Paolo Mauri, la Repubblica 2/2/2013, 2 febbraio 2013
DANIELE DEL GIUDICE
[“Eccomi qui, davanti al foglio bianco” Le lezioni di un sognatore di fortezze volanti] –
Daniele Del Giudice, dirlo è doloroso, è da qualche tempo andato a vivere in una delle città invisibili di cui parla Italo Calvino. Si chiama Isidora, è una città della memoria e ha la forma di un sogno sfuggente. Daniele ha perduto i suoi ricordi o forse li custodisce in un segreto per gli altri impenetrabile. Tornerà da Isidora? Tutti i suoi amici se lo augurano, mentre aprono ora il suo nuovo libro: una raccolta di scritti, avverte una nota editoriale, lungamente discussa, proprio con lui, nel corso degli anni.
Prendere le giuste misure, questo è sempre stato, credo, il desiderio di Daniele Del Giudice che ha cominciato proprio “prendendo le misure” allo scrivere attraverso un romanzo-inchiesta che ruota intorno alla figura di Bobi Bazlen, l’intellettuale triestino che non volle scrivere. Un paradosso: misurare il vuoto, attraverso un itinerario che da Trieste porta il protagonista a Londra, a Wimbledon. E
Lo stadio di Wimbledon è appunto il titolo del romanzo d’esordio di Del Giudice (1983). Un romanzo che dalla non scrittura porta alla scrittura e non senza pena. Sarà un caso che anche questo nuovo libro si apra con una pagina sullo scrivere? «Eccomi qui, davanti al foglio bianco».
Si intitola In questa luce: qui, scrive l’editore che è Einaudi, «si raccoglie tutto ciò che per Del Giudice fa mania». Dunque la scrittura anzitutto, ma poi anche i luoghi, il volo, le fortezze intese come costruzioni atte alla difesa, torrioni, mura. Insisto: anche qui si tratta proprio di “prendere le misure”, magari subendo il fascino degli architetti che studiano il modo di ritardare l’assalto delle truppe nemiche opponendo una superficie appositamente studiata per questo. «La fortificazione», scrive Del Giudice, «era un tipo d’architettura, ma era anche un tipo di macchina; erano delle architetture- macchina e segnatamente macchine del tempo» in quanto concepite allo scopo di far perdere tempo all’assediante, di logorarlo. Ed ecco l’elenco di alcuni assedi cospicui e memorabili: Ostenda, Louxembourg, la Rochelle, quest’ultimo
durato un anno intero. Dunque tanto vale, sembra dire l’autore, prendere le misure al tempo, che è l’altra e forse più veridica scala con cui si misurano le fortezze e le vite degli uomini venendo a capo di secoli di discussione intorno agli angoli (meglio acuti o ottusi?) e ai lati (pochi o molti, lunghi o corti?). Poi, a chiudere ogni questione, salta fuori, sorride l’autore, un’altra macchina molto più piccola, che si chiama aereo e di colpo tutto cambia, meno i nomi, perché gli aerei armati vengono appunto chiamati fortezze volanti.
Fino a che punto è dunque possibile “prendere le misure” del mondo? Spiando gli scienziati e in particolare i fisici, Del Giudice entra in contatto con la materia che pensa e verifica con la mente che è possibile ciò che non cade affatto sotto i nostri sensi. Per questo, in altro contesto, apprezza le osservazioni di Stevenson sui luoghi che di per sé reclamano certi accadimenti (delitti o simili) e la felicità di Conrad nel trovare un libro che si intitola Indagine su alcuni aspetti dell’arte marinaresca.
Conrad scrisse addirittura saggio sugli “avvisi ai naviganti” e su come li lesse quando era ufficiale in seconda. Gli avvisi ai naviganti sono fuori dalla letteratura eppure sono letti, dice Conrad, con la massima avidità con cui sia mai stata letta la carta stampata.
Ma allora che cosa vuol dire scrivere? Del Giudice ricorda che in Atlante occidentale ha giocato tutto il romanzo sull’anello di Ginevra dove i fisici fanno scontrare le particelle, facendo “vedere” l’invisibile. In quel libro, confessa lo scrittore, ho usato termini scientifici senza spiegarli perché mi piaceva l’effetto delle parole sconosciute. Dunque, potremmo provvisoriamente concludere, le premesse e le cautele nel “prendere le misure” non finirebbero praticamente mai, se non vi fosse il momento in cui si traducono in emozioni e in narrazioni. In questo senso Del Giudice è molto vicino a Calvino: forse il nostro scrittore novecentesco che ha fatto del momento (della ragione) progettuale dei suoi libri una matrice indispensabile che fa tutt’uno col progetto realizzato. Naturalmente, concluderebbe Del Giudice, bisogna che il progetto trovi una adeguata realizzazione, poiché i progetti da soli, in letteratura, non servono a niente.
In questa luce è un libro molto denso e insieme un libro piacevolissimo. Raccomando in particolare la lettura delle tre conferenze sul volo, tenute anni fa all’Ecole des Hautes Etudes. Del Giudice amava volare e pilotare piccoli aeroplani. Nel ’94 aveva dedicato al volo Staccando l’ombra da terra, un lungo racconto che in diversi punti si annoda con le conferenze, dove sono descritti i paradossi e le caratteristiche essenziali del volo. Naturalmente, ricorda Del Giudice, si è volato molto con la fantasia e la letteratura è ricca di imprese aeree. Si volava già due secoli fa, ma tutto cambia quando dal volo verticale delle mongolfiere si passa al volo aereo vero e proprio.
Agli inizi del Novecento, a Brescia, un pilota di nome Blèriot è imprigionato nella sua macchina volante di legno e stoffa a pochi metri dal suolo. Un uomo lo fotografa: si chiama Franz Kafka, ma nessuno lo conosce anche perché non ha ancora pubblicato nulla. Kafka scrisse un articolo su quell’esperienza: tra l’altro conobbe in quella occasione D’Annunzio, che fu portato in volo proprio da Blèriot. D’Annunzio, scrive Del Giudice, non ebbe mai il brevetto da pilota. Ancora una volta il volo è un’occasione per prendere le misure: mai come volando si vive la geografia e ci si è dentro in modo del tutto particolare.
Qui l’autore si diverte a riesumare una vecchia guida francese degli anni Venti che illustra in modo elementare ciò che accade nel volo. Ecco un altro tipo di prosa che non è letteraria, ma di forte impatto sul lettore. Piace allo scrittore, fattosi qui soprattutto lettore, notare l’esattezza del dire e nello stesso tempo la ricchezza di una descrizione per allora inedita. Come quando si parla della visione obliqua (molto più rara è quella verticale) che consente di vedere l’aspetto cubico delle case e dei monumenti: una visione molto più ricca e precisa di quella delle semplici superfici.
Come in Staccando l’ombra da terra anche in queste lezioni compare un mitico pilota scrittore, Antoine de Saint-Exupéry, l’autore del Piccolo Principe, abbattuto nel ’44 da un pilota della Lutwaffe, come si seppe dopo infinite ricerche, davanti a Marsiglia. Secondo Del Giudice il piccolo principe altri non è che l’autore bambino, venuto a chiedergli conto della sua infanzia. «Io credo veramente che con due sole cose il volo abbia a che fare, oltre che con la tecnica: col mito e con l’infanzia». Conclusione suggestiva. Il volo insegna ai piloti a non tener conto di ciò che credono di vedere. È un po’ l’insegna della scrittura di Del Giudice, che prevede un angelo custode per i piloti e nessun angelo per gli scrittori.