Giuliano Amato, Il Sole 24 Ore 3/2/2013, 3 febbraio 2013
È TEMPO DI COMPLETARE LA MIA RIFORMA
La vicenda del Monte dei Paschi e della sua Fondazione ha riproposto all’attenzione le distorsioni e le incompiutezze del processo di riforma, che prese le mosse dalla mia denuncia di oltre vent’anni fa sulla "foresta pietrificata" delle nostre banche. L’idea di partenza era della Banca d’Italia e su di essa lavorammo al Tesoro con lo stesso governatore di allora, Carlo Ciampi. Lo sapevamo che l’approdo a cui puntavamo era difficile da raggiungere, per gli ostacoli che avremmo incontrato e per l’ambizione stessa del progetto, che perseguiva due distinti obiettivi. Il primo era trasformare le nostre banche in società per azioni, metterle in condizione di aggregarsi fra loro secondo le regole di mercato ed evitare così che concorrenti straniere più forti e libere ormai di entrare in Italia ne facessero proprie succursali. Il secondo era dar vita a Fondazioni che, inizialmente necessarie come azioniste delle neonate banche spa, si liberassero nel tempo di questo legame e divenissero quelle robuste istituzioni finanziarie non profit, che tanto invidiavamo ad altri paesi. Era dunque, con queste diverse finalità, un processo a più stadi e chissà se dall’uno si sarebbe mai riusciti a passare all’altro. Basti dire che, per far digerire in Parlamento la legge di riforma (la 218 del 1990) Guido Carli, che mi succedette al Tesoro, dovette scrivere che mai le Fondazioni avrebbero perso il controllo delle banche. Era una partenza che negava il traguardo e si dovette arrivare al 1994 perché il vincolo fosse rimosso e si preparasse la strada a quel decreto Ciampi (153 del 1999), che prefigurò nel modo più limpido le tappe e l’approdo. Si stabilì allora che entro quattro anni le Fondazioni perdessero il controllo, diretto o indiretto che fosse, delle banche d’origine. Si stabilì inoltre che, se non l’avessero fatto, avrebbero perso il trattamento fiscale degli enti non profit e sarebbero state addirittura soggette a commissariamento, ai fini della dismissione, da parte dell’autorità di vigilanza. Giuliano Amato
Si indicò nel Tesoro tale autorità di vigilanza, ma si previde che lo divenisse poi l’autorità di tutte le fondazioni, una volta caduto il controllo della banca. Si indicarono i settori dei loro interventi e si previde che nel loro organo di indirizzo ci fosse una adeguata e qualificata presenza del territorio, con particolare riguardo agli enti locali e a personalità con esperienza e competenza nei settori di intervento. Tutto in funzione della loro natura di enti non profit. Il processo era così sui binari giusti. Ci fu per la verità un ulteriore passaggio difficile, a testimonianza dei diversi disegni che ancora si incrociavano sulla materia. La legge finanziaria del 2001 attribuì all’autorità di vigilanza il potere di indicare essa i settori di intervento delle fondazioni e stabilì inoltre che nel loro organo di indirizzo la presenza degli enti locali fosse «prevalente». Ma la Corte Costituzionale nel 2003 dichiarò incostituzionale questa surrettizia "ripubblicizzazione" delle fondazioni. E il cammino riprese. Le fondazioni specializzarono sempre più il proprio personale nella selezione e nella gestione dei progetti da finanziare. Nel frattempo avviarono la diversificazione dei loro investimenti, consentendo così alle banche di allargare il loro azionariato. Ci si accorse presto però che questa seconda cosa era tutt’altro che facile: il mercato tutto offriva fuorché lo zampillare degli attesi azionisti privati, che erano pochi e, quando si trattava di imprese industriali, incontravano un giusto limite di legge, per evitare conflitti di interesse. Avevamo contato sui cosiddetti investitori istituzionali, a partire dai fondi pensione, ma gli italiani erano pochi e i non italiani, da un lato avevano un prevalente interesse ai ritorni di breve periodo, dall’altro destavano in più casi reazioni difensive. Fatto sta ed è che, quando arrivò la crisi del 2007 e venne richiesto alle banche di rafforzare la loro capitalizzazione, la richiesta si trasformò in un appello alle fondazioni, perché concorressero per prime a quella che si presentava come una missione di interesse nazionale, assicurare la stabilità del nostro sistema bancario. Non era certo una missione contra legem, perché ciò che la legge chiedeva loro era che dismettessero non le partecipazioni bancarie, ma le partecipazioni bancarie di controllo. È evidente però che la novità si innestava, deviandolo, sul precedente percorso, perché in questo modo, lungi dal trattare l’investimento bancario come un investimento finanziario fra i tanti, esse divenivano gli investitori di lungo termine, chiamati a condividere gli indirizzi strategici delle banche partecipate (come avrebbero scritto negli anni successivi gli annuali Rapporti dell’Acri, la loro associazione). Quando le fondazioni stentavano a decollare le avevo definite Frankenstein senz’anima. Dopo quest’ultimo passaggio le ho più volte definite dei Giano bifronte, alle prese con due missioni la cui convivenza dava e dà luogo a più di un problema. I numeri ci dicono che le hanno assolte entrambe. Contando su un patrimonio attorno ai 50 miliardi, sono riuscite a investire oltre un miliardo l’anno nell’insieme dei vari settori, di più nei beni artistici e culturali (circa il 30%) e poi via via nel volontariato, nella ricerca, nella formazione, nella salute. Per converso, tra il 2008 e il 2011 hanno messo a disposizione delle banche ben 7 miliardi. È vero che partecipazioni superiori al 50% erano rimaste solo nelle piccole banche, a parte Mps, mentre le altre si collocavano a livelli nettamente inferiori (sino a zero). Rimanendone tuttavia diverse che in più casi erano comunque significative, le fondazioni hanno finito per condividere il destino delle banche, per risentire pesantemente delle perdite che queste venivano subendo e per riorientare così l’interesse dei loro amministratori più sulle stesse banche (e sulle relative nomine) che sul non profit. A quel punto, che vi fossero forti rappresentanze degli enti locali cambiava di senso e non era un senso migliore. È in questa cornice che si colloca il caso Mps. Quand’anche non emergessero comportamenti individuali scorretti o addirittura illeciti, esso appare di per sé come il parossismo di ciò che la riforma aveva voluto evitare e che è invece riemerso o rimasto. La stretta contiguità fra potere politico locale, fondazione e banca (per la verità senza confronti altrove) sino al punto di spingere la fondazione a indebitarsi per mantenere il controllo, poi perso, della banca, ha messo in luce, anche troppo, che questa è una strada sbagliata. E allora i casi sono due: o si torna sulla strada di Ciampi,che porta a separare le fondazioni dalle banche, o, se Giano dovrà restare bifronte, gli organi delle fondazioni li si dovrà ripensare.