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 2013  febbraio 03 Domenica calendario

TROPPI LAUREATI TANTI DISOCCUPATI

Ho letto pagine e pagine di giornale sul crollo degli iscritti nelle università italiane. E ho notato che molti opinionisti piangono. Il Bestiario invece ride soddisfatto. Come mai? La bestia che scrive queste righe sarà forse una jena? Ma no, è un signore dal cuore d’oro che non si compiace delle disgrazie di un’Italia che ama. Tuttavia, il calo delle matricole negli ultimi dieci anni, da 338 mila a 280 mila (meno 58 mila) è davvero una sciagura? Proviamo ad andare oltre le apparenze. Anche il sottoscritto è un laureato di tanti anni fa, in Scienze politiche, con il massimo dei voti, la lode e la dignità di stampa grazie a una tesi di quasi mille pagine. Mi concedete un po’ di amarcord? Correva il 1954 e nell’estate avevo preso un’ottima maturità classica. Dissi a mio padre, operaio del telegrafo, e a mia madre, artigiana modista, che mi sarebbe piaciuto andare all’università. Dove? A Torino. Potevo fare il pendolare in treno, alzandomi ogni mattina alle sei. E le tasse di quell’ateneo non erano poi così alte rispetto al nostro reddito famigliare.
I miei genitori non avevano studiato. Papà Ernesto, quinto di sei figli orfani di padre, aveva iniziato a faticare quando aveva appena nove anni e si era fermato alla quarta elementare. La mamma Giovanna, dopo la quinta, all’età di dieci anni era stata messa al lavoro in una pellicceria. Le bambine come lei venivano chiamate “piccinine” perché dovevano imparare a cucire, prima con l’ago in mano e poi con la macchina Singer. Entrambi mi risposero: bene, tu invece andrai all’università!
Lo dissero con orgoglio e, insieme, con un ammonimento. Mio padre lo formulò nel modo seguente. Caro Giampa, siamo disposti a pagarti gli studi a Torino, però devi meritare i nostri sacrifici. Dovrai frequentare con diligenza le lezioni. E affrontare gli esami senza ritardi. Lo vedi questo taccuino? Qui segnerò se rispetti il corso di studi e i voti che prenderai.
Se farai il pelandrone, andrai a lavorare in fabbrica. Per esempio all’Eternit, che sta a un passo da casa nostra. Non è un posto comodo perché lì maneggiano l’amianto, però le paghe sono decenti. Oppure alla Feroce. Sai di che cosa parlo? Certo, gli operai piemontesi chiamavano così la Fiat, il regno di casa Agnelli affidato a un dittatore: Vittorio Valletta. Un colosso industriale pronto per il boom dell’auto, grazie al miracolo economico che stava iniziando.
Decisi di iscrivermi a Scienze politiche perché speravo di fare il giornalista, una professione sognata sin da ragazzo. A Torino era un corso di laurea della facoltà di Giurisprudenza. Gli studenti erano pochi, una cifra surreale vista con gli occhi di oggi: non più di quaranta o cinquanta al primo anno. Ma a frequentare le lezioni eravamo una trentina, non di più. I professori ci conoscevano per nome, come accadeva al liceo. E anche noi li conoscevamo bene.
Mostravano caratteri diversi. C’era il prof dal cuore buono, quello austero, il bizzarro, l’autoritario e scostante. Ma tutti erano docenti super-super, accademici di grande valore, con una sfilza di ricerche e di pubblicazioni alle spalle. Il loro potere sugli studenti era assoluto. E non esitavano a darcene una prova. Insomma erano dei veri baroni, ma di solito dal carattere bonario.
Ne descriverò uno: Luigi Firpo, ordinario di Storia delle dottrine politiche. Aveva 39 anni, alto, possente, profilo da principe rinascimentale, naso adatto alla figura. Ci assaliva con un’erudizione smagliante, ma sapeva essere spiccio, pratico, capace di andare al sodo con un piglio che oggi diremmo manageriale. Aveva un carattere battagliero e lo rivelò del tutto quando cominciò a scrivere per la “Stampa” una rubrica con tanti lettori: “Cattivi pensieri”.
A Firpo piaceva tenere la briglia corta sulla nostra piccola truppa. E volle mettere subito in chiaro com’era fatta la gerarchia. Per subito intendo la prima lezione del suo corso monografico. Dedicato agli scritti giovanili di Carlo Marx sulla “Gazzetta renana”. Tra parentesi dirò che Firpo non era affatto un marxista e neppure un signore di sinistra. Tanti anni dopo, venne eletto deputato per il Partito repubblicano.
Per introdurre il corso su Marx, Firpo presentò a noi pivelli una dotta lezione sull’educazione sessuale dei giovani aztechi. Con una crudezza di dettagli che fece quasi svenire le ragazze della prima fila. Figlie della buona borghesia torinese, avevano scelto Scienze politiche per evitare facoltà pesanti come Medicina («Troppi malati e tutto quel sangue!») o il Politecnico, considerato un covo di secchioni che studiavano ventiquattro ore al giorno e non badavano alle femmine.
A lezione conclusa, chi si alzò a fare una domanda che tutti avevano sulla punta della lingua? Il sottoscritto. Chiesi: «Professore, vorrei sapere che cosa c’entrano gli aztechi con gli scritti giovanili di Marx». Firpo mi rivolse un’occhiataccia: «Quando ti rivolgi a un docente, devi alzarti e restare in piedi». Poi iniziò a interrogarmi.
«Come ti chiami?». «Giampaolo Pansa». «Da quale città vieni?». «Da Casale Monferrato, professore». «Che cosa è successo da voi nel 1630?». «Abbiamo respinto l’assedio degli Spagnoli». Firpo mi trafisse con un’occhiata beffarda: «Tra gli aztechi e Marx non esiste nessun rapporto. Ma oggi ho deciso così per dimostrarvi che qui comando io e faccio quello che mi pare e piace!».
Volete un altro esemplare dei professori che mi hanno condotto alla laurea? Ecco Alessandro Passerin d’Entrèves, aveva 52 anni e insegnava Dottrina dello Stato e Relazioni internazionali. Era stato amico di Piero Gobetti, poi si era conquistato la cattedra di Studi italiani al Magdalen College di Oxford. Parlava uno splendido inglese e nell’aspetto ricordava il duca di Windsor: snello, quasi secco, di sobria eleganza, la cravatta sempre perfetta.
Passerin trascorreva le estati nel castellotto di famiglia: una piccola fortezza al centro di Entrèves, sotto il Monte Bianco. Qui impiegava una parte delle vacanze a scrivere agli allievi lettere oggi impensabili. Ne ho conservata una diretta a me: «Caro Pansa, temo di non aver saputo rispondere in modo adeguato a un’obiezione che Lei mi ha rivolto durante l’anno accademico da poco concluso. Vorrei provare a farlo adesso con queste righe...».
Che cosa hanno insegnato questi professori a un ragazzo di provincia? Prima di tutto a essere se stesso, senza truccare le carte, senza spacciare balle. Erano imbattibili nel fiutare chi bluffava e tentava di fare il furbo nel rapporto con loro, durante gli esami e nel preparare la tesi di laurea. Quindi mi incitarono a dichiararmi senza timore e a dire sempre come la pensavo. E infine che era indispensabile studiare, studiare e ancora studiare. Con un traguardo in mente.
Ricordo un consiglio di Firpo, carico della sua forza aggressiva: «Devi sempre proporti un obiettivo non perseguito da altri. Cerca una strada nuova e non aver paura di percorrerla. Datti il coraggio di osare. Scoprirai che, al di là dei risultati, è un buon sistema per non annoiarsi. Un po’ come succede quando si corteggia una donna» aggiunse sornione.
Poi questo mondo venne spazzato via dal famigerato Sessantotto. Una stagione orrenda che ogni tanto ci offre i suoi cascami. Venerdì, nel comizio fiorentino in coppia con Matteo Renzi, Pierluigi Bersani ha evocato il timore che «il classismo si ripresenti negli studi universitari». Una battuta demagogica della Casta rossa.
Che cosa volete che m’importi se le matricole dell’università in dieci anni sono calate di 58 mila? È fatale che sia così. In Italia esistono 66 atenei, in gran parte inutili e di poco valore. Secondo l’economista Tito Boeri sarebbero addirittura 80. Il risultato di questo caos è già scritto: troppi laureati, tanti disoccupati.