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 2013  febbraio 01 Venerdì calendario

E CHAPLIN PIANGENDO DISSE: DE SICA, LEI È TROPPO AVANTI


C’era una canzone degli Stadio dal titolo Chiedi chi erano i Beatles. Spiegava cos’era stata una generazione. Ce ne vorrebbe un’altra dal titolo Chiedi chi era Vittorio De Sica. Per spiegare cosa è stata un’altra generazione e per far capire, ai ragazzi di oggi, che l’Italia ha avuto un grande avvenire dietro le spalle (anche se sembra quasi incredibile).
È quello che si propone di fare la grande mostra Tutti De Sica (che sta per aprirsi a Roma: dall’8 febbraio all’Ara Pacis) sul regista di Ladri di biciclette, sull’attore che faceva compagnia in teatro con Sergio Tofano, sul cantante di Parlami d’amore, Mariù, sull’interprete del Generale Della Rovere, il film di Roberto Rossellini, sul plurivincitore di premi Oscar.
Nell’attesa dell’apertura della mostra, ho fatto un sopralluogo a Roma e sono stato nelle due case del regista. Quella ai Parioli (dove viveva con l’attrice Giuditta Rissone e dove ora abita la figlia Emi). E quella all’Aventino (dove viveva con l’attrice Maria Mercader e dove ora abitano i figli Manuel e Christian). Una sera De Sica dormiva in una casa, la sera dopo nell’altra. Manuel racconterà in un libro, Di figlio in padre, in uscita ad aprile da Bompiani, i litigi furiosi tra Vittorio e Maria che, una sera sì e una no, sentiva dalla sua cameretta e che gli sono costati, da grande, diverse sedute dallo psicoanalista.
La parola definitiva su quel doppio ménage la dice Emi: «Papà non voleva far soffrire nessuno. Men che mai le due donne della sua vita e i suoi figli. Fu bigamo per troppo amore».

Ritratto del padre fatto dai figli. Comincia Christian: «Abbiamo ritrovato, e sarà in mostra, un baule bianco e nero, di foggia molto elegante, che aperto diventa quasi una cabina armadio e che porta le iniziali VDS. Questo baule conteneva il corredo dell’attore secondo l’uso del tempo e cioè: 1 frac, 1 smoking, 1 abito blu da cocktail, 1 abito da cavallerizzo, 1 tenuta da tennis, 1 vestaglia. Tutto firmato dai più bravi sarti dell’epoca. Era il guardaroba minimo che un attore doveva avere. Papà salì in scena a 11 anni interpretando la parte di un bambino figlio della grande diva Francesca Bertini. Aveva una battuta di due sole parole: “Mamma! Mamma!”».
Emi: «Papà diventò attore per volere di suo padre Umberto, cosa impensabile per i costumi rigidi dell’epoca. Anche perché il nonno era impiegato alla Banca d’Italia e pure papà era stato appena assunto lì. Ma contemporaneamente, gli era arrivata la proposta di entrare nella prestigiosa compagnia teatrale di Tatiana Pavlova. Il padre gli consigliò di fare l’attore. Per molto tempo gli fecero pronunciare una sola battuta che diceva: “Io sono la morte”. Finito lo spettacolo, papà andava in camerino si svestiva, si struccava e usciva. Fuori ad aspettarlo c’era suo padre che gli faceva una recensione personale: “Vittorio, questa sera la battuta l’hai detta meno bene che ieri”. Oppure il contrario se gli era piaciuto».
Christian: «Mio padre era così magro, emaciato (moriva di fame) che prima di andare in scena il regista gli faceva mettere in bocca dei batuffoli di cotone, come Marlon Brando nel Padrino, per riempirgli quelle gote scavate e così, nel bel mezzo di una romantica scena d’amore, papà cominciava a sputacchiare dalla bocca filamenti di cotone».
Emi: «Ho ritrovato il piccolo album in cui nonno Umberto raccoglieva i primi ritagli di giornale che parlavano di suo figlio. Non erano articoli, erano trafiletti, talloncini. Dove si diceva che la compagnia Pavlova era andata in scena e tra gli attori citati c’era anche “il De Sica”. E nient’altro. Ma il nonno conservava quei ritagli come reliquie».
Christian: «Papà aveva qualcosa di camaleontico. Fece i capolavori che fece ma fece anche tanti filmetti d’evasione e fece perfino la pubblicità in Spagna alle camicie Labipon. Sa come diceva Luchino Visconti? “Vittorio fa tutto e fa tutto bene. Come Tiziano”».
Emi: «Un giorno andò nel suo camerino Cesare Zavattini, che papà non conosceva, e gli disse “Ho una idea per un film: un uomo inseguito da un sassofono”. La proposta strampalatissima convinse papà seduta stante di aver trovato il suo sceneggiatore. E non si sbagliava».
Christian: «Tutto cambiò con I bambini ci guardano. Fu allora che papà e Zavattini decisero che il cinema dei telefoni bianchi e delle donne con al collo volpi (bianche pure loro), il cinema dei salotti e delle commedie ambientate in Ungheria (perché troppo peccaminose per essere ambientate nell’Italia fascista) era finito. “Vittorio, abbiamo bisogno di dire la verità”, disse Zavattini. “Hai ragione, Cesare”, disse papà».
Emi: «C’è un dolore nei Bambini ci guardano che fa male ancora oggi, un dolore ancora vivo come quando il film fu girato».
Christian: «Un giorno stavano lavorando alla sceneggiatura di Ladri di biciclette e si erano incagliati su una scena in cui il protagonista, Lamberto Maggiorani, attore non professionista che papà aveva preso letteralmente dalla strada, usciva di casa con un giornale in tasca. Uno degli sceneggiatori, il grande Sergio Amidei, sosteneva che il giornale dovesse essere l’Unità. Un’altra sceneggiatrice, la non meno grande Suso Cecchi D’Amico, voleva che il quotidiano fosse Il tempo. Cesare Zavattini proponeva che Maggiorani uscisse di casa senza un giornale in tasca ma con una mela in mano. Chiesero a papà cosa ne pensasse. E lui rispose: “Per il cinema che voglio fare io la cosa giusta è la mela”».
Emi: «Gli americani erano interessati a produrre Ladri di biciclette ma invece dello sconosciuto Lamberto Maggiorani volevano come protagonista Cary Grant. Papà se ne tornò in Italia».
Christian: «Una sera a Hollywood ci fu una proiezione privata di Sciuscià a casa della grande attrice Merle Oberon, nel pubblico c’era anche Judy Garland. E c’era Charlie Chaplin, il più grande di tutti secondo papà. Finita la proiezione ci fu un silenzio totale. Papà pensò al peggio. Poi Chaplin, con gli occhi pieni di lacrime, disse: “De Sica, torni in Italia perché qui è troppo presto per film così”».
Manuel: «Il film più bello di papà è Umberto D.».
Christian: «Il film più bello di papà è Umberto D.».
Emi: «Il film più bello di papà è Umberto D.».
Manuel: «Chiamò il protagonista Umberto in omaggio a suo padre».
Emi: «È la storia di un vecchio, di un cane bastardo e di una servetta ignorante. Non c’è altro, nessuna concessione allo spettatore, nessun aiuto. E non cercate risvolti psicoanalitici: chiamò il protagonista Umberto così come si dà il nome del proprio padre a un figlio».
Christian: «Umberto D. inizia con la scena di uno sciopero dei pensionati, era il 1952, bisogna aggiungere altro per dire quanto papà era avanti? Quanto Chaplin avesse ragione su di lui?».
Manuel: «Non gli piacevano i film con protagonisti che erano superuomini. Non gli piaceva l’agente 007, non gli piacevano i western con John Wayne. Lui era per gli eroi umili, deboli, oppressi. Una domenica Emi e io eravano molto eccitati perché dovevamo andare a vedere L’esorcista, il film che stava terrorizzando mezzo mondo. Papà a un certo punto fece una requisitoria contro il genere horror e, alla fine, per convincerci disse: “Ma lo sapete che cosa succede la notte a Christopher Lee, l’attore di Dracula?”. E che gli succede?, chiedemmo noi. “Succede che Christopher Lee, il terribile Dracula, ogni notte viene menato dalla moglie”».
Christian: «Papà aveva perso tutto al gioco e Harry Saltzman, il produttore di 007, gli affidò una regia. Poi, a Natale, gli regalò una valigetta 24 ore di coccodrillo, con le iniziali VDS in oro, una cafonata mai vista, roba da trentamila euro di oggi. C’è anche quella in mostra e dice un po’ come era fatto allora il mondo dei cinema».
Emi: «Sulla passione per il gioco di papà si è detto anche troppo. In realtà, non era questo pazzo invasato che descrivono. Si sapeva controllare. Il resto è leggenda».
Christian: «Quando papà giocava e perdeva tutto se era a Sanremo il padre di Eugenio Scalfari, che era il direttore del casinò, gli dava il viatico. Cioè i soldi necessari a pagarsi il biglietto di ritorno in treno, qualcosa da mangiare, le sigarette».
Emi: «Quando entrava in casa lasciava il cinema fuori dalla porta. Era un borghese tranquillo e un po’ matto. A volte entrava in cucina e lanciava una palla alla cameriera. “Che fa, signor De Sica?”, chiedeva la donna. E lui: “Niente, giochiamo?”. Ma sapeva essere severissimo, soprattutto con me che ero la figlia femmina. La prima volta che gli chiesi se potevo uscire con un ragazzo, lui mi rispose: “Sì, amore, fallo e io te spiezzo ’e gambe”. Però mi diceva sempre: “Ogni tuo desiderio è un ordine”».
Christian: «Papà diceva che i produttori non leggono le sceneggiature (magari qualcuno non sapeva neanche leggere) e perciò quando voleva proporre un film preferiva raccontarlo lui direttamente al produttore interpretando tutte le parti. Gli faceva da spalla il suo grande amico Peppino Amato che, mentre papà raccontava la scena, faceva il commento musicale imitando i suoni di un’orchestra, le trombe, gli archi, i tamburi, per sottolineare la progressione drammatica. Ma a volte Peppino si faceva prendere la mano e papà gli sussurrava: “Piano, Peppino, non esagerare, mi rovini l’effetto”. Amato fu il produttore di un capolavoro come La dolce vita. Aveva un grande fiuto ma aveva anche uno strano rapporto, tutto suo personale, con la lingua italiana. Quando faceva un nuovo film con papà gli diceva come augurio: “Vitto’, il successo di questo film è certo, certissimo, anzi probabile”».
Manuel: «Papà tornò da New York entusiasta di West side story. Quando il film, tratto dal celebre musical, arrivò a Roma portò subito me e Christian a vederlo. Il cinema era pieno. Papà era concentratissimo ed eccitatissimo pregustando l’inizio del film. Un ragazzotto che era seduto lì accanto disse a un suo amico: “Ce l’hai una Marlboro?”. Allora papà tuonò facendo tremare tutto il cinema: “Zitti, romani cafoni!”».
Emi: «Quando fece i provini per La ciociara a Sophia Loren, papà non era completamente soddisfatto. “C’è qualcosa che non va, c’è qualcosa che non va», diceva ma non riusciva a capire cosa. Lui aveva raccomandato alla Loren che per quel film la voleva con la faccia “lavata”, senza un filo di trucco. E l’attrice aveva obbedito. Eppure qualcosa non tornava. Richiamò la Loren e la guardò di nuovo. Poi di colpo urlò: «Sophia, ma tu ti sei fatta le mèches, levale subito: la Ciociara non porta le mèches».
Manuel: «Per La ciociara papà aveva pensato ad Anna Magnani. Finalmente poteva lavorare con lei. Papà considerava la Magnani e Marcello Mastroianni i due più grandi attori italiani. Carlo Ponti era d’accordo ma voleva che Sophia facesse la parte della figlia della Ciociara, la ragazzina che viene violentata. Allora papà insorse, ma Sophia non è credibile nella parte di una ragazzina violentata, con il carattere che ha sarebbe lei a violentare gli aggressori. E così sacrificò la Magnani e diede la parte della Ciociara alla Loren e quella della figlia a Eleonora Brown. Nannarella se la legò al dito. Passò molto tempo e una sera per caso, ero al ristorante con papà, entrò la Magnani, non si erano più né rivisti, né sentiti. Subito mio padre si alzò in piedi per salutarla ma temendone la reazione. Anna puntò decisa verso di lui e disse: “Vitto’, te possino…”, e poi lo strinse in un abbraccio».
Spero di aver dato un’idea di chi era Vittorio De Sica. Il resto, sarà in mostra.
Antonio D’Orrico