Riccardo Staglianò, la Repubblica 3/2/2013, 3 febbraio 2013
ROBOT [Baxter, Eliza e Marilyn che ci soffieranno il posto] – Così parlò Ned Ludd, che dette il nome al movimento: «Ai fabbricanti di calze e di pizzo dichiariamo che romperemo tutti i telai che producono articoli spuri o che non rispettano i prezzi precedentemente concordati tra imprenditori e lavoratori»
ROBOT [Baxter, Eliza e Marilyn che ci soffieranno il posto] – Così parlò Ned Ludd, che dette il nome al movimento: «Ai fabbricanti di calze e di pizzo dichiariamo che romperemo tutti i telai che producono articoli spuri o che non rispettano i prezzi precedentemente concordati tra imprenditori e lavoratori». Duecento anni fa, in Inghilterra, andavano a processo decine di operai tessili altamente qualificati, rei di aver distrutto le macchine che minacciavano il loro posto di lavoro. E a parte Eric Hobsbawm, che la definì una «contrattazione collettiva per via di sommosse» (che strappò aumenti), i luddisti non hanno mai goduto di buona stampa. Divennero sinonimo di sabotatori che si mettevano di traverso al trionfale incedere del progresso. Però oggi che i robot cominciano a rimpiazzare, oltre ai colletti blu, anche quelli bianchi, una rivalutazione è in atto. E se due secoli fa avessero capito cose che noi fatichiamo ancora ad afferrare? Prima del dibattito, i fatti. Abbiamo a che fare con macchine sempre più intelligenti e a buon mercato. Baxter, dell’americana Rethink Robotics, è un robot che costa ventiduemila dollari contro i centomila medi dei precedenti modelli. E per addestrarlo non serve un ingegnere che ogni volta lo riprogrammi, ma un qualsiasi lavoratore. Eliza è la centralinista virtuale della IPsoft che risponde a email e telefonate. E non si alza mai per andare a fare la pipì. Blue Prism è il software che di recente ha convinto una compagnia telefonica a licenziare quarantacinque operatori di call center per comprare dieci licenze. Matematica elementare: gli umani — sebbene in outsourcing da India e Filippine — costavano alla compagnia 1,35 milioni di dollari all’anno, gli algoritmi centomila. Con quanto risparmiato l’azienda ha assunto dodici persone per mansioni più sofisticate facendo a meno degli altri trentatré. «Nell’ultimo decennio si è rimpiazzata la manodopera con manodopera economica» riassume all’EconomistChetan Dube di IPsoft, «nel decennio che verrà si rimpiazzerà la manodopera economica con gli automi». Pochi ne dubitano. In un paper dell’anno scorso dal titolo Macchine intelligenti e miseria di lungo terminegli economisti Jeffrey Sachs e Laurence Kotlikoff spiegano la transizione. La tecnologia ha sempre modificato l’organizzazione del lavoro. Ma se nel passaggio dalla carrozza all’auto c’era sempre qualcuno alla guida, nelle driverless car che Google sta testando al volante non c’è nessuno. Bye bye tassisti e camionisti. Scrivono: «Abbiamo ridicolizzato i luddisti con l’argomento che il salario medio continuava a crescere in linea con la produttività media. Ma se avessero ragione riguardo al lavoro non qualificato?». Quello tipico dei giovani, sempre più assorbito dalle macchine. Sostituzione che deprime i loro salari, riducendo la capacità di investire sulla formazione. Con il risultato che i loro figli staranno ancora peggio. Se è pessimismo, non soffre di solitudine. Sentite il Nobel Paul Krugman sul New York Times: «Grazie ai robot il costo del lavoro non importa più granché e la manifattura può tornare nei paesi avanzati. Però non è una buona notizia per i lavoratori!». Krugman sta descrivendo il reshoring, l’inversione di tendenza rispetto alla delocalizzazione: se un operaio cinese costava un decimo di un americano, una macchina costa dieci volte meno di un cinese. Meglio ancora, suggerisce l’ex direttore di Wired Chris Anderson, è il quicksourcing: ovvero produrre nel più vicino Messico, anziché in Cina. Con i robot. E i lavoratori in carne e ossa? Un dato che si dava per acquisito, ovvero che due terzi della ricchezza prodotta andassero in salari e un terzo a remunerare il capitale, non è più vero. Nell’ultimo decennio la quota-lavoro americana è scesa al 60 per cento, quando non sotto. Come spiegano in Race Against the Machine Erik Brynjolfsson e Andrew McAfee, quando si parla di perdita del valore del lavoro e di disoccupazione si citano cicli economici, outsourcing, sgravi fiscali e mai l’«impatto delle tecnologie digitali, poco capito e molto sottovalutato». Perché i computer fanno tantissime cose una volta dominio esclusivo degli umani. E se ciò «fa crescere la torta economica generale, lascia alcuni, o anche tanti, in condizioni ben peggiori di prima». Altro che recessione, siamo nella Grande Ristrutturazione, dicono i due economisti del Mit. Ancora Krugman: «Stiamo vivendo un classico dell’economia, un cambiamento tecnologico che favorisce il capitale, ovvero che ridistribuisce i redditi dai lavoratori verso i proprietari del capitale». Le macchine, in quanto mezzi di produzione, ne fanno parte. Sinora il fenomeno è stato trascurato per l’eco di vetero marxismo, ma non è più il caso. Negli anni Settanta la metà degli stipendi finiva nelle tasche del 35 per cento degli americani più abbienti. Oggi in quelle del 10 per cento. Se l’evoluzione tecnologica concentrerà ulteriormente la ricchezza, la situazione potrebbe farsi esplosiva. Apparentemente non per Kevin Kelly. Sull’ultimo Wired il grande tecnologo da una parte constata l’invasione dei robot, dall’altra propone un comitato di accoglienza. Inizia ricordando che la rivoluzione industriale ha fatto fuori in due secoli sette agricoltori americani su dieci. E prosegue preannunciando che «prima della fine del secolo il 70 per cento delle occupazioni attuali saranno probabilmente rimpiazzate da una qualche automazione. La conquista dei robot sarà epica. Toccherà tutti i mestieri. Ed è già iniziata». Ritiriamo fuori le mazze di Ludd? Neanche per idea, tranquillizza il fiducioso Kelly. Per lui il successo arriderà «a chi saprà innovare l’organizzazione del lavoro», in un’inedita «simbiosi umani-robot». Avanzerà sempre qualcosa per noi: «Continuare a inventare nuovi lavori per i robot». Poteva andare peggio, come nei racconti di Philip K. Dick. Ma decisamente anche meglio.