Nello Ajello, la Repubblica 3/2/2013, 3 febbraio 2013
VITTORIO D
[Quando nel ’52 il film di De Sica “Umberto D.” uscì nelle sale Andreotti lo attaccò pubblicamente. Ora spunta dagli archivi un inedito scambio di lettere tra il politico democristiano e il grande regista. Che così difese il suo cinema e il Neorealismo] –
La scena si svolge nel febbraio 1952. Da una parte Giulio Andreotti, un democristiano di trentatré anni, sottosegretario alla Presidenza del consiglio con compiti di supervisione allo spettacolo. Dall’altra parte, il regista cinquantunenne Vittorio De Sica, uno dei nomi più celebri del Neorealismo italiano. Al centro della vicenda si colloca il suo film, da poco nelle sale. Tema: la triste situazione che in Italia tocca agli anziani, ai pensionati. Una denuncia severa, ma di tono sommesso e poetico. Il film — prevedono critici autorevoli — diventerà un classico. Pronostico che Andreotti non può condividere. Per il settimanale della Dc, scrive un articolo in cui si mette in risalto la supposta ignominia anti- italiana racchiusa nella pellicola. Ne scaturirà, oltre che una pubblica polemica, anche uno scambio epistolare tra i due, privato e finora inedito.
«Se è vero che il male si può combattere anche mettendone duramente a nudo gli aspetti più crudi», si legge nell’articolo di Andreotti, «è pur vero che se nel mondo si sarà indotti, erroneamente, a ritenere che quella di Umberto D. è l’Italia della metà del secolo ventesimo, De Sica avrà reso un pessimo servigio alla sua patria, che è anche la patria di Don Bosco, del Forlanini e di una progredita legislazione». E più avanti: «Noi ci auguriamo» che in seguito il regista si ispiri a «un campo più vasto di esperienze, rammentando che ovunque ci sono rivoli di bene che, individuati, fruttificano», e così via.
L’intervento su Libertas fece subito scalpore. S’inseriva nell’instancabile attivismo profuso dall’allievo di De Gasperi fin dall’aprile del 1947, quando presentò alla Costituente un emendamento all’articolo 21 della Costituzione. Il suo intento era di escludere il cinema e il teatro dalle forme d’arte cui veniva consentita «la libertà d’espressione». L’emendamento fu respinto, ma Andreotti non si scoraggiò. Nei sette anni, dal ’47 al ’54, in cui ricoprì il suo incarico, attese al compito di imporre, in ogni opera d’arte, i diritti della fede. Il quadro politico era in movimento. Si era appena rotta l’alleanza governativa fra la Dc e le sinistre, e nel cinema dominava la poetica del Neorealismo. Era urgente adottare contromisure, opponendo un’egemonia cattolica a quella socialcomunista. Lo scontro tra i cineasti e il missionario Andreotti era fatale. Il Neorealismo effigiava la vita. Andreotti celebrava la fede. Da una parte si denunziavano situazioni sociali a volte tragiche, dall’altra si badava al «decoro nazionale ». Su un lato s’invocava la lotta di classe, sull’altro la Provvidenza. Una Provvidenza che si affida volentieri alla censura: l’ufficio andreottiano impone tagli a opere e autori di grande spessore, da Germi a Visconti, da Rossellini allo stesso De Sica. Come nel caso di Umberto D., la cui approvazione viene subordinata all’eliminazione di due scene: quella in cui Maria risponde «è di tutti e due» a chi le domanda chi sia il padre del figlio che porta in grembo; e quella in cui i malati all’ospedale non recitano il Gloria Patri «con la dovuta riverenza ». La commissione si accontenterà poi di una riduzione di quest’ultima scena, come testimoniano i documenti che verranno esposti da venerdì prossimo alla mostra Tutti De Sica a Roma.
L’inedito scambio di lettere — anch’esse esposte all’Ara Pacis — tra De Sica e Andreotti ci offre una visione nitida di quei tempi, trasferendoci in medias res.
L’attacco andreottiano sarebbe molto dispiaciuto alla sua vittima. Il sottosegretario ne era sicuro, anche perché il regista gli aveva espresso in una breve missiva il proprio disagio a partecipare, come chiestogli, a una giuria incaricata di scegliere i film italiani per i festival internazionali. Il suo timore era che fra i giurati figurasse un intellettuale, Vittorio Sala, che non si era «peritato dal disapprovare esplicitamente il riconoscimento attribuito a Umberto D. al Festival cinematografico di Punta del Este». Il premio, precisa De Sica in una prima lettera, «sarebbe dovuto andare, a parere di Sala, a un altro film, non italiano.
Di fronte a simili casi di evidente faziosità, che toccano non tanto un film o un suo regista, ma tutto il nostro cinema, ritengo che l’unico atteggiamento
consentito a un artista sia evitare ogni contatto anche occasionale con i diffamatori della nostra comune fatica».
Queste rimostranze riguardano un episodio minimo a confronto con la stroncatura di Andreotti, che il sottosegretario ritiene opportuno anticipare in copia dattiloscritta a De Sica per prevenirne il disappunto. Nella lettera di accompagnamento si sforza di mitigare la severità dell’intervento da lui stesso firmato sul settimanale dc: «Non ho mancato in ogni occasione di attestare in pubblico e in privato l’apprezzamento più vivo per il suo lavoro. Certamente non come sottosegretario ma come uomo vorrei che lei facesse ancora un passo avanti nel contenuto dei film proprio per aiutare specialmente quei poveri, che non dubito che ami di cuore, a progredire e a farsi una coscienza più solida». Il tutto al fine di raffigurare «una società in cui non si riduca tutto alla lotta spietata fra i ricchi in atto e quelli che ambiscano a sostituirli». Pur nel suo stile soave e capzioso, l’attacco mosso da Andreotti è energico. Un canonico vaticano non riuscirebbe a fare di meglio. De Sica, anche lui molto cordiale, espone con forza le proprie ragioni (qui a fianco il testo di una delle lettere, ndr).
Caro Onorevole, questa è la realtà: così potremmo sintetizzare la difesa del suo lavoro e del Neorealismo. «Non mi è sembrato eccessivo — scrive — che tutte le circostanze fossero contrarie al mio triste eroe. Accade così, nella vita dell’uomo, che alterna giornate tutte fortunate ad altre tutte avverse.
Umberto D., per me, non va quindi considerato alla stregua di un caso limite». Ciò che aveva da dire, De Sica l’ha detto. L’incontro-scontro è un realistico consuntivo degli umori reciproci all’epoca fra governo e cinema. Nel suo libro Ritorno alla censura (Laterza), Vitaliano Brancati traccia di Andreotti, senza nominarlo, un perfido ritratto. Esiste oggi, premette, «un ufficio apposito» per esprimere «l’odio per la cultura». Lo dirige «una persona che mi dicono abbastanza giovane. Nel suo volto, quale appare in fotografia, c’è come un’implorazione d’indulgenza…». È grazie a lui che «il libro in Italia è ancora libero: ma il cinema e il teatro sono già dentro il torchio ». Un altro scrittore, Cesare Pavese, aveva affermato poco tempo prima la preminenza artistica del cinema sulla letteratura, decretando: «Il miglior narratore italiano è Vittorio De Sica».
Umberto D. era ancora di là da venire, e quindi il giudizio si riferiva ai film precedenti, primo quel Ladri di biciclette, noto e apprezzato in tutto il mondo, contro il quale si era scagliato nel 1948 L’Osservatore romano.
L’organo vaticano non poteva accettare che vi venisse effigiata «una Messa dei poveri alla quale intervengono, còlti in atteggiamenti paternalisticamente caritativi, dignitari del clero e pie dame dell’aristocrazia», e arrivava fino a rimproverare le autorità per non averne bloccata la presenza nelle sale. Il che autorizzò Pietro Ingrao, direttore de l’Unità, a inserire De Sica nell’elenco dei grandi “eretici” della storia d’Italia, perseguitati dalla Santa Sede.
Un dibattito così animato sui temi dell’arte e della censura – che abbiamo appena visto incarnarsi in due autentici protagonisti – rientra in un appassionante “come eravamo” degli Anni Cinquanta. Ma rimpiangere quei tempi di guerra fredda e di censura sarebbe eccessivo.