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 2013  febbraio 03 Domenica calendario

USTICA, FU UN MISSILE COME DISSE NOSTRO PADRE ORA LO STATO PAGHI


Presi io il telefono. Era mio padre, disse solo: è caduto un aereo. Cominciò così il nostro incubo. Non vediamo l’ora che finisca». Sono passati quasi 33 anni da quella telefonata ma Tiziana, figlia di Aldo Davanzali, proprietario della compagnia aerea Itavia cui apparteneva il DC9 precipitato il 27 giugno 1980 nel mare di Ustica, non la dimenticherà mai. Nei prossimi mesi la Cassazione dovrà pronunciarsi sulla causa civile che Davanzali, morto nel 2005 dopo aver perso azienda e patrimonio personale, presentò dopo il disastro i ministeri della Difesa e dei Trasporti. «Disse subito che era stato un missile - ricorda la figlia -. Non solo non fu creduto, ma incriminato per questo». La recente sentenza che ha condannato lo Stato a risarcire i parenti di alcuni passeggeri per non aver garantito la sicurezza dei voli consentendo l’abbattimento dell’aereo con un missile, ha restituito a Tiziana e a sua sorella Luisa una speranza che l’incubo possa finire «ristabilendo la verità».

Elegante, disponibile, sempre con un paio di occhialoni alla Onassis, Davanzali era un capitano d’industria vecchio stampo, e qualcosa vuol dire se dopo trent’anni gli ex dipendenti ancora lo ricordano con affetto, hanno creato un’associazione e gruppo su Facebook, organizzano rimpatriate e cene con le figlie. Marchigiano, capo partigiano bianco a vent’anni, dopo la guerra studia legge e si specializza in diritto della navigazione. Prende la guida dell’azienda di famiglia - costruzioni, lavori portuali, rimorchiatori - e la allarga al campo turistico. Negli Anni 60 intuisce le potenzialità del mercato dell’aviazione civile: prima charter, poi voli di linea. Nel 1974, quando il presidente della Repubblica Giovanni Leone lo nomina cavaliere del lavoro, l’Itavia ha oltre 850 dipendenti ed è la più importante compagnia aerea privata italiana.

Nel 1980 i dipendenti sono mille, gli aerei dodici, le rotte aumentate. L’Itavia è una realtà aziendale di livello europeo. Ma la sua storia si inabissa con il DC9 nel mar Tirreno. L’Aeronautica militare sostiene la tesi del «cedimento strutturale» dell’aereo e Davanzali viene accusato di far viaggiare «bare volanti». Il ministro dei Trasporti Formica rilascia un’intervista intitolata «Taglieremo le ali all’Itavia».

Davanzali non s’arrende e nomina un pool di esperti che esamina tracciati radar e autopsie concludendo: è stato un missile. Il patron dell’Itavia rende noto l’esito della perizia e scrive a Formica. Viene convocato dalla Procura di Roma, dove entra come testimone ed esce come indagato per «rivelazione di notizie tendenziose ed esagerate». Il pm Giorgio Santacroce (oggi presidente della Corte d’appello) gli imputa «intransigente certezza». Davanzali conferma: è stato un missile. Gli credono in Germania e negli Stati Uniti, ma non in Italia. Il ministero revoca i contributi economici, le rotte e la licenza. Le banche chiudono i rubinetti. La compagnia si paralizza e fallisce perdendo anche gli aerei. «Distrutta - dirà Giuliano Amato in Parlamento - sulla base di una menzogna: un episodio di cannibalismo capitalista da far west».

Davanzali perde anche le altre aziende e il patrimonio personale, con cui aveva garantito i crediti bancari. Ma non si arrende e avvia una causa civile chiedendo allo Stato mille miliardi di lire di danni patrimoniali e morali. La stessa proseguita dalle figlie, dopo la sua morte - ormai nullatenente - con l’assistenza di Mario Scaloni, avvocato e amico. Finora i tribunali hanno riconosciuto risarcimenti all’Itavia (ormai scatola vuota affidata da trent’anni a commissari governativi per pagare i creditori) e ai passeggeri. Ma non a Davanzali, ritenendo il dissesto aziendale indipendente dalla strage di Ustica e quindi non imputabile allo Stato. L’ultima parola spetta alla Cassazione.

«Fu una tragedia - ricorda la figlia -. Per anni sono stata terrorizzata dal telefono, ogni squillo mi sembrava una cattiva notizia. Papà era turbato, ma non lo ricordo mai dare in escandescenze. Il suo testamento non è il desiderio di vendetta, ma la perseveranza. È morto lottando, per quello che poteva fare. Ora lo facciamo noi per lui».