Giorgio Vallortigara, Domenica, Il Sole 24 Ore 3/2/2013, 3 febbraio 2013
LE RAGIONI DI UN SALVATAGGIO [
Perché formiche e ratti cercano di liberare i compagni prigionieri? È un comportamento complesso, ma la spiegazione forse è semplice E potrebbe essere applicata anche all’uomo] –
Il filmato è impressionante (http://www.youtube.com/watch?v=-gkNCvtKfQs). Si vede un animale parzialmente sprofondato nel terreno, come trattenuto da qualcosa, forse legato o impedito nei movimenti da sassi e detriti, che per quanti sforzi faccia non riesce a trascinarsi in superficie. Ed ecco, i suoi compagni si avvicinano, esplorano l’ambiente circostante e poi iniziano a spostare sabbia e pietrisco per consentirgli di emergere. Di che animale si tratta? Scimmie? Ratti forse? Abbiamo appreso l’anno scorso che i ratti liberano i loro compagni imprigionati dentro gabbiette di plastica. Ma no... Sono formiche!
I ricercatori che hanno riferito su questi esperimenti non hanno utilizzato il termine empatia, ma il più neutrale comportamento di salvataggio (rescue behaviour). A differenza di quello sui ratti, lo studio con le formiche (della specie Cataglyphis cursor) non è stato pubblicato su «Science» e non ha sollevato grande interesse nei media.
Non voglio tornare sull’interpretazione degli esperimenti che dimostrerebbero che i ratti provano empatia (per un filmato: http://www.youtube.com/watch?v=nyolz2Qf1ms). L’han già fatto molto bene, tra gli altri, Giacomo Rizzolatti e Gaetano di Chiara, mostrando perché l’interpretazione in termini di empatia sia quantomeno stravagante. Il punto che m’interessa qui è il motivo per cui comportamenti così simili debbano essere descritti in modi così diversi. Ne han discusso Vasconcelos e colleghi su Biology Letters di dicembre (Vasconcelos, M., Hollis, K., Nowbahari, E., Kacelnik, A. Pro-sociality without empathy, Biol Lett. 2012 vol. 8 no. 6 910-912) confrontando i due casi.
Gli etologi distinguono spiegazioni in termini di cause ultime e spiegazioni in termini di cause prossime. I comportamenti dei ratti e delle formiche che cercano di liberare i loro compagni possono essere descritti come finalizzati e intenzionali dal punto di vista delle cause ultime. Ciò perché appare sensato argomentare che un comportamento volto a beneficiare un conspecifico possa, in alcune circostanze, essere vantaggioso per chi lo pone in atto. In questo senso il comportamento è diretto a un fine. L’interpretazione in termini di cause prossime è invece problematica. Le formiche e i ratti mettono in atto un comportamento psicologicamente intenzionale? La nozione d’intenzionalità dal punto di vista cognitivo è isomorfica a quella di progetto (design) dal punto di vista biologico, argomentano Vasconcelos e colleghi. Un’intenzione apparente richiede un agente intenzionale? Sappiamo che in biologia evoluzionistica non è così. L’insetto stecco che oscilla come se fosse mosso dal vento lo fa perché si rappresenta l’attività percettiva del predatore che l’osserva? Non abbiamo bisogno di una tale ipotesi per spiegare il suo comportamento. Parimenti perché dovremmo ipotizzare l’empatia per spiegare il comportamento di salvataggio di ratti e formiche?
Il punto è dimostrare che formiche e ratti davvero comprendono e rispondono allo stato mentale del compagno prigioniero e non, ad esempio, ai segnali che emette. Giacomo Rizzolatti faceva notare che il ratto potrebbe voler liberare il suo compagno imprigionato semplicemente per zittirlo, ponendo termine all’emissione di fastidiosi segnali sonori di stress. Si tratta di un comportamento che non implica in alcun modo comprendere ed esperire empaticamente lo stato mentale del compagno recluso (un po’ come porre termine a una discussione con il partner affinché smetta di alzare la voce non implica il riconoscimento empatico del suo punto di vista). Che accadrebbe, per esempio, se il salvataggio del compagno non fosse accompagnato dal venir meno dei segnali di stress? O, ancor più interessante, se riuscissimo a progettare una condizione sperimentale in cui la liberazione del compagno fosse empaticamente percepita come contraria al suo benessere psicologico? In talune circostanze membri della nostra specie legati ben stretti si dichiarano, seppur gementi, assolutamente felici della loro condizione (anche se magari non vorrebbero protrarla indefinitamente). Non necessariamente apprezziamo l’aspetto emozionale del loro stato mentale (si può empatizzare con valenza positiva o negativa), ma certamente possiamo comprenderlo, ed evitare perciò di liberarli se a loro non fa piacere.
È possibile che si empatizzi sulla base della somiglianza nel comportamento. Ma chiunque osservi il filmato delle pratiche di salvataggio tra le formiche ha la netta impressione che il comportamento di questi animali sia intenzionale (forse, anzi, l’impressione è ancor più convincente con le formiche che con i ratti, confrontare i due video per credere). Sospetto siano in gioco qui due aspetti. Il primo riguarda la dissimiglianza morfologica, che influenza poco la somiglianza di comportamento, possiamo agevolmente percepire animatezza e intenzionalità anche nelle interazioni tra oggetti non antropomorfici come i robot o gli insetti. Ciò spiega forse perché le persone si preoccupino più di Green Hill che delle ditte produttrici di zampironi (a dispetto del fatto che gli zampironi producono gas tossici che eliminano in gran copia anche insetti che non sono più molesti di un cane beagle). Il secondo aspetto riguarda il pregiudizio di ritenere che la vicinanza filogenetica sia una misura della complessità cerebrale, e perciò mentale, di una specie. Una tendenza rafforzata dalla cattiva abitudine di usare espressioni come "specie più (o meno) evoluta". Il sistema nervoso delle formiche non è biologicamente meno evoluto di quello dei ratti, è diverso. Io credo sia utile considerare con attenzione l’evidenza che proviene dagli studi su animali filogeneticamente molto distanti da noi. I modi in cui noi, esseri umani, empatizziamo ci forzano a cercare per queste creature spiegazioni semplici per comportamenti complessi. Ciò è bene. Il passo successivo è quello di considerare la possibilità che spiegazioni semplici si applichino pure a noi, esseri umani.