Maurizio Crosetti, la Repubblica 2/2/2013, 2 febbraio 2013
FACCENDIERI E PROFESSORI LE TANTE ANIME DI TORINO NEI MISTERI DEL CASO MUSY
[Così il sottobosco politico tenta la scalata alla città] –
TORINO
— Nella tristissima storia del povero avvocato in coma, del killer zoppo e dell’oscuro professore s’incrociano universi in apparenza remoti, galassie che non potrebbero mai sfiorarsi, e invece. Come nelle antiche pagine di Fruttero & Lucentini, La donna della domenica specialmente, ma senza un grammo di quella leggerezza, di quell’arguzia, le molte facce di Torino si specchiano una nell’altra, e la rifrazione che ne deriva è un impossibile, indistinguibile color sporco.
La città dei salotti buoni, archeologica estrazione liberale, e quella delle fogne. La Torino del sottobosco politico, dei faccendieri, dei millantatori, ma anche di quelli che credono sempre in un possibile impegno limpido, con l’ingenuità dei puri: l’aveva, anzi l’ha ancora Alberto Musy, vittima immobilizzata da un anno. La Torino accademica, con il professorone universitario Pier Giuseppe Monateri che dice «era come giocare ai detective», lui che nel video riconobbe al volo il passo asimmetrico del killer, la sua corporatura bolsa, ma lo tenne per sé. Lui, una celebrità nel campo del diritto, perché di legge si sta parlando, di regole e doveri, norme e punizioni: se non rispetta i codici chi li insegna ai ragazzi, chi mai potrà rispettarli?
Eppure, il professorone è colui che scrisse il famoso bigliettino d’insulti a Musy, poi gettato nella carta straccia e finito in un’intercettazione: quasi come nel romanzo.
Il viaggio comincia qui, all’Università, dipartimento di Scienze giuridiche in via Sant’Ottavio. Studenti che sgobbano, vanno e vengono, «il professor Monateri è uno in gamba, una star, fa lezione con l’IPad», dice uno di loro, Federico, uscito a fumare. Il palazzo ha le finestre a ghigliottina e i vetri sporchi, è rosso e beige, pare di Lego. Nei corridoi, tra i colleghi di Monateri c’è meno voglia di dire, e di lodare. Alcuni biascicano che si tratta di un isolato, «un corpo estraneo, mi creda ». Perché non riferire alla polizia che l’uomo col casco gli sembrava proprio il faccendiere Furchì? «Non ero sicuro», rispondeva Monateri l’altro giorno, sulla porta della bella casa in corso Einaudi, prima di portare a spasso il cagnolino nero.
Al civico 13 di via Garibaldi, oltre il portone un cunicolo si snoda su cortili ingombri di biciclette. Qui aveva l’ufficio il killer zoppo, vero personaggio da commedia se invece non fosse una tragedia. Francesco Furchì. Quello che scriveva “Magna Greaca Millegnum” con la “gn”, taroccando insieme nomi, codici fiscali e un’esistenza intera. «Un pazzo che crede alle sue stesse parole e
vive in un mondo virtuale»: non è bellissimo, quando la tua ex moglie ti disegna così. «Ringrazio di essermi svegliata dal mio torpore, anche se troppo tardi», dice la signora Angelina De Mori, impiegata modello alla Regione Piemonte.
Eppure, quel mellifluo e bizzarro individuo («La mattina perdo sangue dal naso, non posso essere stato io a sparare, non so neanche come si fa: sono accuse ridicole, mi sento allibito ma tranquillo») riuscì a incantare politici, avvocati, giornalisti, mentre nel frattempo bazzicava dalle parti della criminalità organizzata. E c’è sempre, sotto traccia, un sentore vagamente razzista.
Persino tra le righe del pm Roberto Furlan si legge, a proposito del Furchì: «Un soggetto calabrese di cui non sono ancora ben note le stabili attività». D’accordo, dottore, ma calabrese che c’entra?
«C’entra, perché costui si presentava davvero come paladino del sud, veemente e senza macchia. Ci ha fregati tutti». Con il solito candore, Giampiero Leo (un politico navigato, non un pivello) tratteggia i confini di un comune abbaglio. «Sono stravolto, dieci volte basito. Furchì era amichevole, accattivante. Ai convegni portava personaggi di prim’ordine, presidenti di regione, rettori universitari, ministri come Mastella e Andò, giudici come Caselli e De Magistris. Possedeva una foga giustizialista esasperata, si scaldava, ripeteva che bisogna mandare in galera tutti i politici del sud». L’ambiguo soggetto ammaliò pure il televolto Michele Cucuzza, un altro che casca dalle nuvole: «Francesco è un amico, mi è sempre apparso persona squisita e affettuosa, quello che leggo è semplicemente incredibile».
Infine c’è lui, Alberto Musy. Travolto ma non corrotto dalla politica degli espedienti più turpi, dalle invidie e gelosie accademiche. In coma da un anno, ma sempre molto più vivo e vero di certi squallidi individui. Lui, con le quattro bellissime figlie che lo aspettano dietro il portone di via Barbaroux 35, un borgo dove le piazzette hanno nomi gentili di antichi mestieri (tipo “Università dei mastri minusieri”, cioè i falegnami), e locali di tendenza s’alternano a piccole botteghe artigiane. Qui una donna, Angelica D’Auvare Musy, non chiede vendetta ma risposte: «Alberto è un uomo buono, un ottimista che non ha mai portato a casa i problemi del lavoro. Quando finiva la giornata giocava con le sue bimbe». Aveva creduto nella politica, si era candidato sindaco, lui avvocato e professore d’Università, e senza scrivere biglietti d’insulti a nessuno. Non aveva considerato il viscido ingombro di certi insetti umani, di certi rottami. Nell’androne della sua casa con le pareti ocra, e il nome scritto sul campanello come chi non deve certo nascondersi, un killer zoppo andò a sparargli in testa in una mattina di marzo. Così accade, a volte, quando universi lontanissimi si scontrano, non generando nuovi mondi ma il nulla.