Chiara Beria Di Argentine, La Stampa 2/2/2013, 2 febbraio 2013
SERGIO ESCOBAR, L’ARTEFICE DEL FENOMENO PICCOLO
«C’è più vita in un vagone della metropolitana che in tutti i salotti di Milano», attacca Sergio Escobar, direttore del Piccolo Teatro di Milano-Teatro d’Europa. Nel suo studio, tra una miriade d’oggetti («Sono un feticista!») conserva la Olivetti Lettera 32 con la quale furono battuti i primi contratti a un giovanissimo Giorgio Gaber; alle pareti, tra manifesti di celebri spettacoli, una foto in bianconero ritrae Bertolt Brecht e Paolo Grassi sul palco della sede storica del teatro, in via Rovello, all’ultima replica de «L’Opera da tre soldi».
Un altro mondo. «Nel manifesto del 1947 Grassi diceva che la gente veniva in teatro per riconoscersi. Caro Paolo, ti sono molto grato ma oggi la gente viene a teatro non più per riconoscersi ma per conoscersi. Lo sostengo sulla base dei numeri non della mia passione». Sorride, Escobar, è un buon momento per lui. A Mosca gli hanno appena assegnato per meriti culturali la medaglia Puskin; al Piccolo, dove è arrivato nel 1998 (laureato in filosofia della scienza, per anni alla Scala, poi sovrintendente al Comunale di Bologna, al Carlo Felice di Genova e all’Opera di Roma) grazie ai «brillanti risultati raggiunti» con il geniale direttore artistico Luca Ronconi («Il mio compagno di viaggio»), è stato riconfermato dal cda della Fondazione del teatro fino al 2016. Fenomeno Piccolo. 21 mila 700 abbonati, il 50% giovani sotto i 26 anni: cifre da squadra di calcio di serie A.
E ancora. Spettacoli in 20 diverse lingue, dal cinese all’arabo. «Bella iniziativa? Veramente sono i più richiesti dal pubblico!». Persino nell’orribile 2012 nelle 3 sale (Strehler, Studio e Grassi) il Piccolo ha avuto 271 mila spettatori (più di 300 mila con le tournée). Infine, nonostante i tagli dei finanziamenti pubblici, ha il bilancio in pareggio: «Certo, abbiamo fatto dei sacrifici, siamo scesi da 22 a 20 milioni di euro. Dallo Stato riceviamo 3 milioni, il resto sono soldi privati. Siamo il teatro con l’autofinanziamento più alto d’Europa».
Fine del teatro elitario-ideologizzato e, soprattutto, una valanga di spettatori giovani. «Come lo spiego? Penso che in questo periodo d’incertezze e paure, “la gente” non crede più alle risposte facili o alle rassicurazioni che durano il tempo di un talk-show. Non è una stanchezza superficiale o qualunquistica, ma un ripensamento profondo. Il Piccolo ha percepito in anticipo la degenerazione di una politica e una economia lontane dal reale che usano parole - vedi spread - come sassi lanciati dal cavalcavia. Con la scienza condividiamo la passione per ben altre parole: come “ricerca” e “improbabile”. La nostra sfida è accompagnare il pubblico in un percorso costruito più sulle domande che sulle risposte».
Nel 2002, agli albori della Grande Crisi, il primo segnale della svolta: il successo (40 repliche) di «Infinities», lo spettacolo di Ronconi dal testo del matematico inglese John Barrow; in scena con gli attori un gruppo di ricercatori e studenti del Politecnico. In questi giorni l’ennesima scommessa vinta dal duo Escobar-Ronconi con «Panico», del giovane drammaturgo argentino Rafael Spregelburd, 3 storie che s’intrecciano sulla follia della vita contemporanea. «Sembrava un testo improponibile e, invece, tutte le repliche sono esaurite. Non solo. Giovedì 24 gennaio all’incontro con Ronconi e Spregelburd aspettavamo 70-80 persone. Sono arrivati in 650!», dice Escobar. Ottimo marketing, gran lavoro nelle scuole e nelle università all’insegna del dialogo tra scienza e teatro (dal link con il Politecnico sono nati spettacoli e conferenze dai suggestivi titoli. Esempio: «Qual è la musica delle stelle?», «Si può simulare il futuro di un uomo?»): il fenomeno Piccolo mostra che il rumore di fondo sta cambiando. «Crisi della politica? Non solo per gli scandali», dice dal suo osservatorio Escobar. «I politici hanno perso il contatto con il sentire profondo della gente. Buttano il Paese a investire sul quel che sembra sicuro, ma crea solo insicurezza. Storie come quella del Politecnico dimostrano che la ricerca dell’improbabile è il vero modo per produrre valore e, persino, Pil».