Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2013  febbraio 02 Sabato calendario

MONTAIGNE CI SALVI DALLA REALTÀ VIRTUALE

[Franco Ferrarotti]

Il titolo è esplicito: Un popolo di frenetici informatissimi idioti . Nel suo ultimo libro Franco Ferrarotti attacca il popolo di Google, Facebook, Twitter, quelli che «sanno tutto ma non capiscono niente». Eppure non è un neo-luddista, un nemico delle tecnologie: il nostro contatto per l’intervista avviene via e-mail. Ma da vecchio saggio teme la tecnologia inconsapevole e fine a se stessa. Per lui, fedele all’etimo greco, idiota non è un insulto: significa «cittadino chiuso nel suo privato», cioè con i paraocchi e provinciale. Nato nel 1926, Ferrarotti è cresciuto dietro una zanzariera tra le risaie del Vercellese, dove i genitori avevano un’azienda agraria. Oggi è il decano della sociologia italiana: la prima cattedra fu istituita per lui all’Università di Roma bel 1961. Allievo e amico del filosofo Nicola Abbagnano, per 10 anni lavorò al fianco di Adriano Olivetti, per 5 fu deputato indipendente del parlamento italiano. Ha insegnato negli Stati Uniti, in America Latina, Russia, Giappone. A Parigi ha diretto la Maison des Sciences de l’Homme. Ciampi l’ha nominato Cavaliere di Gran Croce. E’ autore fecondo e lettore vorace, che però distingue, come Roland Barthes, tra écrivants ed écrivains – scriventi e scrittori – e come Albert Thibaudet tra lecteurs e liseurs, cioè “lettori lenti e lettori rapidi”. Lui, ovvio, è un lettore lento, ma nel suo caso la lentezza non ha limitato la quantità.

«Abito a Roma in una vecchia casa di famiglia. C’erano libri accatastati sulle sedie, sui davanzali, per terra, colonne in equilibrio precario. A un certo punto il peso ha messo in pericolola stabilità dell’edificio. Ho dovuto procurarmi nelle vicinanze un appartamento al pian terreno dove ho costretto una parte dei miei libri a emigrare».
Che cosa ricorda tra le sue prime letture?
«Al contrario di mio fratello, che era grande, grosso e rubicondo, ho avuto la fortuna di nascere gracile e cagionevole di salute. Ero quindi inadatto ai lavori di campagna, rimanevo a casa, e la lettura era la mia occupazione preferita. Sono stato un autodidatta, ho dato gli esami di licenza ginnasiale e liceale da privatista, ho studiato l’inglese parola per parola sul vocabolario. Tra i primi libri che mi hanno nutrito spiccano i Dialoghi di Platone, letti però come romanzi di Emilio Salgari. Quelli che mi hanno più colpito sono il Fedro , cioè il dialogo sull’amicizia, il Simposio , sull’amore, e soprattutto l’ Apologia , che narra la condanna a morte di Socrate. Potrei citare a memoria le sue parole quando si rivolge ai giudici: voi questa sera tornerete a casa nel tepore delle vostre famiglie, io vado verso il gelo della morte: solo Dio sa chi abbia scelto la strada migliore...».
Lei ha lavorato con Adriano Olivetti, fondatore del Movimento di Comunità e della sua casa editrice, che proprio in questi giorni è rinata.
«Olivetti ha avuto tre collaboratori stretti. Due furono Geno Pampaloni, critico letterario, e Renzo Zorzi, che si occupò delle Edizioni di Comunità. Il terzo sono io, unico sopravvissuto. Un superstite superteste, potrei dire con un gioco di parole che sarebbe piaciuto ad Adriano. Noi non potevamo concepire una produzione industriale senza nello stesso tempo mettere a disposizione, come parte integrante del salario operaio, una biblioteca. La cultura deve avanzare di pari passo con la produzione. Perché non c’è produzione industriale che abbia senso se non diventa consapevole attraverso la partecipazione di chi lavora. Si parla ancora di operai e impiegati come di dipendenti: non ci deve essere la dipendenza ma l’interdipendenza. Eredi di Comunità furono Luciano Foà e Roberto Bazlen, che sono le radici della Adelphi».
Bollati Boringhieri ha appena ripubblicato «Il posto della scienza» di Thorstein Veblen. Lei dedicò a questo grande sociologo la tesi di laurea...
«Il Veblen importante per me è La teoria della classe agiata , che mi fu messa in mano da Cesare Pavese, carissimo amico, con lui, quando era nascosto a Casale Monferrato, andavo a passeggiare alla Madonna di Crea. Einaudi pubblicò la mia traduzione della Classe agiata il 3 gennaio 1949, il 15 gennaio uscì sul Corriere della Sera una durissima stroncatura firmata da Croce. Ho sempre avversato l’idealismo crociano, che considera la cultura scientifica inferiore a quella umanistica: la cultura è una sola. Croce disprezzava la sociologia, ma devo riconoscere che fu prontissimo nell’accorgersi di quel testo».
Altri «suoi» classici della sociologia?
«Il grande contributo italiano ha i nomi di Vilfredo Pareto e Gaetano Mosca con i loro concetti di élite e di classe dirigente. Ci hanno insegnato che anche in un regime democratico al governo c’è sempre una minoranza che tende ad auto-perpetuarsi. Con un pericolo: quando un governo formalmente impeccabile si auto-riproduce, non è più rappresentativo e scade nella rappresentazione della democrazia. Ci si salva solo tornando a interrogare i cittadini. Di qui il mio gusto per una sociologia su basi antropologiche, economiche, etiche. Multidisciplinare».

Chi sono i suoi poeti e scrittori?
«Non potrei vivere senza poesia. Dante, innanzi tutto. Non il versificatore teologo di certi canti della Commedia ma il Dante della Vita nova : è poesia e commento dell’autore alla poesia in rapporto con la propria vita psichica. In questo anticipa Joyce. Nel Novecento, Giovanni Giudici, Leonardo Sinisgalli, la Spaziani. In prosa un mio classico è Agostino, Le confessioni , dove parla con Dio, ma anche Benvenuto Cellini, La vita , impudica osservazione della cruda realtà. Tra gli scrittori che ho conosciuto, indimenticabile Beppe Fenoglio, che incontrai una sera ad Alba tra un bicchiere di Barolo e l’altro. Di lui amo non Il partigiano Johnny ma quello straordinario documento sociologico che è La malora . E poi quei pochi che sono usciti dalla letteratura fine a se stessa: Primo Levi, Gadda, Ottieri. A noi manca una letteratura operaia espressione delle classi subalterne...».

All’estero è diverso?
«Sì, penso a Steinbeck , Furore , Uomini e topi . Vivo metà del mio tempo negli Stati Uniti: sono stato amico di Faulkner. Una sera a Roma lo vidi scontrarsi con Moravia e Silone».
Ai giovani prigionieri della realtà virtuale che cosa consiglierebbe di leggere?
«I saggi di Montaigne, come esempio di ascolto quotidiano dei propri moti interiori, e Storia di un’anima di Teresa di Lisieux per riscoprire il silenzio e la concentrazione. Si corre sempre più in fretta e abbiamo dimenticato perché lo facciamo. Dobbiamo riscoprire la motivazione del nostro viaggio. Glielo dice un agnostico».