Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2013  febbraio 01 Venerdì calendario

IL RUOLO DELL’ALGERIA NEL CONFLITTO DEL MALI

La presa di ostaggi in Algeria si è conclusa nel sangue ed i paesi che hanno visto i propri concittadini fra le vittime levano critiche al governo algerino. Questo è ciò che si sa. Quello che vorrei sapere da lei è se si tratta di critiche genuine. Ho personalmente l’impressione che Stati Uniti, Gran Bretagna ed altri siano ben contenti che, seppure pagando un tributo in termini di vite, il governo locale abbia evitato loro di maneggiare una patata bollente.
Guido Tommei
guido-tommei@libero.it
Caro Tommei, i governi hanno deplorato la morte dei loro connazionali e hanno ceduto alla più elementare delle tentazioni politiche: dire alla pubblica opinione del loro Paese che non avevano, in questa tragica vicenda, alcuna responsabilità. Pochi giorni dopo, tuttavia, il Primo ministro britannico ha avuto il coraggio di elogiare pubblicamente i servizi algerini. Era evidente sin dall’inizio, d’altro canto, che l’Algeria non avrebbe avuto nella guerra del Mali il ruolo dell’osservante neutrale. Non poteva partecipare all’operazione militare francese perché la sua storia non le consentiva di mettere i propri soldati al servizio di un’azione iniziata e comandata dalla sua vecchia «padrona». Ma aveva un vitale interesse alla sconfitta delle forze islamiste contro le quali si è battuta per più di dieci anni, dalla sconfitta del partito di governo nel primo turno delle elezioni politiche del 1991 all’amnistia proclamata dal presidente Bouteflika nel gennaio del 2000. Alla fine di quella lunga guerra civile, il partito dei militari ha vinto e il governo di Algeri, dal canto suo, ha offerto uno spazio politico alle forze islamiche meno compromesse nel conflitto. Ma sulle frontiere meridionali dell’Algeria è cresciuta negli scorsi anni la minaccia dei jihadisti di Al Qaeda. La creazione di uno Stato islamico nel Mali settentrionale rappresenta per Algeri un rischio inaccettabile.
L’attacco contro gli impianti di Is Amenas ha reso la minaccia ancora più concreta. Il gas prodotto in quel sito da tre grandi compagnie petrolifere (British Petroleum, la norvegese Statoil e l’algerina Sonatrach) rappresenta il 12% della produzione nazionale. I proventi del settore energetico sono grosso modo il 20% del prodotto nazionale lordo dell’Algeria. Questa ricchezza ha consentito a un governo autoritario di perseguire politiche sociali che, bene o male, hanno garantito la pace civile del Paese. Anche ad Algeri, come nelle altre capitali arabe, i giovani sono scesi nelle piazze, agli inizi del 2011, ma il governo algerino, come quelli degli Stati del golfo, può sempre, all’occorrenza, tenere a bada con il denaro gli umori ribelli della società nazionale. Non è difficile comprendere perché l’Algeria abbia reagito così duramente a un evento che rischiava di compromettere la sua credibilità di Paese fornitore.
L’Europa preferirebbe un’Algeria più democratica e tollerante. Ma dopo i risultati scoraggianti della guerra libica, la guerra civile siriana e la lunga accidentata transizione egiziana non abbiamo molte scelte. L’Algeria ha interessi conciliabili con quelli dell’Europa, e questo, per il momento, può bastare.
Sergio Romano