Lorenzo Moscia, il Venerdì 1/2/2013, 1 febbraio 2013
LA NUOVA IRA DI BELFAST QUINDICI ANNI DOPO QUEL VENERDÌ SANTO
BELFAST. Da almeno otto settimane manifestanti avvolti nelle bandiere Britanniche marciano per le strade di Belfast. La provocazione è iniziata il 3 dicembre, quando si è deciso di ammainare la Union Jack dalla City Hall e di issarla solo 18 giorni all’anno: per la vittoria di Nelson a Trafalgar, per la resa dei tedeschi durante la seconda guerra mondiale e per i compleanni della Regina Elisabetta II e dei membri della famiglia reale (inclusa l’ultima arrivata Kate Middleton, neo Duchessa di Cambridge).
Questa vittoria dei nazionalisti indipendentisti repubblicani ha ovviamente rappresentato una sconfitta per i lealisti britannici. Le loro proteste sono iniziate in modo pacifico, ma si sono presto trasformate in guerriglia urbana contro la polizia e i residenti cattolici, come ai tempi dei Troubles. Ma mentre negli anni Settanta erano soprattutto i cattolici a scontrarsi con l’esercito britannico ora sono i protestanti a battersi con la polizia. E finora ci sono stati più di 100 agenti feriti.
Dagli accordi di pace di Belfast (1998) abbiamo assistito a periodiche ricadute di violenza: nel 2002 per le strade ci sono stati attacchi con missili. Anche se ora il motivo è nuovo (il ritiro della bandiera britannica), le ragioni di fondo sono sempre le stesse. C’è un settore radicale del lealismo che non accetta gli accordi e vive nel passato. Così come esistono settori dissidenti nelle file repubblicane. Per più di trent’anni l’Irlanda del Nord ha bruciato per la violenza degli scontri tra cattolici repubblicani e protestanti lealisti. Ogni gruppo aveva un braccio armato, L’Ira (Irish Republican Army) per i repubblicani e Uvf (Ulster Volunteer Force) per i lealisti: 3628 morti tra attentati, esecuzioni e scontri.
Per Adam Petterson giovane protestante e assiduo frequentatore della protesta «la storia della bandiera è solo una scusa, siamo arrabbiati perché non hanno investito neanche un soldo nei nostri quartieri, così come hanno fatto nei loro». Già colpita profondamente dalla crisi finanziaria, l’Irlanda del Nord ha un tasso di disoccupati alto. Più del 21 per cento tra i giovani in età compresa tra 18 e 24 anni. E sono proprio loro i nuovi protagonisti della violenza per le strade di Belfast. Secondo Time queste nuove proteste sono già costate 40 milioni di sterline, soprattutto di mancati guadagni nel settore del turismo. Peter Robinson, protestante e primo ministro nordirlandese, e Martin McGuinness, cattolico, vice primo ministro, ex membro dell’Ira, hanno affermato in coro di essere contrari alla violenza, ma di non riuscire a trovare una soluzione. Secondo i lealisti, la bandiera è solo l’inizio di un processo di erosione dell’identità britannica, dovuto soprattutto al fatto che in Parlamento i nazionalisti hanno 24 seggi contro i 21 dei lealisti. Secondo l’ultimo censimento i protestanti sono in diminuzione: dal 53 per cento del 2001 al 48 del 2011, e si crede che nel giro di una decade la componente cattolica si rafforzerà ancora.
La violenza si è sparsa anche in altre città, inclusa Londonderry (secondo i protestanti, o Derry secondo i cattolici), teatro nel ’72, della «domenica di sangue», il Bloody Sunday, quando un battaglione di paracadutisti dell’esercito britannico aprì il fuoco su una folla di cattolici uccidendone quattordici.
A pochi giorni dalla commemorazione del 30 gennaio, sono apparse per le strade di Derry bandiere del reggimento inglese. Il clima è pesante. Gerry Adams, il presidente dello Sinn Féin, il braccio politico dell’Ira, dopo aver visitato le case cattoliche prese a sassate dai lealisti, ha detto che dietro i gruppi violenti si nasconde l’Uvf, con lo scopo di minare il processo di pace.
Gerry Conlon, 58 anni, è cresciuto in Lower Falls, quartiere cattolico di Belfast. Venne considerato uno dei quattro attentatori che nel 1974 fecero saltare in aria un pub a Guilford, nel sud di Londra, provocando 11 vittime. Ha scontato 15 anni nelle carceri inglesi e ha visto morire suo padre dietro le sbarre: lo aveva raggiunto a Londra per aiutarlo, fu accusato di complicità nella strage.
L’ingiustizia da lui subita è stata portata sul grande schermo nel 1993 da Daniel Day Lewis protagonista del film Nel nome del Padre, di Jim Sheridan. Dice: «Ai tempi dei troubles andavamo a tirare sassi all’esercito inglese per divertirci. Me ne fregavo della politica e della religione, ma sapevo che non potevo andare a Shankill (la strada adiacente a Falls Road a prevalenza protestante) perché mi avrebbero ucciso. Vivevamo emarginati e ancora si vive così a Belfast».
Vuol dire che anche oggi la città vive divisa tra i due gruppi? «Io non posso andare a prendermi una birra a Shankill perché non ne uscirei vivo. A lei cosa sembra? Personalmente credo che la violenza non finirà mai. D’altronde, io per quello che mi hanno fatto non posso perdonarli. Gli agenti che mi hanno torturato, e i giudici che mi hanno condannato, sono stati tutti decorati e hanno raggiunto i massimi livelli nelle loro professioni». Poi venne fuori la verità... «Quando i veri colpevoli furono arrestati, confessarono fornendo una quantità enorme di dettagli. A quel punto, era il ’77, fu chiaro a tutti che noi non c’entravamo niente, ma il giudice continuò a sostenere la nostra colpevolezza. Dopo l’uscita del mio libro e la nomination agli Oscar del film, ho subito anni di abusi e provocazioni: ho toccato il fondo. Ho seriamente pensato di togliermi la vita, cosa che in carcere non mi era mai passata per la mente. Lì avevo uno scopo: riabilitare il mio nome e quello di mio padre; ma una volta fuori, i demoni accumulati per anni mi hanno quasi ucciso. Nel 2005, dopo una lunga depressione, ho iniziato a partecipare alle campagne per liberare persone ingiustamente accusate». E adesso? «Una delle cose che mi tiene vivo è andare in giro a raccontare la mia storia per aiutare chi è ingiustamente accusato. In questi giorni stiamo organizzando la campagna di liberazione per i due di Craigavon, accusati di aver ammazzato un poliziotto nel 2009. L’indagine non è stata regolare, non c’erano prove. In questo, il caso somiglia al mio».
Gerry ha vissuto per anni tra New York e Londra e, dopo la morte della madre, ha scoperto di avere una figlia e ha voluto ritornare a Belfast. Gli capita di aver paura di passeggiare per strada. «C’è ancora gente, tra i lealisti, che crede che io sia colpevole. La mia fidanzata a volte mi dice: è meglio che te ne stai a casa».
Lorenzo Moscia