Stefano Bartezzaghi, la Repubblica 3/2/2013, 3 febbraio 2013
BAR SPORT ITALIA
[Invettive, slogan da stadio e persino neologismi In piena campagna elettorale, la politica aggiorna il vocabolario italiano. E con la lingua si fanno strada nuove forme di populismo] –
Nella bibliografia di Stefano Benni, Bar sportè stato sempre considerato un libro di satira sociale, non politica. Forse sarebbe il caso di ripensarci. Opinioni e interiezioni, stigmi e borborigmi della scena pubblica italiana sembrano infatti imboccare tutti la porta di quel fatidico esercizio pubblico. L’opinione che Silvio Berlusconi ha espresso nei confronti di Benito Mussolini, delle sue colpe e dei suoi meriti, è davvero, come ha aggiunto, quella della «maggioranza degli italiani». Sì, ma fra gli italiani da bar. Molti sono i politici che, per i loro modi di esprimersi e anche, lombrosianamente, per i loro volti, prima che nei talk-show sembra di aver conosciuto davanti ai tipici banconi di zinco, fra scodelle di patatine e bicchieri di bianco corretto campari. Ma ora, sottoposti al pungolo agonistico della campagna elettorale, vi accorrono anche leader come quello considerato il più pacato e ragionevole (quel «Li sbraniamo» di Pierluigi Bersani, o la sua spensierata metaforetta sui partiti personali che sarebbero il «cancro della democrazia ») o come il più forbito e umanista, quel Nichi Vendola che dichiara: «Sono considerato l’icona della sinistra da sterminare »...
Ovunque vigono lo spararla grossa, il sopra le righe, il senza pensarci due volte, le mille varianti sui temi immortali del «lei non sa chi sono io» («Anche Falcone fu molto criticato dagli altri magistrati», Antonio Ingroia) o dell’«io non guardo in faccia nessuno » («Il corteo delle salme ha onorato la Resistenza. L’immagine cadente di Fini, Monti, Napolitano e Schifani rappresenta
l’Italia», Beppe Grillo). E chi avrebbe pensato che non la Mussolini delle vajassate ma la fine Anna Finocchiaro, già stimata dagli avversari e concupita da Vittorio Sgarbi, si potesse giocare il Quirinale esprimendo un’idea personale non molto decente sul personale non docente («Stiamo parlando di deputate della Repubblica, mica di bidelle »)?
Un anno fa i populisti avevano fatto il famoso passo indietro. Il populismo in sé era, però, avanzato. In particolare aveva contagiato i tecnici. Giunti al potere per aggiustare le cose e con l’aria di chi ha poco tempo da perdere, costoro hanno presto scoperto il gusto della battuta a effetto, dell’intervento estemporaneo, della smorfia sdegnosa, della lacrima in tasca, arrivando sino alla gaffe scomposta. Sintomi che da noi anche il più distratto degli osservatori sa cogliere al volo. La diagnosi è sempre quella, implacabile: Bar Sport.
Càrdini essenziali e robusti sostengono la semiotica della rissa verbale. Cosmologia: il mondo è diviso in due: noi, quelli che sono nel bar; gli altri, quelli che non ci sono, compreso chi ne è uscito da cinque minuti. Pragmatica della conversazione: la parola spetta a chi se la prende. Parte del discorso di maggior impiego: interiezione (Monti: «Wow!»). Modalità espressiva: o catene paratattiche ad libitum (Berlusconi in tv senza intervistatore in stato vigile) o frasette trancianti (Formigoni: «Incredibile! Monti esalta la “gloriosa storia” comunista del Pd. L’inciucio è fatto», Tweet, 23/1). Grammatica? Opzionale («Siamo compatibili a Bersani senza Monti, incompatibili a Bersani con Monti», Tweet di Rivoluzione Civile, 29/1). Per mettere l’avversario in luce ridicola o comunque sfavorevole è valido, e consigliato, il ricorso al gergo tendente al basso (secchione, sfigato, bamboccione, bandito, paccata), il nomignolo o il doppio senso da Dagospia (Grillo: «Rigor Montis»; Monti: «Berlusconi è il tappo delle riforme» o «Brunetta è professore di una certa statura accademica») ma non va sottovalutata la carica provocatoria dell’improvviso termine elitario (choosy, selettivo, rivolto a giovani inoccupati o precari e proprio per invitarli a non essere snob: loro).
La funzionalità elettorale di questi espedienti pare assicurata da esperti dell’arte della persuasione (lo sono, a giudicare dalle parcelle che sanno farsi corrispondere). Nel traffico di «guru di Obama» annunciati a soccorso di questo o quel protagonista, si è attribuito all’intervento di uno spin doctor il nuovissimo piglio polemico, graffiante e tagliente, del già compassato professore. Dobbiamo pagare un americano, per farci dare l’indirizzo del Bar Sport? E se la tradizione polemica nazionale si accorda ai consigli dei consulenti post-moderni, non c’è via d’uscita? Qual è esattamente il nostro problema? Tutto ciò piace o pare degno a qualcuno, così com’è?
Se si cerca un imprinting forse lo si può trovare nella storia di una lingua che sarebbe anche bellissima ma non a caso è nata con il nome di «volgare».
Ci sono un medico, un prelato, un professore, un uomo di legge (avvocato, giudice, notaio). Cosa hanno in comune? Non è una barzelletta e, se fa ridere, fa ridere come certe cose tristi. In un’Italia del passato, quella in cui le donne non avevano alcun accesso alle professioni, i curatori dei corpi, delle anime, degli intelletti e delle persone giuridiche degli italiani formavano la classe intellettuale egemone. Erano loro i principali utenti e punti di riferimento stilistico della lingua che sarebbe divenuta, con comodo, nazionale. Si acculturavano ancora ampiamente (quando non esclusivamente) in latino e all’epoca (in italiano) si diceva «parlare latino» per intendere: «con chiarezza, con facilità». Il popolo invece era confinato nei mille dialetti e in quanto alla lingua italiana arrancava, nel capire e riprodurre suoni misteriosi e anche un poco minacciosi, con deformazioni (matrimonio «gran-destino» per «clandestino » o «iniezioni indovinose») poi registrate dagli scrittori più attenti agli usi effettivi della lingua (Belli, Manzoni, Gadda, Primo Levi, Calvino; fra i contemporanei, Nove o Sclavi). La lingua prestigiosa era notabilare, nostalgica del latino, lontana dalla terra, dal popolo, dal mondo fatto di cose dure e spigolose.
Dopoguerra, scolarizzazione, boom, tv ed eccoci qui. «La gente mi ama perché faccio i loro stessi errori di grammatica», diceva il giovanissimo Fiorello ai tempi smargiassi del karaoke. Nell’epoca delle comunicazioni di massa, l’élite deve consentire identificazioni e il ruolo di stelle polari della lingua oggi spetta agli intrattenitori: comici, calciatori, personaggi tv, venditori. Dal punto di vista della norma linguistica, pochi scrupoli. Fra i grandi comunicatori italiani degli ultimi decenni vanno annoverati, oltre al tale che siamo stufi di nominare, altri ingegnosi bricoleur della grammatica: Di Pietro, il
povero Funari, Trapattoni, Celentano....
Deve essere squillata la campanella dalla ricreazione, perché dall’Aula magna siamo arrivati al Bar Sport. In quello originario e letterale la chiusura notturna della saracinesca funzionava come il passaggio della spugna sulla lavagna. Le battute del Bar Sport politico-istituzionale lasciano invece tracce, anche perché vengono pronunciate all’esatto fine di occupare quei titoli dei giornali e videografiche dei tg a cui qualche sapienza lessicale ha dato il nome di «strilli». Ma anche lì le lavagne prima o poi si cancellano, la memoria è labile; i protagonisti di oggi sono tutti rottamandi, precari pure loro. Avventizi i clienti, quasi altrettanto i baristi. Eternamente estemporaneo, a restare sarà solo il Bar Sport. Sempre che non si trovi il modo di ritirarne
la licenza.