Antonella Barina, il Venerdì 1/2/2013, 1 febbraio 2013
TALENT SCOUT - L’UOMO CHE INVENTÒ HEMINGWAY E FITZGERALD
Forse non c’era nessuno, nell’editoria americana degli anni Venti e Trenta, che contasse tanto – e fosse così sconosciuto come Maxwell Perkins. «È ciò che di più vicino a un grand’uomo esista nel mondo letterario», si diceva nella redazione del New Yorker. «Ci sono leggende assiepate intorno a lui come tartufi intorno a una quercia in Guascogna». Così, nei primi anni Quaranta, il prestigioso giornale gli dedicò un profilo tanto lungo da dover essere pubblicato in due puntate. E per un po’ fu conferita a Perkins la dovuta statura nei circoli culturali newyorkesi, che poi si dimenticarono di lui.
Finché un giovane ossessionato da Francis Scott Fitzgerald non entrò, trent’anni dopo, all’Università di Princeton. Era stato battezzato Andrew «Scott» Berg proprio in onore di quell’idolo di famiglia; aveva trascorso l’adolescenza a leggere e rileggere Il grande Gatsby, aveva scelto Princeton proprio perché era stato il campus del suo autore prediletto. Berg compulsò i documenti d’archivio sul grande romanziere e si imbatté subito in Maxwell Perkins, l’uomo che lo aveva scoperto, pubblicato, incoraggiato, condotto per mano durante la stesura del Grande Gatsby. Come aveva stanato un altro giovane sconosciuto, Ernest Hemingway, fiancheggiandolo fino al successo: tanto che Il vecchio e il mare è dedicato proprio a Perkins. Così su quel promotore di talenti Berg scrisse la propria tesi di laurea. Che pubblicò nel ’78, vincendo il National Book Award.
Ora quella biografia esce finalmente anche in Italia, Max Perkins. L’editor dei geni: un ritratto accurato e affettuoso dell’uomo che ha inventato il ruolo moderno dell’editor, con licenza di intervenire nell’ideazione, costruzione, stesura dell’opera. Un profilo pieno di dettagli curiosi sul mondo della scrittura e dell’editoria. Che fa da apripista a un film in programma l’anno prossimo, destinato a rilanciare anche tra il grande pubblico la figura di Perkins: Genius di Michael Grandage, pluripremiato regista teatrale inglese, con Colin Firth nei panni del grande editor e Michael Fassbender in quelli di Thomas Wolfe, uno dei suoi scrittori più amati (Wolfe, penna esuberante e poetica che ispirò Kerouac e la Beat generation per poi appannarsi nell’oblio: da non confondersi con il Tom Wolfe del Falò delle vanità). Mentre ancora non si sa chi impersonerà Hemingway, Fitzgerald, le figure femminili intorno a tanti geni e sregolatezze. Ma la sceneggiatura è pronta, firmata John Logan, griffe di filmoni come il Gladiatore, Hugo Cabret e l’ultimo Bond, Skyfall.
Consulente: il biografo Berg, che qualche anno fa ha anche vinto il Pulitzer per il suo ritratto dell’aviatore Lindbergh. E oggi racconta: «È dall’uscita della mia biografia di Max Perkins, nel ’78, che si pensa a un film su di lui. Allora si scelse Paul Newman come protagonista, ma il progetto sfumò. Come ne sfumarono altri nel corso degli anni, compreso quello del regista Lawrence Kasdan, che, doveva avere Sean Penn nella parte dell’editor. Sono stato io, ora, a proporre Colin Firth: intelligente ed elegante come Perkins, dotato come lui di self control, calmo fuori, infuocato dentro. Perfetto nel ruolo, come Fassbender in quello di Wolfe: un attore poliedrico a rappresentare un artista dalle molte sfumature».
Il rapporto tra editor e scrittori è un soggetto insolito per un film: leggere e correggere manoscritti è un’avventura intellettuale di scarso glamour hollywoodiano... «In primo piano», spiega Berg, «sarà la relazione umana tra Perkins e Wolfe – storia di un’amicizia maschile complessa e tormentata – e il loro impegno professionale rimarrà sullo sfondo». Curiosa è anche la scelta di privilegiare il poco noto Wolfe, anziché Hemingway o Fitzgerald, spettacolari e mondanamente intriganti. «Wolfe fu il figlio che Perkins desiderava da sempre (aveva cinque figlie femmine) e trovò in Perkins il padre forte che non aveva mai avuto: un sostegno nei suoi devastanti attacchi di sfiducia, un confidente nel suo amore estenuante per una donna sposata e più anziana, una fonte d’ispirazione letteraria. Finché la gratitudine non diventò bisogno di uccidere quella figura paterna. E fu il dramma». Berg continua: «Il legame tra Perkins e altri scrittori non fu mai così intenso e drammatico. Benché fondato su stima e amicizia: ci sono scene nel film in cui l’editor, rigorosamente in abito grigio e gilè, pesca con Hemingway nell’Atlantico. E scene in cui cerca di rimettere insieme i frantumi di Fitzgerald, sgretolato dall’alcol e dalla dissipazione».
Nato a New York nel 1884, Perkins debuttò come reporter del New York Times (lavoro che lo annoiava), quindi entrò alla Scribner, casa editrice tradizionale e rispettabile, che in catalogo aveva testi come La saga dei Forsyte di Galsworthy o l’opera completa di Henry James e Edith Wharton: scrittori navigati che non avevano bisogno di editing. Fu lui il primo a imporre (e portare alle stelle) giovani autori sorprendenti. A partire dal ventitreenne Fitzgerald, il cui primo manoscritto venne respinto da tutti tranne che da Perkins: a forza di suggerimenti e ristesure nacque Di qua dal Paradiso, 20 mila copie in una settimana, e fu una raffica di consigli audaci a garantire al Grande Gatsby la sua genialità.
Intanto Fitzgerald presentava a Perkins un ventisettenne focoso, tutto alcol, viaggi e corride, che gli inviava un manoscritto, E il sole sorge ancora, farcito di parole scurrili e «dialoghi che crepitavano di oscenità». Fu l’editor a convincere Hemingway a espurgarne il linguaggio: il romanzo disgustò alcuni lettori, ma divenne un bestseller (e Addio alle armi svettò ancora di più). Così come la carriera di Wolfe, scrittore oceanico, fu lanciata solo dopo che Perkins aveva trascorso mesi a fargli tagliare le oltre mille pagine originarie di Angelo, guarda il passato, discutendo ogni modifica, fino a eliminare 90 mila parole.
«Ciò che fece di Perkins un editor straordinario fu la capacità di tirare fuori il meglio di ognuno di loro, senza mai imporre il proprio stile. Limitandosi a suggerire con fugaci stimoli titoli, trame, architetture, dialoghi», ricorda Berg. «Nonché la sua sagacia nell’incoraggiare i propri autori, più insicuri di quel che non si immagini: Fitzgerald aveva un complesso d’inferiorità nei confronti di Hemingway che, pur macho e arrogante, era gelosissimo di lui. Non solo. Perkins era il confidente che ascoltava per ore i drammi d’amore di Wolfe, senza mai parlare di sé. L’amico generoso che anticipava denaro a Fitzgerald, scialacquatore nell’alcol. Il cacciatore di libri che andava a caccia di selvaggina con Hemingway parlando solo di letteratura. E nel rapporto con lui emergono umanità insospettate: si scopre con che serietà affrontasse la scrittura un playboy ubriaco come Fitzgerald; come sapesse essere dolce e gentile un burbero presuntuoso come Hemingway...»
Tutt’intorno, una schiera di autori minori, ma pur sempre da centinaia di migliaia di copie, come Marjorie Rawlings, Pulitzer per Il cucciolo, o SS. Van Dine, allora il più celebre giallista americano dai tempi di Poe. Quando Perkins morì nel ’47, a 63 anni, era ormai un mito nel mondo editoriale: aveva trasformato il ruolo dell’editor, un tempo correttore della punteggiatura (o poco più), in colui che sa quali libri pubblicare e come renderli pubblicabili. Eppure Perkins morì solo e logorato dall’alcol, leitmotiv della letteratura americana da Poe a Faulkner a Bukowski. Passando ovviamente per le creature letterarie di Perkins: Fitzgerald, Hemingway, Wolfe...
Antonella Barina