Antonio Gnoli, la Repubblica 3/2/2013, 3 febbraio 2013
MARIA LUISA SPAZIANI
[“Andai a vivere da Zolla e Montale si disperò ma ora so che gli amori durano solo nei versi”] –
Una nuvoletta di fumo. La sigaretta che le pende dalle labbra, piccola sfida alle convenzioni. Così mi appare sulla porta di casa la poetessa, Maria Luisa Spaziani. La voce roca, e virile – al punto che con singolare autoironia il giorno prima al telefono mi aveva detto «non sono mio marito» – mi invita a entrare. Con inaspettata ammirazione penso a certi suoi versi:
se sei lontano, se pallidi suoni/dalla terra promessa mi raggiungono,/ ah, si gonfi la vela, prenda slancio/lei, la parola, l’unico mio Dio.
«Amo la parola, mi accompagna e a volte mi perseguita», dice appoggiandosi a un bastone a tre zampe. Fatica a camminare nell’ampio salotto colmo di libri e di carte. Si è da poco lussata tre dita di un piede. «Ero a Cortina, avevo appena finito di scrivere una poesia dedicata a un albero. Esco, passeggio e poi inciampo violentemente contro le radici di un abete ed ecco il risultato». Guardo il piede, avvolto da una comoda pantofola. Poi dico scherzando che forse l’albero si è vendicato dei versi che non ha gradito. Ridacchia. La vendetta non appartiene al mondo vegetale, replica.
E lei, si è mai vendicata nella vita?
«Non nutro un sentimento così basso anche se le confesso che ho provato un sottile piacere nell’immaginare come sia rimasta quella sfilza di poetesse che l’anno scorso ha assistito all’uscita del mio Meridiano».
Sta parlando di tutte le sue poesie che Mondadori ha raccolto?
«Proprio di quelle. So per certo che almeno cinque autorevoli personaggi, di cui non farò i nomi, si sono un po’ guastati la digestione».
Come si dice: schiatti l’invidia.
«Mi consegno alla sua discrezione. Di cosa mi vuole parlare?».
Beh, è lei a dire il vero che dovrebbe raccontarci questa vita così vasta e movimentata.
«Ho cominciato la scalata per i cento anni».
Arretriamo qualche gradino. Suo padre era pasticcere?
«Era un industriale di macchine dolciarie. Con un’azienda florida. Poi la guerra e un socio fetente ci hanno buttato sul lastrico. Giunsero gli anni duri. Cominciò così la mia lotta per la sopravvivenza. Lasciai Torino trasferendomi a Milano. Mi ero laureata su Proust. Ma ero anche un’eccellente stenografa e fui assunta in una ditta di import-export. Andai ad abitare in una stanza non lontana dal Corriere della Sera.
E cominciai a frequentare Eugenio Montale che avevo conosciuto l’anno prima, nel 1949. Adoravo la sua poesia».
Solo quella?
«Sentimentalmente ero legata a Elémire Zolla».
Dove aveva conosciuto Zolla?
«A Torino. Abitava non distante da casa mia. Ogni tanto lo vedevo affacciarsi dalla finestra del palazzo di
fronte. Era un bellissimo giovane taciturno, introverso e dotato di grande intelligenza. Gli anni torinesi con Elémire sono stati fondamentali sul piano formativo. Poi io andai a Milano e lui decise di venire a Roma».
A quel punto fa il suo ingresso Montale.
«Ero lusingata dalle attenzioni di Eugenio. Con lui ho vissuto la grande stagione della cultura milanese».
La sento un po’ reticente.
«Non sono reticente, ho perfino scritto un libro sui rapporti tra me e Montale».
Dove non si capisce chiaramente se eravate o no innamorati l’uno dell’altra.
«C’era una forte suggestione da parte mia. Quanto a lui, credo, fosse ben più coinvolto. E comunque la nostra fu una forma di unione che non saprei definire».
Sapeva di Zolla?
«Tutti e tre sapevamo. E il saperlo non creò complicazioni. Almeno fino al momento in cui decisi di trasferirmi a Roma per raggiungere Zolla. Eugenio si disperò. Cominciò a dire che gli avevo rovinato la vita. Ma lui era legatissimo alla “Mosca”, il soprannome che aveva dato a Drusilla Tanzi».
E lei a quel punto sposa Zolla.
«Accadde qualche anno dopo. Cominciammo una convivenza che durò alcuni anni. Elémire era geniale, ma incapace di trovarsi un lavoro. Avevo stretto amicizia con Carlo Levi e Renato Guttuso e poi con Alberto Moravia. Parlai a quest’ultimo di Zolla e del suo talento. Moravia organizzò una cena con Silone e Chiaromonte che dirigevano
Tempo presente.
E fu così che Zolla divenne redattore di quella rivista. Poi ci sposammo, ma il bello del nostro amore svanì presto».
Vi contribuì la presenza di Cristina Campo?
«Di questa storia non vorrei parlare. Fui io a presentagliela. Chiuso».
Lo dice come se sia stato l’errore della sua vita.
«Non sono errori, è il caso. Con il suo inno alla perfezione Cristina credeva che tutto le fosse garantito da
esigenze superiori. Avrebbe dovuto semplicemente dirmi tutto quello che le stava accadendo. Ma non ebbe il coraggio. Si rese irreperibile».
E lei?
«Può capire come ci si resta. Bruciai le tante lettere che c’eravamo scambiate».
Mi dispiace evocarle dei dolori.
«Non sono più nulla. E poi avevo spalle forti. E una fantastica rete di amicizie tessuta in Italia, in Francia e naturalmente in America dove ero stata con una borsa di studio per alcuni mesi ad Harvard».
Quando andò all’università di Harvard?
«Nei mesi estivi del 1955. Ogni anno Henry Kissinger organizzava dei seminari con 40 allievi provenienti da tutto il mondo. Oltre a me anche Alberto Arbasino
aveva goduto di quell’invito».
E cosa facevate?
«Si assisteva a delle lezioni di politica internazionale, di economia e storia. E si incontravano personaggi autorevoli. L’idea di Kissinger era di preparare una nuova classe dirigente. Ero completamente disinteressata a questo genere di obiettivo perciò frequentavo pochissimo i corsi. Come me, del resto, si comportò Ingeborg Bachmann».
La scrittrice austriaca?
«Proprio lei. Facemmo il viaggio di andata assieme e nel campus condividemmo lo stesso appartamento ».
Che impressione ne ebbe?
«Era una donna intelligentissima, distratta fino all’inverosimile, riuscì perfino a perdermi le chiavi di casa, e molto egocentrica. Pensava esclusivamente alla sua poesia. E non so darle torto, visto il valore dei suoi versi».
«Allora non sembrava. Probabilmente non aveva ancora incontrato gli uomini che l’avrebbero depressa. Ad ogni modo non legammo. In seguito, scoprimmo di essere molto vicine di abitazione nel centro di Roma, ma non abbiamo mai sentito il bisogno di frequentarci. Patii molto per la sua fine tragica».
«Probabilmente provocato da una sigaretta. Seppi che ebbe il corpo ustionato per tre quarti. Sopravvisse per 54 giorni. Fu un calvario terribile. E ripensai ai nostri giorni trascorsi ad Harvard. I legami umani a volte sono un mistero. Anche quelli meno riusciti».
«Ciascuno di noi aveva la possibilità di invitare una personalità esterna all’Università. Non so più chi, ma qualcuno fece venire John Fitzgerald Kennedy. Era uno splendore. Io provai ad invitare Ezra Pound che avevo conosciuto a Rapallo. Ma il poeta era rinchiuso nell’ospedale psichiatrico di Washington».
Non ho l’impressione che quell’esperienza sia stata così formativa.
«Si sbaglia. Fu un’occasione per conoscere un paese straordinario. E poi a vent’anni, io ne avevo 23, il mondo mi apparve molto più grande di quello che avevo immaginato. Ho conosciuto personaggi straordinari – come Borges e Picasso che mi dedicò un ritratto, e lo stesso Pound che andai a trovare al Saint Elizabeth Hospital – e uomini importanti che hanno attraversato
È stata una donna molto corteggiata?
«Una signora non parla dei suoi corteggiatori. Furono diversi: vede non è che lo scrittore italiano sia poi così diverso dal maschio italiano. Il solo che si terrorizzò, per uno scherzo che gli aveva fatto Leone Piccioni, fu Gadda al quale venne fatto credere che a causa di una foto in cui eravamo a braccetto, avrebbe dovuto sposarmi. Entrò in uno stato d’ansia tale per cui con Elémire andammo a trovarlo e dandogli una bomboniera gli dicemmo che ci saremmo sposati. Si rasserenò immediatamente. È stato il più grande e meraviglioso nevrotico che abbia mai conosciuto».
Non solo nevrotico, spero.
«Il più grande prosatore italiano del Novecento. Ed è il solo giudizio che mi sento di condividere con il Gruppo ’63».
Avverto dell’acredine.
«Per me il Gruppo ’63 è come se non fosse mai esistito. Ricordo scontri cruenti con Sanguineti: un pagliaccio, intellettualmente intendo, coltissimo ma senza consistenza poetica. Ho detestato il suo modo di interpretare la cultura. Dannazione! La sua illeggibilità ha portato via lettori alla poesia. Non ce ne è uno del Gruppo che salverei, forse solo l’Antonio Porta degli inizi. Quell’esperienza, così sopravvalutata, è stata una bolla di sapone».
Ci va giù pesante.
«Con la scusa del neocapitalismo e dello svecchiamento culturale hanno intasato le case editrici. Per fortuna che in quegli anni cominciai il mio rapporto con l’Università di Messina».
Una specie di esilio. Cosa insegnava?
«Un esilio bellissimo che è durato 38 anni. Insegnai prima letteratura tedesca e poi francese. Fu Galvano Della Volpe a chiamarmi».
Il marxista Della Volpe?
«Sì, proprio lui che non aveva rinunciato al titolo di marchese. Gli devo grande riconoscenza perché grazie a lui ho trascorso in Sicilia gli anni più belli della mia vita. Alcuni fine settimana, quando non tornavo a Roma da mia figlia, li trascorrevo a casa di Lucio Piccolo. Che periodo!».
Ha una figlia?
«Sì, non si sorprenda: Oriana Lorena. Verso la quale non credo di essere stata una madre tradizionale».
Lo dice come un’autoaccusa.
«Di lei si occuparono mia madre e mia sorella, il distacco che ci fu tra noi è uno dei rimorsi che provo».
«Il rapporto spero sia diventato decente».
Posso chiederle se è figlia di Montale o di Zolla?
«Di nessuno dei due. Ma di una persona di cui mi innamorai dopo che ci lasciammo con Elémire».
Si può sapere chi è?
«No. L’ho amata profondamente, ma le sole tracce di questo amore restano in alcune mie poesie».
Erano fumo quegli amori andati/breve incresparsi di un’onda ribelle. Questo leggo.
«Già, banalmente, gli amori non durano, se non nei versi che gli dedichiamo».