Sebastiano Triulzi, la Repubblica 3/2/2013, 3 febbraio 2013
WILLIAM KENTRIDGE [A
otto anni gli chiesero cosa volesse disegnare.“Il paesaggio”, rispose Gli domandarono con che materiale e lui disse “carboncino” Oggi che è l’artista più acclamato del mondo ripensa a quanto delle sue origini c’è nelle sue opere:“In fondo prendo solo appunti intorno a un centro senza arrivarci mai] –
ROMA
Sul tavolo sporco di china e carboncino sono posati pochi oggetti: un bicchiere, un pennello annerito, un righello, delle matite di colore scuro, una spatola di ferro. Da un paio di mesi William Kentridge, considerato l’artista sudafricano di maggior rilievo internazionale, ha spostato il suo atelier a Roma, in un’ala dell’Accademia americana: «Il mio studio è come una testa ingrandita. Il primo dei problemi di un artista è liberarsi delle idee prevedibili e familiari: per trovarne di originali è necessario provocarle, tirarle fuori dai loro nascondigli. Ed è così che cerco di far funzionare lo spazio in cui lavoro; pensieri e frammenti vengono trascritti e disegnati in frasi, figure, tratteggi, nella speranza che tutto ciò si trasformi, suggerendo nuove parole e immagini». Sulla parete di sinistra si staglia un monumentale vaso da fiori, seguono alcuni paesaggi del
bushnatìo e un tabellone cartaceo simile a quello dei prezzi delle merci o degli orari dei treni, con rette numerate fatte da stringhe di stoffa. Sono sezioni dell’ultima opera, Il rifiuto del tempo, «nata dall’interesse per la preistoria della relatività» e dalla «resistenza al tempo imposto dall’Occidente »; rappresenta, spiega, «una riflessione sul tentativo di sfuggire al proprio destino» e che il punto di partenza è stata «una storia che mi venne letta da bambino, quella di Acrisio, il nonno di Perseo, a cui predissero la morte per mano del nipote, poi avvenuta casualmente»: una parte di quest’opera, composta da giganteschi metronomi e proiezioni video, è ancora visibile al Maxxi di Roma fino al 3 marzo.
Kentridge mostra un video preparatorio in cui una caffettiera si tramuta in una donna sdraiata, rigorosamente in bianco e nero: «Ho sempre sentito il bisogno di lavorare intorno a un centro vuoto, come quello descritto da Rilke ne La pantera, in cui una pantera va avanti e indietro nella gabbia, come una danza di fili attorno a un centro in cui una potente volontà è stata messa a dormire, abbattuta. Ciò che faccio anch’io è prendere appunti intorno a un centro senza riuscire mai ad arrivarci. La mia città ha fatto lo stesso percorso, è un aggregato di tante diverse migrazioni e dinanzi a questa frammentarietà è necessario ricercare un senso condiviso». Johannesburg, dov’è nato nel 1955, fa da sfondo e da motivo fondamentale dei suoi lavori, che esplorano la tragedia dell’apartheid e il cambiamento sociale del Sudafrica negli anni Novanta che Nadine Gordimer ha definito «l’età dell’interregno». La parte materna della famiglia ha origini germaniche; il padre, Sydney, è stato un famoso avvocato dei diritti civili: «I suoi avi erano ebrei lituani in fuga dai pogrom, approdati in Sudafrica negli ultimi decenni dell’Ottocento», in compagnia di minatori della Cornovaglia, operai cinesi, lavoratori del Mozambico. «Se altre città sono sorte lungo un fiume o su antiche rotte commerciali, la ragion d’essere di Johannesburg risiede nell’impatto di un enorme meteorite, avvenuto circa due miliardi e mezzo di anni fa, che ha fatto inclinare il terreno ed emergere un filone d’oro».
A otto anni i genitori lo iscrissero a una scuola d’arte privata: «Il primo giorno mi chiesero cosa volessi disegnare, risposi: il paesaggio. Non so perché mi venne in mente, non sapevo neanche bene che significasse. E quando mi domandarono quale materiale volessi utilizzare mi uscì fuori la parola carboncino», materiale da cui non si è mai più distaccato. Quale paesaggio un bambino bianco di Johannesburg poteva aver mai visto? «Ricordo un dipinto che i nonni tenevano appeso davanti alla tavola da pranzo, io e mia sorella ci andavamo ogni fine settimana. È un grande quadro, che incarna molte delle questioni sul paesaggio e sul Sudafrica che mi hanno tormentato negli anni. Mi colpiva soprattutto un effetto ottico: attraverso i rami di un albero si vedeva
la montagna sullo sfondo, ma se ti avvicinavi capivi che c’erano solo pezzi di colore giallo e verde dipinti sopra il marrone». Dopo la scuola frequentò Scienze politiche all’Università di Witwatersrand e, una volta laureato, allestì la sua prima mostra. Un fallimento: «Mi sembrava di non aver nulla da dire. Il mio mantra all’epoca era: io non ho il diritto di essere un artista». Nel 1981 si trasferì a Parigi per studiare mimo e teatro, «ma dopo sole tre settimane capii che non sarei mai diventato un attore»; trascorsi due anni tornò a casa, ripartendo dall’industria cinematografica, e «anche in questo campo riuscii a fare fiasco. Non mi restò che ricominciare dal disegno». Queste esperienze non sono state inutili: con le sue videoproiezioni ha reinterpretato l’animazione, con le installazioni ha rielaborato il concetto di narrazione del teatro di ombre. Il ritorno al disegno, e dunque a se stesso, avvenne attraverso una riscoperta: «Andai a vedere la parte più brutta del paesaggio lunare fuori Johannesburg. Mi accorsi che c’era già tutto, pezzi di ingegneria civile uniti con l’ambiente, la combinazione di natura ed elementi antropici».
Il paesaggio in cui Kentridge è cresciuto è quello dei privilegi, tipico dei sobborghi in cui risiedeva la comunità bianca, con i suoi giardini lussureggianti, ricchi d’acqua e d’ombra. L’altro paesaggio, testimone muto delle sue opere, è quello segnato dal veld, sorta di savana arida e monocromatica: «In inverno c’è un sole luminoso e ogni tanto compaiono degli incendi spontanei che rendono la terra nera come la pece. Potresti prendere un foglio di carta, passarlo sopra la sterpaglia bruciata e avresti un disegno a carboncino». Alla fine degli anni Ottanta cominciò la serie Drawings for Projection, animazioni realizzate con disegni a carboncino impreziositi da inserti musicali, dove vengono presentate le vite dell’industriale Soho Eckstein e dell’artista Felix Teitlebaum, a lui somiglianti fisicamente: ancora oggi, sostiene, «disegnare significa riprodurre qualcosa che è me e non lo è. Si può fare un segno su un pezzo di carta, poi andarsene, fare una passeggiata, e quando si torna il segno è ancora lì. Questo dà il senso della connessione e della distanza con il mondo, che è l’elemento fondamentale del processo creativo».
Una delle parti di Johannesburg che più lo attirarono furono i luoghi in cui la terra aveva ceduto formando delle grotte, che restituivano il senso di provvisorietà della città. «Siamo abituati a pensare che colline e montagne esistano per sempre, come metafore dell’eternità. Da noi anche le colline sono provvisorie, quelle che formavano il paesaggio della mia giovinezza non ci sono più; prima sono state scavate e pianeggiate dai cercatori d’oro; nei primi anni Ottanta, quando il prezzo dell’oro salì, vennero ripassate fino a farle sparire». Come l’instabilità, «con tutte le vite che lì si sono ritrovate — indiani, africani, ebrei, afrikaner — anche l’animazione è dentro Johannesburg, nel cuore dell’identità collettiva: ciò che sembrava fisso veniva cancellato, il panorama si trasformava con un movimento lento. Questa precarietà del paesaggio e della città mi hanno condotto verso l’animazione, perché in loro l’animazione si creava da sola, perché tutto poteva essere aggiustato, spostato, cambiato».
Tra gli artisti africani contemporanei riconosce l’influenza di Dumile Feni, il «Goya delle township», artista del carboncino e delle tonalità monocromatiche; e la vicinanza con «l’immaginario visivo» del fotografo David Goldblatt, che definisce un «grande maestro ». Se l’animazione moderna usa un gran numero di disegni, a lui ne servono pochi, tra i venti o i quaranta per un film che dura otto minuti. «Affiggo un disegno sulla parete, di fronte, a una certa distanza, posiziono una telecamera, poi cammino avanti e indietro andando dall’uno all’altra, apportando delle modifiche al disegno e riprendendo due o tre fotogrammi per volta». Si affida a tecniche antiche, come il fenachistoscopio e lo zootropio, rifacendosi a quel modo di narrare la visione che fu essenziale per la nascita del cinema: «Mi aiutano un montatore e un compositore».
L’acqua è spesso protagonista dei suoi disegni, può inondare, inaspettatamente, il paesaggio urbano, le miniere o le campagne sudafricane; famosa è una serie di quadri di miniere con al centro una vasca: «Paradossalmente nelle miniere c’era troppa acqua, per cui veniva pompata fuori, trasformando l’area circostante in cavità sinuose e ogni tanto la terra collassava d’improvviso». Durante l’apartheid, racconta, la sensazione che si potesse essere inghiottiti da un momento all’altro «era il fondamento su cui poggiava il nostro modo di vivere». Per le vasche adopera un blu pastello, davvero bellissimo: «Questa tonalità l’ho trovata in un colorificio di Londra. Riversare d’acqua quel paesaggio arido rappresentava un atto di distruzione oltre che di generosità».