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 2013  febbraio 02 Sabato calendario

IL NYTIMES PORTA LA CINA DAVANTI AL TRIBUNALE WTO

NEW YORK
IL PIÙ grande giornale americano sfida il governo di Pechino. “New York Times contro Cina”, è il titolo di uno scontro senza precedenti. Che l’editore del New York Times ha pensato di portare a un livello sconosciuto: trascinando la Repubblica Popolare di fronte al tribunale del Wto, l’Organizzazione del commercio mondiale.
CON un’accusa grave ancorché inusuale per un grande organo d’informazione, il presidente della società editrice newyorchese ha esaminato la possibilità di denunciare la Cina per violazione degli accordi sul libero scambio.
Arthur Ochs Sulzberger Jr., ultimo esponente della dinastia che controlla il quotidiano, negli ultimi giorni ha consultato diversi esperti di relazioni Usa-Cina, nonché il Dipartimento di Stato. Hillary Clinton, nella sua ultima conferenza stampa da segretario di Stato, ha fatto un’allusione significativa: «Stiamo lavorando su tante cose, faremo ricorso a diverse opzioni, se qualcosa non cambia».
Di fronte ai ripetuti attacchi cinesi — hacker che hanno violato le email dei giornalisti, spionaggio, censura del sito online — l’editore del principale giornale americano ha deciso di cambiare strategia. In passato le offensive di Pechino venivano trattate con una certa discrezione. Non a caso un’altra grande testata Usa che ha subito cyber-attacchi dalla Cina — il Wall Street Journal controllato da Rupert Murdoch — ha continuato a tenere il profilo basso. Sono dovute passare 24 ore, dopo la rivelazione degli attacchi informatici fatta in prima pagina sul New York Times, e solo allora la società Dow Jones che pubblica il Wall Street Journal ha annunciato a sua volta di essere stata vittima di operazioni identiche. Lo ha fatto quasi a malincuore: Murdoch ha avuto altri affari in Cina e a Hong Kong, in campo televisivo, e può temere pesanti ritorsioni. Le autorità cinesi non scherzano con chi le sfida a viso aperto, e ieri ne hanno dato una prova ulteriore. È toccato alla Cnn subire un blackout di diverse ore sui suoi programmi trasmessi in Cina: la tv aveva “osato” mandare in onda un’intervista proprio sul caso del New York Times.
L’ultima puntata in questa battaglia fra Cina e media americani sulla libertà d’informazione risale all’autunno scorso. In rapida successione, l’agenzia Bloomberg e il New York Timespubblicarono due reportage clamorosi. Penetrando virtualmente dietro le mura invisibili della nuova “città proibita”, cioè il quartiere Zhongnanhai di Pechino dove vivono i leader comunisti, gli scoop rivelarono le ricchezze accumulate dai clan familiari di due leader: 2,7 miliardi di dollari nel caso del premier Wen Jiabao, secondo la ricostruzione del New York Times sulla ragnatela d’interessi affaristici dei suoi familiari. Un impero economico di dimensioni analoghe fa capo a Xi Jinping, nuovo numero uno del regime. Patrimoni non giustificabili con i redditi ufficiali di Wen e Xi come funzionari di partito e di governo. L’aver messo a nudo nei dettagli l’arricchimento privato dei gerarchi comunisti ha scatenato reazioni furibonde. Hacker cinesi hanno violato le email dei corrispondenti del New York Timese di Bloomberg.
Includendo Wall Street Journal e Reuters almeno 30 giornalisti sono spiati, secondo la società di sicurezza e contro-spionaggio informatico Mandiant, a cui si è rivolto il New York Times.
L’azione degli hacker è facilmente riconducibile al governo cinese. Gli esperti della Mandiant hanno riscontrato metodi identici a quelli usati dall’esercito cinese per spiare aziende belliche americane. Ma Pechino continua a negare tutto. Dal ministero della Difesa cinese, fino al portavoce dell’ambasciata della Repubblica Popolare a Washington, ieri c’è stato
un coro di smentite ufficiali. Raccogliere prove sui mandanti dei cyber-attacchi, è impossibile. Ecco perché l’editore Sulzberger ha scelto un approccio diverso. Per il
New York Times l’attacco degli hacker non è l’unico danno. Prima il governo di Pechino ha oscurato il suo sito
per renderlo inaccessibile dalla Cina. Poi ha cominciato a negare visti a diversi reporter del New York Times.
Questi sono atti ufficiali, che Pechino non può disconoscere.
Di qui l’opzione studiata da Sulzberger e da lui discussa con diversi esperti e autorità Usa. Poiché il New York Times è un media globale, la Cina con le sue restrizioni lo sta danneggiando nell’accesso a un mercato importante. È un caso di censura ma anche di protezionismo, come tale potrebbe essere impugnato davanti ai giudici dell’Organizzazione mondiale del commercio. Al Dipartimento di Stato l’ultima parola spetterà a John Kerry, fresco successore della Clinton. Che per ora ha detto di preferire un approccio più “soft”. Prima di arrivare allo scontro, Kerry vuole tentare di ottenere concessioni dai cinesi. Magari come una sorta di “omaggio di benvenuto” al nuovo segretario di Stato. Con la Clinton, molto dura sui diritti umani, i cinesi ebbero un rapporto difficile. Ora potrebbe essere nel loro interesse aprire una stagione di dialogo. Di certo il
New York Times, “sbattendo in prima pagina” l’aggressione informatica, ha alzato di molto la posta.