Stefano Bartezzaghi, la Repubblica 1/2/2013, 1 febbraio 2013
LA BABELE ITALIANA
Il Bel Paese, dove il sì suona, diceva quel Tale. Oggi aggiungerebbe che in accompagnamento suonano anche lo yes, lo oui, lo ja, l’arabo na’am, il russo da, il polacco tak, il giapponese hai, il cinese shi, l’albanese po, lo swahili ndiyo ... Ma noi siamo tanto sicuri di ascoltarli?
Che in Italia non si sente affatto parlare solo italiano, lo san tutti. Né la varietà si limita ai tradizionali dialetti locali e alle parlate regionali; esistono anche le lingue delle minoranze etniche, lungo i confini (a nord l’occitano e il francese, il romancio e il ladino, il tedesco; lo sloveno, in Friuli) o in specifiche zone di insediamento, come la Calabria per l’albanese o Alghero per il catalano; in più c’è il caso tutto particolare della lingua rom.
Ma è già dagli anni Ottanta che altre lingue hanno incominciato a giungere entro i confini nazionali sui barconi o per gli altri tramiti dell’immigrazione più o meno clandestina. Parole e inflessioni africane, arabe, orientali, nord-europee, slave (oltre alle spagnole e portoghesi dell’immigrazione latino-americana, linguisticamente meno remote) arrivavano ad arricchire il calderone della babele nazionale. Conseguenze? Poche.
Se ne ha avuta prova qualche tempo fa, quando nelle città sono comparsi manifesti che pubblicizzavano offerte telefoniche per immigrati. La grafica era la solita, ma erano scritti direttamente in romeno, arabo, cinese, eccetera. I passanti italiani erano stupefatti da quelle strane forme o grafie. Sapevano benissimo che una parte non indifferente dei nostri concittadini non parla l’italiano come lingua madre. Ma tenerlo sempre presente è meno immediato.
Ognuno di noi ha contatti con persone delle più svariate provenienze, ma tutte queste persone ci si rivolgono sempre nella nostra lingua, non nella loro: un italiano, più o meno stentato e laborioso, sempre assai volenteroso. È una forma di marketing personale, altrimenti non li ascolteremmo neppure. Così l’occasione di entrare davvero a contatto con le lingue degli immigrati va solitamente perduta. A un tentativo a suo modo coraggioso è dovuto il successo dell’espressione «vu cumprà». Oggi è considerata ingiuriosa, ma venticinque anni fa era un modo quasi affettuoso di riferirsi ai venditori ambulanti che fino ad allora venivano chiamati invariabilmente «marocchini» (di qualsiasi provenienza fossero). Tanto che nell’agosto del 1987, il già affermato Vasco Rossi dedicò la tappa
di Misano Adriatico della sua tournée a un «concerto per i vu cumprà» in cui gli immigrati potevano entrare gratuitamente. L’espressione popolare fu codificata in quell’occasione: è rimasto uno dei pochi casi in cui l’italiano si è sforzato di segnalare la presenza anche linguistica dell’immigrazione. Il risultato non era certo da applausi, ma almeno era uno sforzo. Per il resto abbiamo imparato a ordinare
sushi, sashimi, kebab, falafel, tempura, tabbouleth, hummus, cous cous;
legate a consumi più o meno nuovi sono anche certe parole di provenienza solitamente orientale che si usano nei centri benessere; discipline di tipo ginnico o meditativo aggiungono ancora qualcosa.
Ma la grande parte dei diversi lessici (per non parlare delle sintassi) delle lingue che convivono con la nostra ci è meno famigliare dei nomi svedesi dell’Ikea. Dall’arabo ci sono arrivati la
kefiah,
il
burqa,
gli
hezbollah,
il
minbar(
da non confondere con il minibar; è il pulpito da cui viene guidata la preghiera nelle moschee); lo
hijab
(velo tradizionale delle donne islamiche) da non confondere con lo hijack (sequestro o dirottamento in inglese). Ma sembra erronea la convinzione (condivisa anche da alcuni linguisti) che il giovanile
scialla
(«sta’ tranquillo») possa derivare dal ben noto
insciallah
(in realtà
scialla
parrebbe una variante dell’italianissimo
scialare,
«godersi la vita spensieratamente»).
Abbiamo quindi meno contatti culturali con gli immigrati che vivono in Italia che con i loro antenati, che da lontano avevano fornito all’italiano (per limitarci all’arabo) parole che nessuno xenofobo esita a usare:
algoritmo, arancio, catrame, cifra, cotone, magazzino, melanzana, meschino, quintale, ricamo, tamburo, zafferano.
E persino
ragazzo,
e
tazza,
e
assassino.