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 2013  febbraio 03 Domenica calendario

SEBBEN CHE SIAMO MONACHE

[“Non fuggiamo dal mondo, semmai è il mondo che bussa alla nostra porta” Ignazia Angelini aveva diciott’anni quando andò a vivere in convento Sulla sua scelta oggi ha scritto un libro Per ribaltare, come ci racconta, gli stereotipi sulla clausura E per dire:“Noi donne siamo sprecate. Anche nella Chiesa”] –
VIBOLDONE (Milano)
«Le lacrime, quante lacrime... », dice madre Ignazia col suo sorriso leggero, misurato, saggio. Quasi cinquant’anni trascorsi fra queste mura dell’abbazia hanno addolcito nel ricordo il pianto improvviso di quella novizia entusiasta ma umanamente spaesata. Le assegnarono un lettuccio nella camerata che era diventata questa nobile stanza della musica, nel vecchio edificio del Priore, fra gli antichi affreschi, qui, sotto il graffito Hic fuit Leonardus che potrebbe essere proprio di mano di quel Leonardo, ma per lei la magia di quel posto era poter intravedere anche di notte, dal finestrone, la facciata della chiesa, «consolazione nei momenti di smarrimento». Tanti? Risponde scegliendo le parole: «Siamo donne. Non siamo angeli misteriosi».
Clausura. Mito potente. Scatenatore di immaginari laici e credenti, romanzeschi e teologici, malevoli e benevoli, tutti fondati sul nulla. «L’icona della donna nascosta, velata, silenziosa e solitaria, in fuga dal mondo, è un mito che purtroppo fa breccia anche nell’immaginazione di tante giovani consorelle. Ma tutta questa idea della solitudine dell’uomo di fronte a Dio è un equivoco, viene dalla cultura romantica, e ancora prima dal pensiero plotiniano... ». Era studentessa di filosofia, nel Mondo, Ignazia Angelini. Prima di scegliere.
Il cancello sul parcheggio è aperto. Il luogo comune della clausura vacilla fin da qui. C’è pure un campanello. Un vialetto di ghiaia. Edifici bassi color ocra, senza pregio, attorno alla chiesa antica. È lei in persona, la badessa Ignazia, ad aprire il portone: «Siamo poche, dobbiamo fare tutto da noi». Dentro, arredi da linda parrocchia, vecchie tele di soggetto sacro, incongrui libri del Touring Club su un tavolino. Dalla cucina, rumore di stoviglie. Squilla a lungo un telefono. Suoni ordinari di qualsiasi comunità senza mistero. La navata romanico-gotica della chiesa risuona dei nostri passi. «Il libro che ha letto è nato qui. Passiamo ore e ore, in chiesa, tra Lectio Divina e Vespro...». Nella luce invernale fioca che cade dal rosone, indica: «Ecco, quello è il mio posto». Una seggiola fra le altre, nella navata sinistra, di fianco all’altare e di fronte all’affresco della Preghiera di Gesù nel Getsemani. «Lo guardo spesso, mentre preghiamo: vede, quei discepoli siamo noi, addormentati di fronte al mistero di Cristo che prega con grida e lacrime lottando contro la necessità della morte». Possiamo fotografarla qui, al suo posto? «No. Sarebbe una falsità. Io non sono mai sola, quando sono qui. Lei è venuto per conoscermi, non è così? Bene, deve accettare che io parli di me solo nella relazione con le sorelle. Lasci perdere quel che immagina sulla clausura: il cuore di questa scelta è vivere sempre, e solo, nella relazione. Costruire tra noi una relazione stabile, in questo mondo di rapporti mobili e smarriti, può essere molto faticoso. Noi non viviamo assieme perché ci troviamo simpatiche, per affinità elettive, ma per sostenerci nel cercare Dio». La monaca è un noi.
Le domande biografiche infastidiscono madre Ignazia. Avrebbe perfino voluto non firmare Mentre vi guardo, il libro che Einaudi le ha proposto e che lei, dopo qualche esitazione, ha scelto di scrivere. Per ribaltare il nostro sguardo confuso. Per far capire a noi, che guardiamo alla clausura, curiosi, alcuni anche morbosi, che invece è la clausura che guarda noi.
Madre Ignazia è una monaca, e viene pure da Monza. Ma la cupa storia del Manzoni nel suo caso si ribaltò da così a così. Fu lei, diciannovenne, una mattina nebbiosa del ’64, a insistere per farsi portare qui, fra i fossi e le marcite di un’umida campagna lombarda, «un luogo impossibile» per un convento. Alla guida della 600 rossa, suo padre non voleva proprio. «Quando scese la sbarra del passaggio a livello mi disse: ecco, vedi, è il Signore che ti manda un segno, torniamo a casa. Io dissi: papà, il Signore ha già scelto». Quei binari furono la soglia simbolica della sua nuova vita: non le grate di ferro. Le inferriate, simbolo stesso della clausura, alimento più che ostacolo alle fantasie dei laici, qui a Viboldone c’erano, almeno in chiesa, fino a otto anni fa. «In questo punto della navata. Impedivano ai fedeli, durante la messa, di vedere le monache. Le togliemmo per un restauro del pavimento. E non le rimontammo più...». Dimenticanza consapevole. «Le grate sono un simbolo equivoco e pericoloso. Il popolo di Dio non può essere diviso mentre prega, il Vaticano II ce l’ha insegnato. E la nostra separatezza, se non la costruiamo dentro di noi come un valore, non sarà difesa da barriere fisiche». A volte farebbero comodo, le grate. «Alla fine delle messe, quando vorremmo restare concentrate nella meditazione, la gente ci viene addosso, ci chiede, un po’ ci soffoca». In verità, il Mondo bussa sempre più spesso alla porta del convento. «La parrocchia non è più un riferimento stabile, i sacerdoti sono pochi e sempre in giro, le canoniche hanno orari rigidi e sono spesso chiuse». La porta del monastero invece si apre sempre. Sono storie, richieste di conforto, di aiuto materiale e morale, drammi di malati, di emarginati, di disperati, a volte duri, sempre umani. A volte invece sono provocazioni, sfide. «Vengono per dirci: ma cosa fate ancora chiuse qui dentro, uscite, vivete nel mondo, tra le sue sofferenze...». Atei irridenti? Il sorriso ora ha una punta d’ironia: «Anche alcuni preti...».
Il Mondo è ambiguo, oggi, col monastero. Lo idealizza, vi cerca conforto, ma ne ha anche fastidio, lo aggredisce. «Vivere nell’orbita di Milano è un grande rischio, si sente il peso di un modello di vita antitetico al nostro». Il convento ne è investito come da un vento del deserto. Bene culturale per le istituzioni, consumo da weekend per i turisti, esotismo intellettuale new age per annoiati, beauty farm dell’anima per coscienze depresse. Il Mondo ha armi destabilizzanti, seducenti. Internet, per esempio, rischia di sfondare là dove la tivù si fermò. «La televisione c’è da tempo, in monastero. Ma non la guardiamo quasi mai, qualche telegiornale mentre laviamo i piatti». Internet invece non si lascia tenere a cuccia. Qui è entrato come tecnologia di lavoro. Le monache benedettine di Viboldone adempiono il secondo corno dell’ora et labora restaurando libri antichi, sono diventate vere professioniste, la biblioteca Ambrosiana si fida di loro, hanno avuto per le mani i codici di Leonardo, digitalizzano le pergamene, sono straordinarie con Photoshop, e le mettono online. «Internet è comodo, utile. Sempre a disposizione, compiacente, seduttivo... Sembra governabile: una email che male fa? Posso leggerla quando voglio... E invece Internet è l’antimonastico per eccellenza. Monaco viene da
monos, che significa unico, integro, autentico. Ma quando “sei su Internet” non sei né unico né autentico, sei solo una parte, una superficie, un’immagine virtuale. Se qualcosa può scardinare la nostra scelta alla radice, è questo strumento». Il Mondo sciaborda alle porte del convento, e il convento vacilla. «Eravamo una sessantina negli anni Sessanta, oggi siamo ventiquattro. Mettiamo nel conto di non esserci più, prima o poi». Rassegnate? «Consapevoli. L’esistenza del monastero non è garantita da nulla. In Cappadocia, culla del monachesimo, non ci sono più conventi ». Il monastero non serve più al mondo contemporaneo? «Ci sono monasteri fortemente identitari, molto legati a movimenti ecclesiali, o guidati da capi carismatici fortemente autoritari, che attirano molte vocazioni. Sopravviveranno meglio di noi. Ma intanto lasciano qualche maceria umana sul loro cammino, ne sappiamo qualcosa noi, che a volte le raccogliamo».
I monasteri degli uomini si sono «ormai clericalizzati », tra frati e preti non c’è più tanta differenza. Ma le donne nella Chiesa non hanno altra scelta. Il loro posto è solo qui. Custodi dello spirito più puro del monachesimo, ma a rischio di «farci trasformare in mummie» dalla «retorica dell’immolazione della donna a causa di Dio». Nel suo libro, madre Ignazia ha parole taglienti per la «tutela gerarchica maschile» sugli ordini religiosi femminili, per «lo sguardo indagatore dei signori di curia», per la condizione sempre più stretta dello «stare sotto i preti». C’è un fermento, nei conventi femminili, che i media interpretano come “femminismo nella Chiesa” ma forse è altra cosa. Madre Ignazia arriva a profetizzare che «le incongruenze esploderanno prima o poi». Ma al solito, quel che il mondo vede del monastero, come se ci fossero ancora le grate, è un’immagine parziale. «C’è dispiacere tra noi per il ruolo delle donne nella Chiesa, è vero. Per un ruolo perduto.
Nelle prime comunità cristiane le donne erano importanti. Del resto, una donna fu scelta per dare l’annuncio della Resurrezione. Poi nei secoli qualcosa è successo, qualcosa non ha funzionato. A noi è rimasto solo il ruolo di “brave bambine” della Chiesa, il fiore all’occhiello dei chierici. Ed è stato un grande spreco». E dunque? «Dunque, se lei immagina cortei di protesta, rivendicazioni, manifestazioni, bene, non accadrà. Il nostro ruolo non è diritto, è grazia. Non si rivendica: si cerca. Il sacerdozio femminile, per esempio. La via è oggettivamente aperta, non vedo ostacoli prettamente teologici. Ma non mi par di vedere che lo avremo presto. Non ci sono le condizioni antropologiche ed ecclesiali. E poi, le donne per prime scadono continuamente nel gregarismo. Ci vorrebbero, radicate nell’oggi, donne coraggiose e appassionate al vissuto della fede, come la Chiesa ne ha avute e non sembra avere più, donne come Chiara d’Assisi, Ildegarde, Caterina, Brigida di Svezia, Teresa...».
Le mani intrecciate, esile, ferma, madre Ignazia fa strada verso l’uscita. Affrescati sotto un arco, volti medievali di donne. «Le hanno dipinte qui perché ammonissero le monache ogni volta che entravano in chiesa. Sono le vergini folli e le vergini sagge della parabola». Difficile distinguere a colpo d’occhio le une dalle altre: altere, severe, belle, si somigliano un po’. Ma solo una di loro ti guarda negli occhi, ferma, interrogativa, con un leggero misurato sorriso saggio, dal suo convento di pietra.