Roberto Cotroneo, Sette 1/2/2013, 1 febbraio 2013
LA RIVOLUZIONE DI CARTA CHE NON PRESE MAI IL VOLO
Il mondo ormai va così veloce che le avanguardie sono diventate lente. Come quei treni che un tempo sembravano i più rapidi, e adesso al confronto con l’alta velocità sembrano lumache. Sono passati 50 anni dalla riunione a Solunto, vicino a Palermo, di una cinquantina di scrittori decisi a rompere con la tradizione letteraria italiana, con il neorealismo, con gli scrittori che allora pubblicavano per case editrici e scrivevano sui giornali. Erano un gruppo di giovani, ma non troppo giovani, nel senso che la maggior parte di loro aveva superato i 30 anni, e la gran parte oltretutto lavorava già nei centri del potere culturale, nelle case editrici, per la Rai, per i giornali, nell’università.
Si diedero un nome: Gruppo 63. Ma erano tutti cani sciolti in un gruppo compatto e omogeneo. Molti di loro sono oggi celebrati e famosissimi scrittori: Umberto Eco e Alberto Arbasino. Altri, critici letterari e dirigenti culturali come Angelo Guglielmi. Altri ancora critici d’arte come Renato Barilli e Achille Bonito Oliva. E poi poeti come Edoardo Sanguineti, Elio Pagliarani, Amelia Rosselli. Critici come Luciano Anceschi, Alfredo Giuliani, Furio Colombo. E ancora autori che hanno fatto la storia della letteratura come Giorgio Manganelli e Luigi Malerba. E ancora tantissimi altri.
Raccontarli oggi. Nelle foto che ancora circolano, e che abbondavano fino a vent’anni fa negli archivi fotografici dei giornali, appaiono signori più attempati allora di adesso. Molto per bene. Gente che aveva studiato e che non sopportava affatto il clima plumbeo di quegli anni. Gente pronta a tranciare di netto ogni filo che la legava al passato letterario. A fare piazza pulita di certi autori che allora rappresentavano il potere letterario e il mercato. Due nomi su tutti: Carlo Cassola e Giorgio Bassani. Definiti le “Liale” della letteratura, ovvero autori da romanzi rosa.
Cultura arrugginita. A darci l’occasione per riparlare del Gruppo 63, a cinquant’anni da allora, è un cofanetto firmato da Elisabetta Sgarbi, con un film intitolato Quiproquo. Che cos’è l’avanguardia? e un volume che accompagna con testo e fotografie la storia del film. Un film dove non si parla solo di letteratura e del Gruppo 63, ma anche di cinema e arte. Con interviste a Franco Battiato, Nanni Balestrini, Enrico Ghezzi, Rossana Rossanda, Ludovico Corrao, Vittorio Sgarbi e tanti altri. Interviste anche a gente comune sull’avanguardia, e anche ad attori. Tutti attorno a questo concetto che usiamo di continuo, che è diventato un nostro modo di raccontarci il futuro. Il nostro modo di guardare lontano. Un termine ambiguo, che dipende un po’ dalla maniera in cui lo usiamo. Se diciamo arte d’avanguardia o cinema d’avanguardia, immediatamente pensiamo a qualcosa che è difficilmente digeribile, fuori dal corso delle cose, antipopolare, elitario, commercialmente non interessante. Se parliamo di qualcosa che è all’avanguardia, allora diventa positivo, diventa il futuro. Per cui l’arte d’avanguardia è roba per élite. Essere all’avanguardia è, invece, decisamente di tendenza. In realtà per noi, vecchio Paese di cultura arrugginita, il problema dell’avanguardia non è una cosa da poco, anzi è un tema cruciale, che non riguarda affatto dispute molto esclusive tra letterati, artisti e filosofi. Ma ha profondamente a che fare con quello che siamo oggi, con la nostra vita e con il nostro futuro. In fondo, l’avanguardia è stata una fuga in avanti e una maledizione all’indietro. Come un pendolo costante. E devo dire che dal film della Sgarbi questo è del tutto chiaro.
Per raccontare questa storia di idee – perché le storie di idee si possono e si devono raccontare – ho bisogno di un’immagine. L’immagine è quella di un uomo ancora giovane, alto, i capelli pettinati all’indietro. Ben rasato. Quest’uomo è un famoso scrittore italiano, un signore che ha pubblicato molti romanzi. Il primo si intitolava Gli indifferenti. Si chiama Alberto Moravia. E l’immagine è Moravia che prende il treno per Palermo, in quel ’63 per andare a curiosare, vedere cosa intendessero fare gli avanguardisti della letteratura e della critica.
Contro l’ortodossia marxista. Generalizzare sul Gruppo 63 è davvero difficile. Ma tirava un’ariaccia. L’anno zero della letteratura doveva iniziare proprio da quel momento. Tolto di mezzo Cassola, ormai non in grado di contrastarli. Eliminato Bassani, che invece era caustico e capace di fulminarli tutti, accusato, come mi disse una volta Arbasino, di aver scritto un romanzo da aeroporto: Il giardino dei Finzi-Contini. Si trattava di fare i conti con Vasco Pratolini, con Pier Paolo Pasolini, con lo stesso Moravia. E poi con Eugenio Montale, Mario Luzi, e con Attilio Bertolucci e Andrea Zanzotto. Non era cosa affatto facile. Mondi diversi e un nemico lontano, l’ortodossia marxista, il neorealismo, l’intellettuale organico, Antonio Gramsci, Rinascita. E tutto quello che usciva da lì.
Va detto che non c’era bisogno di scrivere testi negli anni poi rinnegati per smarcarsi dall’opprimente controllo politico della sinistra. E l’avanguardia, quella storica, era di impronta futurista e ovviamente fascista. Mentre la neoavanguardia era una cosa diversa, ma nessuno sapeva cosa.
Sebastiano Vassalli, che allora era un giovin scrittore pieno di talento, pubblicava testi letterari oggi lasciati riposare in qualche suo cassetto. Furio Colombo, acuto e molto intelligente, si misurava con un’idea della letteratura che oggi non sottoscriverebbe. Nanni Balestrini andava verso il ’68 e il Vogliamo tutto, il suo libro poi più celebre, come fosse su un piano inclinato senza possibilità di frenare. Manganelli, Arbasino e Eco non si scomponevano, parlavano, discutevano: un po’ Saussure, un po’ Barthes, un po’ Joyce, Luigi Nono e John Cage, ma quando era il momento di scrivere, mica c’era da scherzare. Eco pubblicherà quasi vent’anni dopo Il nome della Rosa, Arbasino scriverà romanzi fluviali ma con una coerenza che di sperimentale non aveva nulla, e Manganelli cesellava libri coltissimi e impermeabili a qualsiasi velleità avanguardistica.
Gli altri no. Esiste anche un populismo avanguardistico e uno letterario. Achille Bonito Oliva a un certo punto dovrà inventare la transavanguardia perché finisce per rendersi conto che sotto l’ombrello dell’avanguardia ci può stare di tutto. Anche troppo. E l’avanguardia, in ogni caso, è la notte dove tutte le vacche sono nere.
L’eredità di Togliatti e gli editori. C’era chi si ispirava al monologo di Molly Bloom dall’Ulisse di Joyce, quello senza punteggiatura, e chi voleva rompere con il realismo moralista della nostra letteratura del dopoguerra, tra chi ce l’aveva con Giorgio Morandi e Alberto Burri e chi eleggeva Carlo Emilio Gadda al soglio più alto: quello dello scrittore italiano più importante del Novecento.
Ma erano trucchi. Gli intoccabili, quelli veri, stavano ben distanti. E anche le case editrici. Bassani pubblicava Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa per la collana che dirigeva per Feltrinelli, Elio Vittorini lo aveva rifiutato. Italo Calvino era ancora lontano dallo sperimentalismo, figuriamoci dall’avanguardia. I giornali che allora contavano, ovvero la terza pagina del Corriere della Sera e L’Espresso, vedevano come fumo negli occhi gli avanguardisti del ’63, e tutto quanto il resto, salvo poi chiamarne alcuni a collaborare. In realtà il Gruppo 63 fu un’avanguardia di carta, se così si può dire. Mordeva poco e di fatto cercava di capire come collocarsi nel panorama culturale. E, a parte qualche eccezione, non poté fare a meno di adeguarsi all’eredità di Togliatti, del Partito comunista, delle riviste e delle case editrici comunque allineate all’ortodossia marxista, con le dovute insofferenze. Einaudi in testa, Feltrinelli a seguire. Non certo Bompiani, che pubblicava davvero il meglio della saggistica mondiale (e questo era anche merito di Eco), e riguardo ad Adelphi, era ancora presto per lasciare qualche segno: nasce nel 1962, e dal 1964 comincia la pubblicazione dell’opera completa di Nietzsche.
Dentro il corso della storia. Le avanguardie insomma sono un nodo della storia, e nello storicismo si giocano la loro partita. È tutto un andare avanti e indietro, tra utopie rivoluzionarie e battaglie di retroguardie, innovazione. Inutile raccontare i poveri di Pratolini o i partigiani di Cassola, la letteratura è nel modo di raccontarli. Sta tutta nel linguaggio. Solo che, e in questo Eco nell’intervista del film ha ragione, Joyce – che sul linguaggio aveva innovato moltissimo – non ha mai pensato di essere un autore di avanguardia. E probabilmente le avanguardie storiche si sono definite in quel modo quando hanno avuto la sensazione di essere troppo dentro il corso della storia, per non finirne massacrate.
È accaduto con il futurismo, nobile movimento, oramai di assai difficile lettura e digestione. È accaduto con il Gruppo 63. E del Gruppo 63 non è rimasto niente. Un libro, un qualcosa che ha cambiato il Paese. Come per tutte le rivoluzioni di carta, ’68 incluso, l’innovazione e la modernità erano già arrivate prima. E l’avanguardia, o la neoavanguardia, erano solo il modo per comunicarle.
E allora torniamo al nostro Alberto Moravia. Prese il treno che da Palermo lo avrebbe riportato a Roma sapendo che nessuno lo avrebbe potuto mettere in discussione. Anche Pasolini non si preoccupò. Calvino rimase in silenzio. Eco e Arbasino erano già quelli che conosciamo. Montale avrebbe vinto un Nobel. Era la politica culturale che andava sconfitta, l’estetica marxista. Oggi a distanza di 50 anni dico che loro non ci riuscirono. In pochi anni si tornò persino indietro. Le armi delle avanguardie sono sempre caricate a salve. Fanno soltanto molto rumore.
Roberto Cotroneo