivano neppure a reggersi in piedi e partì per le montagne: 50 km di lingue glaciali e rocce separavano la baia da Stromness, il porto delle baleniere. Da marinaio ad alpinista, Shackleton compì un’altra impresa, la prima traversata dell’isola. Impiegò 36 ore e poche ore dopo l’arrivo già organizzava il viaggio di ritorno verso Elephant Island per salvare gli altri 17 marinai. Ci riuscì al quarto tentativo (era inverno) con il rimorchiatore cileno «Yelcho». Gli esploratori di oggi seguiranno anche sulla terra le tracce dell’esploratore per concludere l’incredibile cerchio di Shackleton. Omaggio a 100 anni di distanza di un’impresa che all’epoca rimase soffocata dallo scoppio della Grande Guerra e dalla disastrosa spedizione al Polo Sud di Robert Falcon Scott.