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 2013  febbraio 01 Venerdì calendario

«UN VESCOVO GAY HA IL DIRITTO DI DICHIARARLO»


Don Luigi Ciotti, fondatore del Gruppo Abele e dell’associazione antimafia Libera, è il prototipo della categoria “preti combattenti”. Non canta “Bella ciao” in chiesa, come ha fatto recentemente don Gallo, ma è sempre e comunque nella trincea degli ultimi: tossicodipendenti, testimoni minacciati dalla mafia, prostitute, barboni, giocatori d’azzardo andati in rovina.
Nato in Veneto e cresciuto in Piemonte, dimostra meno dei suoi 67 anni. Lo incontro a Torino. La stretta di mano è poco pretesca. Sul suo tavolo ci sono molti appunti. Ogni tanto li consulta e scandisce le parole per non essere frainteso: «Noi dobbiamo graffiare le coscienze». Per le Politiche del 2013, l’ex pm antimafia Antonio Ingroia ha cercato di reclutarlo nel suo movimento. La risposta di don Ciotti? Un gran rifiuto. Un no alla vita politica diretta, con chiunque. Quando gli ricordo che uno dei dirigenti di Libera, Gabriella Stramaccioni, ha accolto l’invito, il sacerdote barricadiero prima manifesta rispetto per la scelta, ma poi chiarisce: «Libera deve restare libera. Nessuno ci può tirare per la giacca. Al massimo, se la politica lo chiede, possiamo dare un suggerimento, come è successo con Benedetta Tobagi e Gherardo Colombo per il cda della Rai».
L’ultimo suggerimento dato alla politica?
«È nata da poco l’iniziativa www.riparteilfuturo.it: una petizione a cui vorremmo che aderissero tutti i candidati di tutti i partiti».
Lei, intervistato dal Fatto, ha detto che le liste elettorali sono orribili.
«Ci sono ancora molti nomi che avrei preferito non vedere. Ma è inutile citarli. Sono i partiti che dovrebbero sapere chi mettere da parte. Perché sui territori si sa chi ha davvero cattive frequentazioni, a prescindere dalle vicende giudiziarie».
La petizione…
«Chiediamo un impegno a chi si presenta alle elezioni: trasparenza totale sul curriculum e sui conflitti di interesse, e la promessa di appoggiare una legge anticorruzione degna di questo nome».
Quella approvata durante il governo Monti non è sufficiente?
«No. È monca, svuotata di significato, nonostante l’impegno del ministro Severino. È amaro assistere alla giostra delle decisioni prese sulla spinta di lobby o a tavolino, senza ascoltare le esigenze di chi sta per strada. È successo anche con il gioco d’azzardo».
Racconti.
«Noi siamo particolarmente attenti alla dipendenza dal gioco. Avevamo consegnato dati e studi alle Commissioni parlamentari. Sembrava andare tutto bene. Ma poi... Nell’ultima versione della legge approvata, la distanza delle macchinette per il video poker da luoghi sensibili, come le scuole, è cominciata a calare: da 500 metri a 400, a 300, a 200... ci siamo sentiti presi per il naso».
Mi fa l’esempio di un politico che le è sembrato capace di ascoltare più di altri le vostre istanze?
«Romano Prodi che è anche un amico. Bruno Tabacci e Livia Turco, due persone oneste. Ora ai candidati chiederei anche di mettere mano alla legge sul voto di scambio. Anche quella è incompleta. Per non parlare di quella sulle confische dei beni mafiosi».
L’ex ministro degli Interni, Roberto Maroni, nel 2010 ha inaugurato l’Agenzia per i beni confiscati.
«Iniziativa meritoria. Ma insufficiente: mancano gli strumenti per renderla operativa. Un esempio: ci sono banche che pretendono il riscatto del mutuo dalle amministrazioni o dalle associazioni cui vengono dati in uso gli immobili dei mafiosi. Capito? E chi lo ha concesso il mutuo ai malavitosi? Robe da matti».
Lei vive sotto scorta. A che punto è la lotta alla mafia?
« l problema è il mare in cui nuota il pesce mafioso. Un mare grigio, fatto di collusione e complicità a ogni livello».
Lei è celebre per distinguere la marijuana e l’hashish dalle droghe pesanti.
«Sì, ma dato che oggi tutto è illegale, quando un ragazzino mi dice: “Ho comprato solo un po’ di fumo”, io gli rispondo: “È inutile che vai al corteo antimafia se poi continui a finanziare le stesse mafie».
Democrazia. In vista delle elezioni, i vertici di molte associazioni cattoliche (Sant’Egidio, le Acli) si sono schierati con Monti.
«Valuteremo la loro coerenza rispetto a una storia che li dovrebbe spingere dalla parte dei poveri. Ne ho visti troppi di cattolici in politica masticati dai meccanismi di Palazzo e ridotti a schiacciare un pulsante».
Il governo Monti…
«Ha ridato lustro al Paese a livello internazionale. Ma le fasce più deboli sono state penalizzate. La piccola borghesia scivola verso la povertà. Da noi viene gente in giacca e cravatta a chiedere un pasto. È drammatica la perdita di senso di queste vite. E questo anche grazie al coma etico in cui il Paese è ridotto. I politici cattolici devono tornare a occuparsi degli ultimi. La politica che non si occupa dei cittadini in difficoltà è un imbroglio, non è politica».
È vero che lei ha vissuto l’infanzia in grande povertà?
«La mia famiglia si è trasferita a Torino dal Veneto quando avevo cinque anni. Per un bel po’ ho vissuto nella baracca del cantiere dove lavorava mio padre. Il padrino della mia cresima è stato il macchinista della gru. Ero povero in mezzo ai ricchi. Ho sperimentato il giudizio sprezzante dei compagni di scuola. I giudizi fanno male. Il Gruppo Abele ha anche accolto un movimento di cattolici omosessuali: Davide Gionata. Lo sa qual è la loro emergenza?».
Una legge sulle coppie di fatto?
«Chiedono rispetto. Non vogliono essere giudicati con semplificazioni sprezzanti».
Qualche giorno fa, in radio, lei ha detto che non troverebbe così assurdo se un vescovo si dichiarasse gay.
«Lo ribadisco. Se quel vescovo avesse bisogno di essere ascoltato, guai se fosse obbligato al silenzio. L’importante è vivere la propria dimensione in modo trasparente».
Lei è favorevole ai matrimoni gay?
«Non mi irrigidisco sui termini. Ma sono radicale nel chiedere che a tutti e a ciascuno vengano riconosciuti gli stessi diritti. Deve valere per le nostre chiese, ma è obbligatorio, senza se e senza ma, per lo Stato di diritto».
Ha un senso che a Roma la Chiesa abbia dato sepoltura al malavitoso Enrico De Pedis nella Basilica di Sant’Apollinare e abbia rifiutato il funerale a Piergiorgio Welby, colpevole di aver chiesto l’eutanasia?
«No. Sono stato vicino e continuerò a esserlo alla famiglia Welby».
Qual è l’errore più grande che ha fatto?
«Non aiutare chi mi chiedeva una mano».
Ma lei aiuta talmente tante persone...
«Già, ma capita di dover dire dei no tremendi. Di non avere altri strumenti. Tempo fa un giovane mi ha chiesto un po’ di soldi. Io non volevo darglieli perché sapevo che li avrebbe usati per bucarsi. Mi ha lasciato un biglietto sul quale c’era scritto: “So che lo hai fatto per me. Ma io non ce la faccio”. Si è tolto la vita».
La scelta che le ha cambiato la vita?
«Avvicinarmi a un barbone che stava seduto su una panchina, a Torino. Era un medico che la vita aveva sbattuto in mezzo alla strada. Mentre parlavamo mi indicò un gruppo di ragazzi che entravano in un bar: usavano farmaci e alcol per fabbricare un cocktail, una bomba. Mi incitò: “Sei giovane. Dovresti fare qualcosa”».
Era già prete?
«No, avevo diciassette anni. In quel momento cominciai a cercare un modo per lottare contro le dipendenze. Nacque l’idea del Gruppo Abele. All’inizio mi dicevano tutti di lasciar perdere perché erano “cose da grandi”».
Quando è diventato sacerdote?
«Nel 1972. Il vescovo di Torino, Michele Pellegrino, che si faceva chiamare “Padre”, dopo avermi conosciuto, ha seguito e incoraggiato la mia attività con le prostitute e i tossicodipendenti. Quando mi ha ordinato sacerdote ha detto: “La tua parrocchia sarà la strada”. Non mi ha mandato a insegnare i dettami della Chiesa, ma a riconoscere il volto di Dio in chi fa più fatica».
Tra Gruppo Abele e Libera, quante persone lavorano con lei?
«Tante. Migliaia. Col Gruppo Abele, oltre che nelle comunità in Piemonte, siamo anche in Messico e in Costa d’Avorio. E Libera mette insieme milleseicento associazioni tra cui Legambiente, l’Agesci, Arci, Azione Cattolica».
Il Gruppo Abele si occupa molto di dipendenze. Qual è la dipendenza che in Italia è più sottovalutata?
«Quella dalla Rete. Parlo con mamme di ragazzi alienati che dicono: “Mio figlio sta in camera sua, non disturba, non è mica come quelli per strada…”. Noi adulti dovremmo entrare nel mondo dei giovani, conoscerlo e diventare maestri di coerenza e di sana inquietudine. La nostra società si preoccupa dei ragazzi, ma non se ne occupa. Invece dovremmo dare una mano ai giovani a colmare la vita… di vita».
A cena col nemico?
«Non ho nemici».
Ha un clan di amici?
«Ne ho molti. Gli amici più stretti sono Leo, Fabio, Emanuela, Myrta, Gabriella, Enrica».
Che cosa guarda in tv?
«Quasi soltanto telegiornali».
Il film preferito?
«Quasi amici, un inno alla vita e alla bellezza dell’impegno. E I cento passi, pellicola che ha fatto bene alla lotta alla mafia».
Negli ultimi anni alcune fiction sono state criticate perché descrivevano i mafiosi come troppo affascinanti.
«La storia di mafia accattivante, interpretata dall’attore bello e vincente, effettivamente crea un rischio emulazione. Abbiamo studiato questo aspetto. Basterebbe ogni tanto mettere in buona luce le persone che si impegnano per il cambiamento, le cose positive».
La canzone?
«Tutto De André. Sono tra i sostenitori della Fondazione a lui dedicata».
Il libro?
«Colti da stupore di Carlo Maria Martini. Sono incontri con Gesù e ti riempiono. A cinquant’anni dal Concilio abbiamo bisogno di respirare aria fresca».
Servirebbe un altro Concilio? Il Vaticano III?
«Che sia un Concilio o che sia altro, si dovrà trovare il modo di reinterpretare la società, che ormai cambia e si trasforma con una velocità impressionante».
Sa quanto costa un pacco di pasta?
«Quella di Libera è biologica e costa un po’ di più. Quella normale a Torino si trova anche a sessanta centesimi».
Conosce i confini di Israele?
«Li conosco, mi preoccupano e spero che al più presto ogni popolo abbia il suo Stato. Se vuole mi può chiedere anche i centotrentanove articoli della Costituzione».
Mi ha già citato lei il terzo.
«Vabbè, se me li chiede le rispondo che i primi dodici sono meravigliosamente legati uno all’altro».
Vittorio Zincone